V. Silenzi e storie
Capitolo di passaggio, più lungo degli altri perché non ho voluto spezzarlo. Enjoy , il prossimo arriverà fra una settimana o poco più ;)
Ps: Già che ci sono approfitto per ringraziare chi sta leggendo. So che le visualizzazioni bisogna prenderle con le pinze, comunque la storia ne ha raggiunto un buon numero in poco tempo così come i voti! Ecco, grazie soprattutto di questi ultimi che aiutano, a quanto ho capito, a rendersi più visibili al famigerato algoritmo. Grazie poi ai lettori di mie vecchie storie che, non contenti di avermi sopportato negli anni passati, si avventurano anche qui: voi sì che siete esempi di pazienza xD
Se oltre alla lettura o ai voti voleste lasciare anche un commento di tanto in tanto, nel modo peraltro a mio parere molto "sciallo" che consente questo sito, sappiate che non mordo al contrario di questi lupetti :P
V.
C'era silenzio, un silenzio di luna.
Il lupo bianco stava dormendo nella sua gabbia, il manto candido che riluceva sotto le luci fredde del vetro. Gli occorsero alcuni istanti prima di aprire gli occhi e accorgersi della presenza di Andrej.
"Ciao" fece lui, facendo vibrare il pensiero dalla fronte alla gabbia.
Era in piedi, di fronte a lui. Il lupo lo guardò senza rispondere.
"Sei loquace, eh?" continuò.
Ancora nessuna risposta.
Andrej non sapeva come comportarsi: finora aveva avuto a che fare con esseri simili a lui, che sì, erano lupi, ma erano anche umani e con quella natura interagivano col mondo. Quel vulkulaki invece... Non fosse stato per la capacità senziente che non poteva avere un animale, sarebbe sembrato un lupo a tutti gli effetti.
Lo trovava interessante, forse ne era affascinato. Forse, ancora, lo invidiava.
"Vorrei che non mi considerassi un nemico" proseguì, sapendo benissimo che quelle parole sarebbero rimbalzate contro la gabbia di vetro. "Sto cercando di aiutarti."
"Mi hai catturato" arrivò allora la sua voce – il suo pensiero –, gelido, inclemente, pieno di rancore e astiosità.
Gli vennero in mente le parole di Lukas, dette solo il giorno prima: È stato catturato, è in balia dei Novikh, si è già scavato la fossa.
E poi: In guerra non c'è spazio per i buoni sentimenti; in guerra, come nella vita, è alla tua pelle e a quella dei tuoi compagni che devi pensare.
Queste gliele aveva sentite dire molto tempo prima.
"Tu ti sei fatto catturare" se ne uscì, allora, seguendo quel corso di pensieri.
Il lupo bianco alzò di scatto il capo. I suoi occhi erano nerissimi, ostili e inquieti.
"Sono stato catturato a causa delle armi di cui tu ti sei servito, mezzosangue."
"Andrej" gli venne quasi da pronunciarlo a voce alta. "Il mio nome è Andrej."
"Non mi importa il tuo nome."
Lui invece avrebbe voluto sapere quale fosse il suo.
"La tua cattura è stata un errore, te l'ho già ampiamente spiegato." Non trattenne un sospiro. "Ripagherò tirandoti fuori da qui. Ora devi solo avere pazienza e..."
"Non voglio avere niente da spartire con te" fu il basso sibilo accompagnato dal movimento del corpo che si girava. Il lupo si alzò e gli diede le spalle, ammantato da quell'aria fiera, di dignitosa sfida che sembrava come una seconda pelle per lui.
Andrej continuava a chiedersi chi fosse, perché fosse venuto lì, cosa lo avesse portato in quella città; qual era la sua storia, come dovevano essere i suoi occhi sotto forma umana. Erano sempre così neri? Neri come un baratro davanti a cui si prova il brivido della vertigine.
"Sarai costretto a farlo perché io sono l'unico, qua dentro, che può farti fuggire."
"Non ho bisogno del tuo aiuto."
Allora morirai, pensò.
"Morirai" disse.
"Meglio la morte che abbassarsi alla vergogna" fu la risposta, che sapeva di un detto ripetuto infinite volte come un mantra più che una constatazione del momento.
"Da dove vieni?" chiese e, non ricevendo risposta, con solo la sua schiena con cui dialogare, provò a indovinare: "Siberia? Caucaso? Georgia? Kazakistan?"
Ancora silenzio.
"Siberia" azzardò. "Hai il muso da siberiano."
Ci fu un ringhio, riuscì a riavere la sua attenzione: si girò e snudò i denti con fare minaccioso. "Muso?"
"Tecnicamente i lupi hanno un muso, non un volto." Si carezzò il proprio. "Non mi fai vedere il tuo?"
"Il mio volto è il mio muso."
"Sei come me: hai anche una parte umana."
"Io sono diversissimo da te."
"Vero. Sarai più puro, ma sei anche più stupido."
Un altro ringhio.
"Ascoltami" insistette. "Con questo atteggiamento non andrai da nessuna parte. Se devo liberarti, ho bisogno che tu ti trasforma nella tua parte umana."
"Non mi trasformerò per te."
"Non è per me, è per te. Ma dico" trattenne uno sbuffo, "siete tutti così voi lupi puri? Così attaccati all'orgoglio da essere dei potenziali suicidi? Non vuoi vivere? Io ti sto offrendo questo: la vita."
C'è chi si gode la vita, c'è chi la soffre, invece noi la combattiamo, aveva sentito dire un'altra volta a Lukas. Aveva l'aria di essere un motto. ¹
Dal lupo bianco non ci fu nessuna risposta.
Andrej si stava irritando, e non poco. Era come parlare a un muro; le sue parole, la mano tesa che gli stava tendendo, cozzavano contro il vetro senza trovare spiragli. Lui voleva aiutarlo. Forse lo faceva un po' anche per il senso di colpa: in fondo era stato a causa sua se era stato catturato. Voleva rimediare. Era stufo di vedere persone morire senza poter far nulla per impedirlo.
"Vuoi vedere il mio aspetto da lupo?"
L'altro fece un movimento con la testa. Lo scrutava.
"A cosa servirebbe?"
"Magari ti darebbe un po' di fiducia."
"Non mi fido di te."
"Non ti fidi di me come essere umano, va bene, posso capirlo. Puoi però tentare di fidarti di me come tuo simile? Se fossi al tuo posto, vorrei qualcuno di cui fidarmi."
Il lupo emise un ringhio che sapeva di derisione, ma non ribatté. Andrej lo considerò un incentivo a trasformarsi.
Lo fece davanti ai suoi occhi dopo aver preso le dovute precauzioni. Non c'erano telecamere nella stanza e la porta era chiusa a chiave. Assunse forma di lupo con la naturalezza di cui ormai era capace. Le prime trasformazioni, a quindici anni, erano state dure, sia fisicamente sia mentalmente. All'inizio erano le emozioni che straripavano dall'animo a innescare la trasformazione: bisognava imparare a controllarle, ingabbiarle in modo da potersene servire quando si voleva. Lui pensava sempre a suo padre, quando si trasformava: era l'odio l'emozione che gli serviva.
"Mi trovi meglio così?" chiese in tono scherzoso, rigirandosi davanti alla gabbia.
Si guadagnò un altro ringhio.
Doveva dire che si stava abituando a quei modi tutto meno che accomodanti, quindi non ci badò. Si avvicinò alla gabbia, cogliendo il riflesso di un lupo dal pelo scuro, gli occhi blu inchiostro. Si distese supino davanti all'altro, solo la barriera di vetro a separarli.
"Perché non te ne vai?" gli chiese il lupo bianco dopo considerevoli istanti di silenzio.
"Perché non voglio lasciarti solo."
La solitudine era qualcosa che lui, sinceramente, aveva sempre fuggito, ma quel vulkulaki non doveva essere della stessa opinione.
"Voglio essere lasciato solo."
"Dimmi il tuo nome."
"Sei insistente. Lasciami in pace."
"Solo il tuo nome, non chiedo tanto. Il mio te l'ho detto."
"Non..."
"Non si può vivere da soli, sai? Anche se sei forte non riesci a vivere da solo."
Quella frase rimbombò in un'eco.
Il lupo bianco gli diede le spalle. Andrej emise un sospiro tra le zanne. Non si spostò. Era inutile e anche un po' patetico rimanere lì, facendosi trattare in quel modo, ma davvero non voleva lasciarlo solo. Pensava a come si sarebbe sentito lui, imprigionato, abbandonato dal mondo, senza neanche avere qualcosa da graffiare se non il freddo vetro.
Passarono vari minuti di silenzio prima che una voce lo spezzasse: "Sereb."
Andrej alzò il capo, tendendo le orecchie. "Come?"
"È il mio nome."
Sereb. Ricordava la parola argento.
"È per il colore della tua pelliccia?"
"Non farmi domande."
"Il mio nome non ha un gran significato. Credo che mio padre me lo abbia dato così, senza neanche pensarci. Penso che a volte non si nasca coi nomi che si dovrebbero avere come altre volte non si nasce nella pelle che si vorrebbe."
Anche quell'ultima affermazione fu accolta nel silenzio.
Mi ha detto il suo nome, pensò. È un passo avanti.
"Vieni dalla Siberia? Ci ho azzeccato?"
"Basta domande."
"Devo averci azzeccato."
Andrej sorrise mentalmente, chiudendo gli occhi e stendendosi per terra. Gli sembrava di essere tornato ai tempi in cui era un cucciolo e si nascondeva negli anfratti delle strade, trasformandosi per avere più protezione dal gelo della notte. Se sentiva anche il minimo rumore, si ritrasformava o al massimo faceva finta di essere un cane randagio particolarmente grosso. Ma mai nessuno dei derelitti che vagavano nelle vie di Mosca si fermava a gettare uno sguardo a chi si nascondeva sotto i giornali o i pezzi di lamiere, che fosse un cane, un bambino o un uomo. Nessuno aveva tempo, né forza di occuparsi di qualcun altro. Anche lui lo aveva imparato.
Era stato tempo dopo che era incappato in Sergej e la sua druzina.
"Buonanotte, Sereb."
Un grugnito da parte dell'altro e poi ancora quel silenzio che non lo disturbava. Era come un fiato che gli correva dentro, rapido e rassicurante. Nell'assenza di parole provava uno strano conforto; la presenza silente del lupo bianco glielo donava.
Si sentiva sereno come non si sentiva da anni. Per una volta, in pace.
***
Sentì il rumore dei suoi passi prima ancora del cigolio di cardini arrugginiti.
«Finalmente» non si trattenne dall'esclamare e si alzò. Si accorse subito che c'era qualcosa di strano. «Cosa ti è successo? Sei ferito?»
Ilyas scosse la testa. Aveva le labbra tirate in una smorfia e si massaggiava il fianco. Buttò sul tavolino di quella squallida stanza di una squallida stamberga una busta piena di kradija. Bianca, fine; sembrava di ottima qualità, per quanto se ne intendesse lei di quella roba.
«Il bottino della serata» annunciò lui con voce piatta.
Aisha sentì l'odore del sangue.
«Sei ferito.»
Non era più una domanda: si avvicinò, ma lui si scostò.
«Sto bene.»
«Fammi vedere.»
«Sto bene, ti ho detto.»
«E io ti ho detto di farmi vedere» insistette e, decisa, lo prese per il braccio, annusò da dove proveniva l'odore. La nuca: aveva sanguinato dalla nuca.
«Ho già frenato il gettito» smozzicò lui. «È tutto a posto, ho preso solo una botta, un po' violenta, ma...»
«Com'è successo?»
«Incidente di percorso.»
«Ilyas» lo avvisò, tono fermo, ma non poté evitare che lui si scostasse di nuovo, allontanandosi e raggiungendo l'unico divanetto della stanza su cui anche lei prima stava seduta in attesa del suo ritorno.
Era sempre stato così. Da più tempo di quanto ricordasse – in realtà era passato poco più di un anno – funzionava in quel modo: lui si imboscava nella notte per racimolare i soldi per poter andare avanti, lei lo aspettava. Gli sembrava, a volte, di aspettarlo da tutta una vita.
Ilyas si abbandonò sul divano, emettendo un sospiro a metà tra la stanchezza e la frustrazione. Guardava dritto di fronte a sé, le labbra piegate all'ingiù in quella smorfia che gli irrigidiva la maschera già dura dei lineamenti.
«Ne ho incontrato un altro. Sembra di stare in un raduno qui a Mosca.»
«Un altro chi?» chiese Aisha, avvicinandosi.
«Un altro di noi.» Si volse a guardarla, gli occhi quasi scuri, di un verde cupo e penetrante, nella penombra. «Un altro uomo-lupo, quello che ho derubato.»
«Hai derubato un nostro simile?» domandò, agitata ora. Di solito era in grado di rimanere calma e mantenere i toni come la postura e l'espressione impassibili, ma quella rivelazione la scosse.
«Un fottuto figlio di puttana, non ti far venire sensi di colpa, non certo uno come il cucciolotto che ci siamo affibbiati.» Altra smorfia, meno amara questa.
«Chi era?»
«Si chiama Lukas, penso abbia fatto il militare, dice di comandare una druzina.»
«Una druzina?» Un'altra vibrazione di panico minacciò di farle incrinare la voce. «Come hai potu...»
«Come potevo accorgermene? Pensavo che fosse uno dei soliti stronzi che si dà arie dietro i muscoli, facili poi da buttar giù.»
«Ti ha fatto male?»
Si sedette accanto a lui, provò ancora a toccarlo, ma lui non glielo permise.
«Non troppo. Era più grosso» soffiò e distinse una nota stizzita nel suo tono, come... infastidita. Poi sospirò. «Ma alla fin fine un imbecille come tutti gli uomini.»
Aisha preferì non approfondire. Quando parlava di "imbecillità degli uomini" Ilyas, pur essendo parte della categoria, si riferiva soprattutto alla sfera sessuale. Ecco, quello era un argomento che non affrontavano spesso. Lei non si era più azzardata a farne anche solo un cenno dopo che erano scappati dalla colonia di Darial, dopo quel che era successo lì.
Provò ancora a toccarlo, gli sfiorò la spalla e lui glielo fece fare. Guardava davanti a sé, il profilo rigido scavato dall'ombra.
«Ce ne sono parecchi in questa città» gli sentì sussurrare.
«Pensi che siano organizzati?»
«Probabilmente sì. Una città come Mosca... Non devono vivere in cattività come altrove, ma in gruppo. Ci deve essere qualcuno o qualcosa che controlla tutto. Questo significa» la sua voce si fece più spessa e affilata, «che siamo nei guai.»
Aisha esitò. «Hai ucciso questo vulkulaki?»
Lui si voltò di scatto e quasi le sgranò gli occhi in faccia. «Certo che no. Anche se se lo sarebbe meritato, lo stronzo.» Un altro sibilo, ghiaccio sfregato su una lama. «Gli ho solo dato una lezione che non credo dimenticherà con molta facilità.»
«Questa è una battuta già sentita, Ilyas.»
«Beh, è la verità.»
Lei si lasciò sfuggire un sospiro, poi gli prese la mano, questa volta con fermezza. «Fatti curare.»
«Non voglio che lo fai.»
«Perché continui a preoccuparti? Voglio rendermi utile.»
«Non ce n'è bisogno.» Si alzò di scatto, squadrandola dall'alto. «Ti fa stancare curare le ferite, non dovevi farlo neanche con quel ragazzino.»
«Quel ragazzino ha un nome: Sasha.» Si alzò a sua volta, fronteggiandolo. «E smettila di dirmi cosa posso o non posso fare. Smettila di proteggermi. So quali sono i miei limiti. Per favore, fatti curare.»
E alla fine lui cedette. Mugugnando, trattenendo una smorfia, si sedette e acconsentì a girarsi e offrirgli la vista di dove gli era uscito il sangue. Aveva una ferita alla nuca, non profonda, ma consistente. Aisha vi posò le dita sopra, piano, con delicatezza. Sentì i polpastrelli infondersi di calore e quel calore trasmettersi alla pelle sotto di sé. Assomigliava a energia che fluiva. Nonostante non vedesse nulla, le sembrava di percepire un flusso fermo e costante fluirle dalle dita, quando usava quel potere.
L'affaticava. Dipendeva da quanto ne usava e in che circostanze, dalla gravità della ferita; ogni volta, comunque, energia fluiva via da sé per spostarsi a un altro. Avrebbe parlato di legge della fisica: come in natura nulla si crea, nulla si distrugge, ciò valeva anche col suo potere, che la consumava. Sua madre, se fosse stata ancora viva, avrebbe detto piuttosto: ognuno ha il suo prezzo da pagare.
Quando finì, trattenne un sospiro stanco e sgranchì le dita, mentre Ilyas si voltava e la scrutava a fondo.
«Stai bene?»
«Sì.» Gli sorrise. Lui era l'unica persona con cui riuscisse a sorridere con naturalezza. «Non ti preoccupare. Tu come ti senti?»
«Meglio, grazie. Comunque rimango della mia opinione: non devi usarlo a sproposito. Se il moccioso si fa la bua, promettimi che non vai là a curarlo come un'infermierina.»
«Sasha.»
«Non è importante il suo nome.»
«I nomi sono importanti. Non ricordi cosa diceva la mamma?»
Lui distolse lo sguardo. «Cerco di non ricordare tante cose.»
Un rumore attrasse la loro attenzione: un gemito inarticolato.
«Ehi, Russian boy.» Ilyas si alzò e aprì di scatto la porta, rivelando Sasha Kirayev con le gote soffuse di imbarazzo e saltellante sul piede al di là della soglia. «Cosa diamine stai facendo?»
«Mi sono alzato per prendere un bicchiere d'acqua, giuro che non stavo origliando! Mi sono svegliato all'improvviso perché ho sentito dei rumori. Per non disturbarvi non ho acceso la luce, ma ho sbattuto il mignolo contro uno spigolo. Dio, che male.»
«Sei proprio un imbranato» constatò cupamente Ilyas e si voltò verso Aisha. «Io vado, ho bisogno di dormire. Tu.» Puntò il dito contro il petto del ragazzo russo. «Ricordati cosa ti ho detto in quel locale. Stai attento.»
L'altro deglutì forte. Lo sentì borbottare qualcosa del tipo "che modi", "mal fidato", poi si chiuse nel silenzio, quando Ilyas scivolò via nel corridoio buio. Aisha era ancora seduta sul divanetto, scorse lo sguardo imbarazzato del figlio di Vor che sfuggiva al suo.
«Vuoi dell'acqua?» chiese, alzandosi.
«No, no, cioè sì, ma me la prendo da solo.»
«Sai dov'è?»
«Non c'è una cucina qui, vero?»
Aisha scosse la testa e andò a pescare dalla borsa una bottiglietta d'acqua, che porse al ragazzo. Lui l'afferrò con le gote leggermente colorite.
«Tuo fratello ha, ehm, lui ha...?»
«Ha preso questa.»
Indicò la bustina di kradija buttata sull'unico piano solido disponibile della stanza. Lo sentì di nuovo deglutire forte.
«Tu l'hai mai presa?» le venne spontaneo chiedergli. Forse, in una certa misura, era incuriosita da quel ragazzo. Era vissuto in un mondo completamente diverso dal proprio, verso cui provava la più viva diffidenza, ma lui sembrava gentile e questo la sorprendeva.
«Cosa? La kradija? Oh, no, no, cioè, sì, una volta, per provare. Sai, la mia famiglia... Ecco, ti considerano strano se non ti sballi, non il contrario. Anche se mio cugino lo dice sempre – mio cugino Aleksandr, non Sergej; Sergej si è giocato tutti i neuroni a forza di sniffare quella roba. Lui dice che un bravo pusher la droga te la vende, non se la prende.»
«Hai mai fatto il pusher?»
Lui scosse la testa. Continuava a guardare in basso. «No, no, non sono fatto per queste cose.»
«È una cosa buona» osservò lei, cauta.
«I miei fratelli non sarebbero tanto d'accordo, ma sì, anch'io penso sia una cosa buona.» Accennò un sorriso nervoso. «Tu hai... tu l'hai mai presa?»
«No.»
«Si vede che sei una ragazza intelligente.» Nel dire ciò arrossì ferocemente. «Volevo dire... cioè, volevo dire...»
«Grazie» si limitò a mormorare lei.
Scese un silenzio denso di imbarazzo da parte di lui.
È solo un cucciolo, è spaventato, si trova per la prima volta nella forra da solo, pensava Aisha. Pensa a come ti sentiresti tu al suo posto.
«Sai, questa sensazione di estraniamento poi passa.»
Sasha alzò timidamente gli occhi, la fissò con una certa perplessità. «Come?»
«Immagino che trovi strana tutta la situazione, anche te stesso. Insomma, hai scoperto di essere mezzo lupo, non è una cosa che capita tutti i giorni. Ecco, volevo dirti che a mano a mano il disorientamento passa.»
«A te come è passato?»
Violentemente.
«È passato.» Si dispiacque di quella risposta criptica, ma c'erano delle cose che non poteva tirar fuori, che non riusciva ancora ad affrontare, con nessuno.
Si andò a risedere sul divanetto e Sasha la seguì. Prima le chiese educatamente se poteva rimanere lì: non riusciva ad addormentarsi e preferiva rientrare in stanza quando Ilyas fosse sprofondato nel sonno – c'era un'unica stanza con tre materassi buttati per terra.
«Mi scuserai se lo dico, davvero perdonami, ma tuo fratello mi mette un po' paura.»
«Ilyas fa quest'effetto.»
«Spaventoso?»
«È solo un po' rude.»
«Quindi voi siete fratelli. E ve ne andate in giro per la Russia da un anno a questa parte come vagabondi alla ricerca di qualcosa. Qualcosa che ha a che fare coi Novikh.»
«Già.»
«Non sei molto loquace, vero?»
«Non posso dirti perché siamo qui.»
«No, no, capisco! Avete i vostri segreti, tutti hanno i loro segreti, solo che, visto che vi ho aiutato... È che vorrei solo cercare di capire, capisci quel che intendo?»
Aisha non rispose. Rimase immobile a fissare un punto imprecisato della parete davanti a lei finché non lo sentì sospirare pesantemente.
«Niente domande e indiscrezioni, va bene. Dio mio, per il grido di una rusalka in calore, siete più duri di una roccia arenaria! Peggio dei militari che si fanno torturare per non tradire la Federazione.»
A quell'accenno ai militari, Aisha chiuse gli occhi. Ritornò in una stanza dalle pareti bianche e lisce, dal soffitto pendeva una luce altrettanto bianca, sterile, gettata sulla sua sagoma distesa. C'era qualcosa che le impediva di muoversi, dei legami che la tenevano supina. Di solito, nei suoi incubi, quei legami non esistevano; era lei che non riusciva ad alzarsi.
«Aisha?» La voce preoccupata di Sasha la riscosse. Si girò verso di lui, trovando il suo viso magro e pallido, spruzzato di efelidi intorno al naso, una caratteristica che rendeva più interessanti i suoi connotati – era la prima volta che ci pensava.
Quelle lentiggini le piacevano. Non aveva mai conosciuto nessuno con delle lentiggini.
«Cosa ti è preso? Per un momento ti sei assentata e...»
«Ero soprappensiero. Siete tutti rossi in famiglia?»
Lui le sgranò gli occhi in faccia, preso alla sprovvista. «Cosa?»
«Niente, scusa, è una domanda stupida. Fai finta che non l'abbia fatta.»
Aisha ritornò a guardare davanti a sé. Pensò che fosse il caso di alzarsi e andare a letto, quando lui riprese parola.
«Mia madre è rossa. Cioè, in realtà è come me: un rosso biondiccio. Mio padre è l'opposto di me, non ho niente in comune con lui, e neanche con i miei fratelli. A parte i capelli in realtà non ho neanche molto in comune con mia madre. Sai, è proprio strano.»
Lei tornò a fissarlo. Trovò ora i suoi occhi che vagavano, perdendosi negli angoli addensati d'ombre della stanza.
«Tu dici che passerà? Questa sensazione di estraniamento, dico. Perché... perché ora come ora mi sembra impossibile. Mi sembra di essere...»
«Fuori dal mondo?»
Lui annuì, piano. «Quello che conosco.»
«Lo capisco.»
«Sì, immagino che tu lo capisca.» Trovò il coraggio di guardarla, i suoi occhi l'accarezzarono con un indugio particolare. Nel suo sguardo c'era un'aspettativa rispettosa. «Mi puoi dire almeno da dove venite? Tu e tuo fratello. E non rispondermi dal Caucaso, che è così generico. Non voglio impicciarmi, davvero, e non voglio mettervi in pericolo o non so cosa. Vorrei solo sentirmi meno fuori dal mondo. Conoscerne un altro forse, conoscere il tuo...»
«Siamo nati in un villaggio della Svanezia e come si dice in russo Svania. Era un piccolo villaggio che venne bruciato quando giunsero le truppe federali russe. Fummo trasferiti insieme ai superstiti in una colonia militare vicino al Gran Caucaso. Abbiamo vissuto lì per più di dieci anni fino a quando siamo scappati.»
Sasha boccheggiò. Forse non si aspettava tutte quelle informazioni, pronunciate poi con tono atono e stenografico. Ad Aisha non sembrava neanche di parlare di sé: era come raccontare la storia di una persona che non conosceva.
«I vostri genitori? Sono stati trasferiti con voi nella colonia?»
«No, mia madre – nostra madre – morì durante l'assalto delle truppe.»
«Oh, mi spiace» fu il suo unico commento. E poi chiese: «E tuo padre?»
«Non l'ho mai conosciuto. È morto quando ero piccola, non lo ricordo. Quello di Ilyas invece non so se è ancora vivo, anche lui non l'ha mai conosciuto – e ti pregherei di non affrontare mai questo discorso con lui.»
«Oh, no, no, assolutamente! Ti ringrazio della fiducia.»
«Quale fiducia?»
«Beh, raccontarmi la tua storia la vedo come una grande dimostrazione di fiducia. In fondo non ci conosciamo e...»
«Non è niente. È solo una storia come tante. Molti villaggi sono stati bruciati e saccheggiati, stroncati dalle guerre etniche e dall'avanzata russa, durante questi anni. Il nostro fu uno dei tanti. Molte persone hanno perso i loro cari. Non è una gran storia.»
Calò il silenzio a quell'affermazione. Aisha continuava a guardare davanti a sé, la postura immobile e rigida contro il divano. Del ragazzo intravedeva a malapena l'ombra.
«Penso che ogni storia sia importante, la storia di qualunque persona» lo sentì sussurrare, piano, con lieve imbarazzo.
Aisha si voltò a guardarlo e vide che le sue gote si erano di nuovo colorite di una sfumatura simile a quella dei capelli. Stranamente le venne da sorridere. «Sai, tu non sembri proprio uno di quelli.»
«Quelli quale?»
Avrebbe potuto rispondere in tanti modi in quel momento: un nobile, un russo, uno che era sempre vissuto come umano senza affrontare la sua seconda natura. Una persona che non conosce il dolore. Ma in fondo lei cosa sapeva di lui? Non conosceva la sua storia.
Non rispose. Si alzò dal divanetto e si avviò verso la porta. Si volse verso di lui quando ebbe raggiunto la soglia.
«Non vieni a dormire?»
Lui parve arrossire ancora di più. «Oh, sì, ecco, sì, sì, vengo.»
Si alzò in fretta e la raggiunse, mettendosi le mani in tasca, camminando dietro di lei nel corridoio che separava quel salottino dall'unica stanza da letto.
Fuori dalla finestra la luna era candida, una scheggia sottile dall'alone di bronzo. Lo sguardo di Aisha si soffermò sulla sua forma silente e lontana, pensando che, da qualche parte del mondo, un lupo doveva star ululando per lei.
¹ C'è chi si gode la vita, c'è chi la soffre, invece noi la combattiamo è un motto vero, della comunità Urca di cui parla Nicolai Lilin in Educazione siberiana. Premetto che io questo libro non l'ho letto tutto, ho anche saputo che ci sono varie inesattezze come, per esempio, l'esistenza stessa di un'etnia che si chiama Urca. Quindi è proprio da prendere con le pinze. Il termine "urkagan" che ho usato so con sicurezza che è giusto: nel gergo criminale "urka" o "urkagan" indicava i criminali di professione, ladri, bari o rapinatori. È a questi che ho ricollegato le origini di Lukas.
Continuiamo l'album fotografico: voilà, ecco Andrej ^,^
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