IX. You can't escape - prima parte
C'era un sole smorto che bagnava le sommità delle mura di quell'ampio cortile dove i membri della druzina fumavano, sparavano a bottiglie vuote o facevano scommesse. Sasha si era sistemato in un angolo, mentre Ilyas e Aisha erano stati muniti di pistole a salve per testare la loro abilità nel manovrare armi. Nessuno aveva ancora chiesto a lui se lo sapeva fare; si dava per scontato, visto che apparteneva ai Maliska.
Insieme agli spari coglieva frammenti di conversazione, sfilacciate frasi che si intrecciavano vaghe nell'aria grigia, alcune che recavano tracce di accenti sconosciuti, cadenze provenienti dai diversi angoli della Russia, altre invece palesemente moscovite.
Insieme alle voci vedeva anche immagini...
«Ormai i racket dei chioschi di strada sono roba superata. Non che non ci siano ancora piattole: sono tutti culi neri. Gli uzbechi, gli azeri, i georgiani, i caucasici in genere e non scordiamoci di aggiungere alla feccia i ceceni, ecco, sono loro il problema!»
«Ieri ho sentito Masha, per il buco strausato di una bagascia dice che è incinta e che il figlio è mio. Io le ho detto di dimostrarmelo. Sai come mi ha risposto quella troia?»
«La vodka, la vodka guarisce tutto, credi a me. Prendila con le pillole.»
«Bisogna ammettere che gli ucraini non sono male con la prostituzione, ma il ras dell'uranio, del petrolio, dei diamanti e della kradija appartiene ai russi.»
«... io la strozzo con le sue budella, lei e quello stronzo che l'ha ingravidata! Prima che venga la Maslenitsa io li...»
«Se non ci fosse la Bratstvo dei Novikh, il campo sarebbe molto più libero.»
«Il mio vecchio diceva: la vodka non ha classi ed è la verità!»
«Ehi, cucciolo.» Una voce e un tocco alla spalla lo scossero, facendolo sussultare. Lukas Maraskin era in piedi a pochi centimetri da lui; scoppiò a ridere. «Sei un po' teso?»
«Io... no.» Sasha prese a guardarsi le scarpe. Era seduto a terra, le ginocchia raccolte. Quella cacofonia di voci frammezzate a visioni – pezzi di vita di tutti quegli uomini – lo avevano spinto a raggomitolarsi come un gatto. «Stavo solo pensando.»
«Non vai con quei due?» gli chiese l'uomo, occhieggiando i due ashkali con le armi puntate a una fila di bottiglie vuote.
Di loro si stava occupando quel tale che gli aveva controllato i documenti una settimana prima. Si chiamava Nikolaj Liperin, ma tutti lo chiamavano Kolja; era il secondo della druzina. Si era offerto di insegnare ai "nuovi acquisti" i trucchi del mestiere.
«Non sono portato a sparare.»
«Sei il figlio di un Vor.»
«Non sono portato neanche per quello.»
Si sfregò il mento sulle ginocchia e cercò di isolare i rumori, le voci e le immagini. Se si concentrava, poteva contenere tutto quel che gli si riversava in testa, ma non era sempre facile. C'erano giorni in cui la mente gli dava l'idea di scoppiare, tanto era soverchiata da pezzi di vita non propria.
«Per essere il figlio di un Vor? Di' un po', ragazzo, com'è tuo padre?»
C'era un'esitazione mista a curiosità appena palpabile nella voce dell'altro. Sasha alzò gli occhi a guardarlo, preso alla sprovvista.
«In che senso?»
«Non ho mai avuto a che fare coi Maliska. Ne ho solo sentito parlare così come dei Kirayev e mi chiedevo...»
«Tutto quel che hai sentito è vero. È meglio avere a che fare con una muta di lupi feroci che con loro.»
Non ci girò tanto attorno: quelle settimane lontano da casa, la scoperta di quella doppia natura, la conoscenza dei due ashkali e di quel mondo, lo avevano reso più disinvolto nel palesare astio nei confronti del parentado.
«E tuo padre?»
«Mio padre?»
«Com'è?»
«Lui è... è mio padre. Credo.»
«Credi?»
«Secondo loro» indicò i due fratelli, «è impossibile che almeno uno dei miei genitori non abbia sangue di lupo. Sarebbe un'anomalia e dato che, come si dice, della madre si può essere sempre certi, mentre del padre...»
«Mm» si limitò a commentare l'uomo. Continuava a fissarlo, lo sguardo impassibile. «E ti dispiacerebbe? Se si scoprisse che tuo padre non è il tuo vero padre, intendo.»
Sasha pensò a quella volta che era stato trascinato fuori casa, al gelo e mezzo nudo, dopo il fallimento del suo primo raid. Quando suo padre lo aveva costretto quasi tutta la notte a stare in piedi con le caviglie nella neve, sordo alle proteste della moglie, l'unica che avesse osato protestare.
È un Kirayev, fa parte dei Maliska, non è concepibile che frigni come un poppante invece di fare il suo dovere. Non voglio la sua vergogna in casa, mi nausea. Che impari la lezione.
Non era stato l'unico episodio di quel genere.
«No» disse con un tono tanto basso che si chiese se l'altro avesse sentito.
Lui comunque non commentò. Guardava i due fratelli ashkali. «Ti piace lei, vero?»
Sasha si sentì diventare rosso fino alle punte delle orecchie. Non capiva perché, ma quel tipo era piuttosto bonario nei suoi confronti e non pareva che adottasse quell'atteggiamento perché era un nobile – da quando era stato accertato che era un Kirayev, e per di più nipote di Boris Novikh, era stato circondato di reverenza.
«No... io...»
«Guarda, ragazzo, è abbastanza evidente.»
«In realtà io...»
«È molto carina» osservò lui, divertito dal suo imbarazzo. «Anche con tutti quegli strati di roba che non le rendono assolutamente giustizia si nota. Perché non ti fai avanti?»
Ma da una druzina era per caso finito in un club di cuori solitari?!
«Non credo di essere il suo tipo.»
«Ragazzo, sei un nobile!»
«E questo che significa?» chiese, emettendo un lieve sbuffo. «Non è una carta che vale per tutte le donne.»
L'altro parve soppesare attentamente quelle parole. «Hai ragione, non funziona con tutte. Lei non sembra il tipo da farsi impressionare. Eppure, se ci si pensa, potresti averla con uno schiocco di dita.»
Sasha si trattenne dal sospirare. Quell'uomo come molti doveva pensare che bastava una bella faccia o un bel conto in banca o una schiatta secolare al seguito per conquistare una donna. Per lui doveva funzionare: emanava una sicurezza che Sasha non avrebbe potuto eguagliare neanche tra un milione di anni. Era sempre stato insicuro, anche se era nato con tanti privilegi e nemmeno un aspetto sgradevole. Con le donne però aveva sempre nutrito una certa soggezione e quella ragazza, lontana da qualsiasi coordinata della sua vita precedente, gli sembrava tutto meno che facilmente abbordabile.
«Devi essere intraprendente» continuava Maraskin. «Con le donne o con chiunque altro serve questo: intraprendenza.»
«Parli bene tu.»
«Parlo perché so di cosa parlo. Credi a me. Ti do una dimostrazione.»
Voltò il capo quando i due fratelli insieme a Kolja avanzarono verso di loro. Avevano appena finito la sessione di spari.
«Ehi, come è andata?» chiese con un sorriso rivolto a Ilyas, che però lo superò senza degnarlo di un'occhiata, in compenso gli sibilò un «Fottiti» prima di allontanarsi.
Fu per Sasha difficile nascondere un sorrisetto.
Liperin inarcò entrambe le sopracciglia. «Ma che modi sono? L'ha capito quello che sei il capo qui?»
Lukas Maraskin appariva imbarazzato e anche un po' arrabbiato. Linee profonde gli corrugavano la fronte e i lati degli occhi. «Lo capirà presto.»
«Solo perché lo ha raccomandato Vosikiev ed è uno dei cani del barchùk non significa che non deve rispettare la gerarchia come tutti.»
«Non è il mio can...» iniziò Sasha, ma Maraskin lo interruppe.
«Come sono andati?» chiese, occhieggiando Aisha.
«Bene, sanno sparare.»
«Dove avete imparato?» volle sapere e stavolta si rivolse alla ragazza.
«Nella colonia militare dove stavamo.»
«Anche tu eri nell'esercito?»
Era saltato fuori che Ilyas era stato un soldato della Legione. Sasha non ci aveva creduto finché lui non lo aveva spiegato, nel suo modo brusco, a Maraskin. Quella rivelazione lo aveva sorpreso: il ragazzo ashkale non gli sembrava uno adatto alla disciplina ferrea dell'esercito federale russo.
«No» rispose Aisha. «Non so come funziona in altri corpi, ma nella Legione non accettano donne.»
Per quanto ne sapeva lui neanche altrove.
«Ci sono alcuni reparti che le accettano, ma, sì, è vero, ora che mi ricordo nella Legione no.» Maraskin la scrutava con attenzione. «E allora dove hai imparato a sparare?»
«Me l'ha insegnato mio fratello.»
«A Darial?»
«Sì.»
«È contro la legge far maneggiare armi a un civile in una colonia.»
Lei alzò le spalle. «A noi non è mai importato molto della legge.»
Kolja le rivolse uno sguardo moderatamente ammirato. «Neanche da queste parti trovi gente a cui importa. Sei brava, di ordigni te ne intendi?»
Aisha scosse la testa.
«Vi faremo un corso accelerato. Immagino che tu, barchùk, invece ne sai qualcosa.»
«Giusto qualcosa» disse Sasha pensando a Igor e al suo laboratorio.
«Di cosa ti occupavi nella tua famiglia?» chiese Maraskin.
«Di non farmi ammazzare?»
Il Volk trovò la battuta divertente, mentre Kolja lo guardò incerto.
«Vado dentro» disse Aisha, piantandoli lì, e Sasha la seguì con lo sguardo finché una vigorosa pacca alla spalla non lo fece quasi cadere in avanti.
«Credi a me: intraprendenza» ribadì Maraskin con convinti cenni del capo.
«Non mi pare che con te funzioni molto questo metodo.»
Se anche fu piccato, non lo diede a vedere. «Ci sono "prede" più difficili di altre, tutto qui, ma il segreto è sempre quello. Ci vogliono volontà e costanza come in tutte le cose.»
Liperin li guardava. «Ma di cosa state parlando?»
«Niente, niente, Kolja. Vieni con me, devo farti vedere la mia Makarov, credo che abbia un problema nella canna.»
Mentre i due si allontanavano, Sasha si alzò e si diresse verso l'interno dell'edificio. Due uomini, che stavano fumando sulla soglia dell'entrata, appena lo videro si scostarono, gli stessi uomini che solo una decina di giorni prima lo avevano scaraventato nel fondo di un furgone, legato e imbavagliato.
«Vory» lo chiamarono con l'appellativo che era dato ai figli di Vor inseriti negli affari dei padri, condizione che Sasha, in realtà, non vantava.
Se li lasciò alle spalle e si inoltrò nel corridoio fino a raggiungere le camerate. Non trovò Ilyas nelle stanze adibite ai maschi, quindi pensò che fosse andato dalla sorella. Fu per questo che bussò alla porta della camera che le avevano dato – era l'unica donna e in quanto tale usufruiva di spazi separati. Al suo "avanti" sommesso entrò. Non c'era Ilyas, c'era solo lei ed era in piedi con un coltello in mano. Ciocche folte di capelli la circondavano sul pavimento.
«Cosa stai facendo?» chiese Sasha stupidamente.
Lei non lo guardò. «Mi taglio i capelli.»
«Perché?»
«Attirano l'attenzione.»
Lui deglutì, ingoiando la protesta che gli stava sorgendo spontanea dalle labbra. Posò gli occhi sui capelli per terra, li alzò verso la sua mano ferma che afferrava una ciocca e la tagliava di netto. Si stava guardando attraverso uno specchio appeso alla parete.
«Non è che tu ci possa fare molto» si trovò a mormorare.
Lei continuava nella sua operazione con movimenti precisi e senza guardarlo. «Cosa?»
«Se una persona è bella... non è che possa nasconderlo più di tanto.»
Nel momento in cui pronunciò quella frase avrebbe voluto mordersi la lingua e sprofondare sottoterra. Paventò di essere arrossito, ma cercò di non mostrarsi agitato quando lei volse lo sguardo verso di lui, rimanendo con il coltello a mezz'aria.
«Non significa nulla.»
«Cosa?»
«Essere belli.» La sua espressione era seria. «Ha un significato per le altre persone, ma in sé non significa nulla.»
Sasha aggrottò la fronte. Diceva così perché non era mai stata brutta, pensò. Lei parve leggergli nel pensiero.
«Pensi che lo dica come una frase fatta?»
«Io, ecco... credo che sia facile dirlo quando si è belli.»
«Credi di essere brutto?»
«No» rispose. Deglutì a fondo. «Forse. Non lo so. Certo non sono come te e tuo fratello.» Spostò lo sguardo altrove, evitando di guardarla negli occhi. «Puoi dire che non ha importanza, ma la bellezza può aiutare in tanti modi.»
L'aveva sentito spesso dire da sua madre, questo. E aggiungeva che valeva soprattutto per le donne, che a volte la bellezza è per una donna la sua unica arma.
Aisha disse qualcosa di molto simile in quel momento: «Appunto, può essere un aiuto, un'arma o una chiave, ma in sé che significato ha? Lo ha solo per gli altri, è qualcosa che si può usare o ammirare, invidiare o disprezzare, sognare o desiderare. Le persone ti trattano meglio se sei bello e tu ti senti meglio se si trattano bene, ma alla fine è solo qualcuno che ti guarda senza vederti.» Distolse lo sguardo e tornò allo specchio. «Le persone vogliono solo essere amate.»
Finì di tagliarsi i capelli senza aggiungere altro e Sasha stesso si trovò a corto di una replica decente. In fondo cosa poteva ribattere di fronte a quella disamina piuttosto schietta con un fondo amaro e malinconico? Il modo in cui lei parlava, in cui guardava gli altri e il mondo, anche il modo in cui rimaneva in silenzio, gli innestavano uno strano senso di soggezione misto a curiosità. Quella ragazza era un mistero per lui, così dura e distante e ora col taglio di un ragazzo in riformatorio. La trovava bella anche così, in realtà.
«Dov'è tuo fratello?»
«Non lo so.»
Strano, erano sempre appiccati quei due.
«Vorrei parlarti.» Prese il coraggio a quattro mani, traendo un profondo respiro. «È importante. Penso che tu mi debba la verità.»
Quella frase la scosse di più di quel che aveva detto prima. Si voltò a guardarlo e lasciò scivolare il braccio che teneva il coltello lungo il fianco.
«Forse questo non è il luogo adatto, ma...»
«Cosa vuoi sapere?»
«Perché siete venuti qui.» Abbassò la voce, temendo che qualcuno arrivasse all'improvviso – ma non c'era nessuno, erano tutti fuori. «Perché avete voluto un pezzo del DNA di mio cugino per cominciare, perché state ancora qui, perché è così importante rimanere a Mosca per voi. Vi ho aiutati.» Sperò di avere un tono e uno sguardo deciso. «Quando quei tizi ci hanno catturato, se non avessi detto il mio nome... credo, credo davvero di avere il diritto di sapere la verità. Ci sono dentro anch'io in questa storia, volente o nolente.»
Forse fu un'impressione, ma gli parve stupita.
«Io...»
«Per favore» insistette. «So che tuo fratello ha mentito quando ha detto che vi siete liberati degli umani ostili che avete incontrato. Come lo so? Beh, lo so. Io riesco a... a sentire le cose, non lo so, io... continuo a vederti.» Gli occhi di lei si socchiusero, mentre Sasha stringeva le labbra, sentendosi la gola secca. «Ti vedo su un lettino, legata, non vorrei, ma quell'immagine non mi esce dalla testa. Ed è come se sentissi quel che hai provato e questo...»
Lo rendeva impotente, capì. Vedere, sentire il passato di un altro, cogliere quel che non viene mai detto, vivere come fosse proprio il dolore di uno sconosciuto... era abituato al dolore, lui, lo conosceva, ma poteva gestirlo o combatterlo o ignorarlo; era suo. Sentire quello di lei lo faceva annaspare perché capiva che non poteva salvarla e non solo perché era tutto già successo: lei non voleva essere salvata.
Aisha aveva stretto le labbra e si era irrigidita. Una vena dura le attraversava lo sguardo. Sasha si accorse che aveva stretto le dita attorno all'impugnatura del coltello.
«Cosa vedi?»
«Te l'ho detto.»
«E non puoi...»
«No, non posso impedirlo. Vorrei, ci provo, a volte ci riesco, ma altre... è come se la mia mente fosse una porta e non riuscissi sempre a chiuderla. Non so come spiegarlo. Cosa ti è successo, Aisha?» Abbassò ancora di più la voce. «Cosa stai cercando?»
«Chi mi ha fatto male» rispose lei, un soffio.
«E tuo fratel...»
«Lui mi ha portato via da lì, da quel posto» lo scavalcò, lo sguardo duro quanto la voce. «Quando mi hanno presa e hanno cominciato a fare esperimenti su di me...»
«Esperimenti?»
«Mi sono trasformata inavvertitamente. A Darial, quando eravamo nella colonia: è successo per sbaglio, mi sono trasformata e qualcuno mi ha visto. Mi hanno portata alla Heissemey Corporation. Ne hai mai sentito parlare?»
Sasha deglutì forte. «È l'organizzazione di ricerca tecnologica dei Novikh.»
«Esatto. Sono stata internata per alcuni mesi, per dei "controlli", dicevano. Avevano un'ala dedicata agli studi razziali, ma io non sono mai andata lì. Mi imbottivano di farmaci, non ricordo cosa mi è successo, tranne che mi venivano fatte tante domande e c'erano macchinari, luci bianche, continue trasfusioni... Ilyas è riuscito a entrare fingendosi il suo colonnello che aveva un permesso speciale per visitare gli stabilimenti di sviluppo tecnologico in campo bellico. Ha ucciso delle persone, ha disertato. Siamo riusciti a scappare. È passato più di un anno.»
«E perché siete a Mosca?» chiese lui, mentre cercava di incamerare tutte quelle informazioni e di non apparire troppo sconvolto.
«Perché non sappiamo cosa mi hanno fatto. In quest'ultimo anno, dopo aver cancellato le tracce, abbiamo cercato di capirlo e siamo risaliti ai Novikh, al Vor Boris Novikh, per l'esattezza. È lui che patrocinava quegli studi. Quando io e mio fratello siamo scappati, abbiamo eliminato ogni prova, bruciando il luogo dove mi avevano messo, ma deve essere sopravvissuto qualcosa e quel qualcosa si trova a Mosca, nella sede della Bratstvo.»
«Per questo avete preso il DNA di mio cugino? Per introdurvi lì?»
«Solo il Vor e i suoi figli hanno accesso agli archivi più segreti, supponiamo.» Usò un termine vago e indefinito; continuava a guardarlo negli occhi.
«Il vostro piano è... è... è folle!» si lasciò sfuggire Sasha. Senza lasciarsi spaventare dall'alone arcigno che le venò gli occhi, proseguì con voce ansimante: «Prima di tutto: Sergej sarà anche il preferito del Vor, ma Aleksandr è il suo erede. Mio zio non condivide i suoi progetti più importanti col figlio più piccolo, è il suo primogenito quello al corrente di tutto, è lui che tiene le redini insieme al padre, ma non credere: se davvero sa dell'esistenza dei esseri come i vulkulaki mio zio non si è confidato neanche con lui. È un uomo cauto, sibillino, e se ha dei documenti compromettenti, li tiene in un luogo in cui neanche i figli possono entrare. Quindi a meno che non prendiate un pezzo del suo DNA ... Non guardarmi così.» Lasciò andare un sospiro, lungo e rassegnato, davanti alla sua espressione. «Io li conosco, non tanto, ma so come operano. Boris Novikh non si fa ingannare facilmente, né si può ammazzare facilmente. Se sa di te...»
«Non so quanto loro sappiano.»
«Hai detto che qualcuno ti ha vista mentre ti trasformavi.»
«Sì, ma ha visto un alone, una vibrazione, ecco perché mi hanno rinchiusa là dentro. Volevano delle prove e io... io ho cercato di non far trapelare nulla, ma mi iniettavano delle sostanze e non so fino a che punto...»
«Dovresti dirlo a Vosikiev.»
Lei si irrigidì. «Per cosa? Farmi uccidere?»
Lui sgranò gli occhi. «Perché pensi questo?»
«Quell'uomo sarebbe disposto a tutto per salvaguardare la nostra specie, l'ho capito.»
«Appunto: se glielo dicessi, prenderebbe le sue precauzioni, indagherebbe sulla faccenda, dispiegherebbe i suoi mezzi – che saranno certo più potenti di due ragazzi – per arrivare a quelle prove.»
«Non lo so» confessò lei con un fil di voce. Lo guardava ancora con quel velo di stupore che le sfumava le iridi. «Siamo sempre stati abituati a fare da soli.»
«È questo il problema dei lupi solitari, immagino: che soccombono quando avrebbero potuto salvarsi.»
Quella frase gli uscì così, con spontaneità. Forse il discorso di quel tale, Ljuba Vosikiev, lo aveva colpito più di quanto credeva. Per la prima volta si sentiva parte di qualcosa che non aveva niente a che fare con la sua famiglia, il suo sangue, il debito di nascita che per anni si era trascinato dietro. Faceva parte di qualcosa in cui avrebbe potuto scegliere.
«Dovrei parlarne a Ilyas» mormorò Aisha.
Sasha soffocò un gemito. «Sì, mm, immagino quanto sarà accomodante.»
Però bisognava convincerlo a non intentare quel piano da pazzi suicidi. Non ci voleva molto a capire che faceva acqua da più parti. Loro non conoscevano l'ambiente della Mafiya quanto lui, in cui nessuno si fidava, neanche della fica della propria madre, come si diceva spesso in quei giri; soprattutto non conoscevano i Novikh, che se erano il gruppo e la famiglia nobile più potente, avendo costretto ogni altro gruppo a esserle alleato o altrimenti perire, c'era un motivo. Quel motivo si chiamava Boris Novikh e l'uomo che era venuto prima di lui e gli altri ancora; quel motivo sarebbe stato Aleksandr Novikh quando avrebbe preso il posto del padre. Non erano persone con cui tentare giochi di mano: se volevi andargli contro, sconfinando nel loro territorio, dovevi essere sicuro del successo dell'impresa.
«Senti, parlagliene. Sicuramente avrai più successo di me.» Si schiarì la gola e levò una mano a grattarsi dietro la nuca. «E... ti prego, davvero, non rischiate. Coinvolgente Maraskin o Vosikiev, condividono il nostro stesso segreto, io penso... penso che dovremmo fidarci.»
Aveva usato il plurale. Aveva detto il nostro segreto.
Aisha lo guardava.
«Va bene» disse infine, posando la lama. «Lo farò.»
A chi può incuriosire: ho pubblicato una os sul passato di Ilyas e Aisha, narra un episodio preciso che mostra il momento in cui sono diventati, in un certo senso, dei "sopravvissuti".
Lo trovate qui (l'ho linkato anche al capitolo) ;)
https://www.wattpad.com/1097508976-vivi
Credit immagine (bellissima) del capitolo: https://www.deviantart.com/tsukiko-kiyomidzu/art/Woman-in-Blue-633292754
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