III. Valhalla - seconda parte

Le guardie all'ingresso si limitarono a controllare se avevano i pass. Sasha si ritrovò a camminare in un corridoio scuro dalla tappezzeria blu notte, un colore che ricordava il cielo del nord più profondo. Quello era il Thund, l'ingresso, spoglio e inquieto; se non ricordava male, il nome era preso a prestito dal fiume che scorreva nel vero aldilà norreno. L'ambiente principale invece bandiva il silenzio, era come se i rumori germogliassero man mano che ci si avvicinava.

Sebbene così famoso il locale non era affollato perché la clientela era ricercata. Ricordò quel che gli aveva detto suo cugino: "un posto per chiunque venga scelto, più facile trovarci un posto che entrarci".

Era proprio quel che si diceva del Valhalla mitico.

Ogni passo che faceva gli confermava la sensazione di non trovarsi in un locale di tendenza, ma di élite: l'atmosfera che si respirava nella penombra acquea degli spot azzurri era vagamente elettrica, faceva tanto spleen. I divanetti lungo la pista erano di pelle bianca, ogni privée aveva il suo cameriere, bottiglie di chablis e spumante venivano di continuo portate in secchielli di ghiaccio. Le pareti erano viola scuro, laccate di nero. Qua e là apparivano lampade dalla strana forma indefinita; con quella luce granulosa a Sasha sembrarono spermatozoi fluorescenti.

Era facile perdere l'orientamento: troppe distrazioni, tutte quelle ballerine che si agitavano sui cubi fluorescenti, dentro delle gabbie, dimenandosi avvinghiate contro le sbarre di alluminio. Alcune riposavano languide in vasche colme di bollicine. Si baciavano, si toccavano, gli addetti alla sicurezza facevano in modo che nessuno le toccasse. Sasha faticò a tenere lo sguardo distolto. Sbirciando dietro di sé, si accorse che i due fratelli erano del tutto imperturbabili. Movimenti decisi, falcata felina. Nel buio i loro occhi avevano riflessi verde-oro.

Valhalla, un nome antico, una dimora abitata da dèi. Che nome pomposo per quello che era, in definitiva, un postribolo di perversioni a buon mercato; un posto in cui la coscienza di cui parlava suo zio la puoi tranquillamente rimettere in tasca e dimenticarla.

Il tavolo di Sergej era quello più in alto. Lo intravide: la nuca chiara, la sagoma alta.

«Eccolo lì» indicò ai due.

Ilyas alzò lo sguardo e sorvolò il piano superiore del privée. «Andiamo.»

«Aspetta, non possiamo così.»

«E come? Ci porta il vento secondo te? Dai, muoviamoci.»

Sasha lo sapeva che non era una buona idea, infatti appena arrivarono al cordone che separava i privés dalla pista gli sbarrarono la strada.

«Sono il cugino del signor Novikh» dichiarò, beccandosi una risata in piena faccia. «È la verità» farfugliò e tirò fuori i documenti.

Quando i due energumeni posti a sorvegliare il cordone constatarono che stava dicendo il vero, subito cambiarono atteggiamento. Uno di loro li affiancò.

«Anche loro?» fece, indicando i due fratelli.

«Sono con me.»

Fu così che venne "scortato" al cospetto di suo cugino.

Sergej Novikh era in assoluto il parente che preferiva di meno e considerato il resto del parentado era un bel traguardo. Non gli era mai piaciuto, lui, il suo sguardo slavato, quel suo ghigno sufficiente, i lineamenti spigolosi che gli ricordavano tanto uno sciacallo emaciato.

«Non posso crederci!» esclamò al vederlo, senza alzarsi dal divanetto su cui era spaparanzato circondato da due bionde statutarie. «Guarda chi si vede, il Molokosos.»

«È il simpatico soprannome con cui mi chiamano i miei cugini» bofonchiò sottovoce Sasha agli altri due.

Era un termine dispregiativo per indicare i "pivellini"; sperò non lo conoscessero.

«Ti tengono in gran considerazione» osservò invece Ilyas.

Preferì tornare a suo cugino. «Ciao, Sergej, come va?»

«Che ci fai qui? Chi sono questi, tuoi amichetti?» Lo sguardo di Sergej svettò verso i due lupi dietro Sasha e si socchiuse, l'iride fredda di vetro raschiato. «Te la fai coi meticci ora?»

Ecco, questo era uno dei tanti motivi per cui aveva esitato a portarli lì. Udì lo schiocco secco della mascella di Ilyas, mentre Aisha rimase in silenzio. Nessuno dei due fiatò, comunque; Sasha li aveva avvisati su quanto suo cugino potesse essere... sgradevole... e Ilyas aveva ribattuto che dovevano solo prendergli un mozzicone di sigaretta, non farselo piacere.

Notò un movimento dietro di sé; una sagoma incedette nel privée. Si trattava di un ragazzo che inarcò un sopracciglio a vederli, mani in tasca.

Sasha avvertì subito qualcosa di strano.

«Allora? Non mi rispondi?»

«Ecco, Serge, stavo facendo un giro e volevo salutarti. Ce l'hai una sigaretta?»

Un istinto violento riverberò dal lato in cui si trovava Ilyas: non era tanto difficile decifrare le emozioni scazzate di quel tipo. Ma erano altre emozioni che lo stavano avvolgendo, quelle del ragazzo appena entrato, che si allargavano come un cerchio nell'acqua di un pozzo.

Stai calmo, mantieni la mente libera, s'impose, cercando di trattenere quella sensazione di estraniamento.

«Perché cazzo dovrei darti le mie cazzo di sigarette?»

«Uhm, perché vuoi essere gentile con tuo cugino?»

Sergej scoppiò a ridere, di gusto, ma poi indicò il divanetto al suo lato. «Dai, siediti, non sia mai che si dica che non tengo alla famiglia. Il mio cuginetto Molokosos... Fai sedere anche i tuoi amici. Ci conosciamo per caso noi due?»

La creatività nell'attaccare bottone di Sergej batteva di molto il livello infimo di Sasha. Si stava rivolgendo a Aisha, che si sedette, gambe strette, sguardo impenetrabile. «Non credo.»

«Prima volta a Mosca? Da dove venite?»

«Un po' qui, un po' là» fu la risposta evasiva di Ilyas.

Il suo sguardo era puntato sui movimenti della mano del figlio di Vor, che allungò una sigaretta a Sasha e chiese se anche loro la volessero. Entrambi scossero la testa.

Davanti al loro divanetto si sedette il ragazzo di prima. Sasha lo sbirciò: alto, snello, la pelle bianca, vestito completamente di nero; aveva capelli scuri e lineamenti fini senza essere delicati, il naso dritto, labbra morbide dalla forma malinconica. Trovò due occhi di un blu scuro intenso che lo fissavano e fu allora che si accorse che erano occhi di lupo. Riusciva a sentirlo, come sentiva la natura delle due persone accanto a sé: era come se lo fiutasse.

Non si era ancora abituato a quella sensazione sottopelle, sobbalzò dunque, facendo tremolare la sigaretta sul labbro.

«Troppo forte il fumo? Non resisti a niente» sghignazzò Sergej e gli allungò un bicchiere di vodka. «Dai, bevi, fai un po' l'uomo. Come stanno gli zii? E Ivan? Ancora vivo o qualcuno lo ha ammazzato?»

«Tutti vivi e vegeti» ribatté con voce atona, premendo le labbra sul bordo del bicchiere. Sbirciò ancora il ragazzo, lui lo stava guardando.

Dritto, solo lievemente indugiante.

«Ciao, mi chiamo Andrej.»

«Ah, non vi ho nemmeno presentati» borbottò Sergej. Allargò le braccia, cingendo i fianchi delle bionde. «Invece loro sono Irina e Vanessa. Voi due come vi chiamate?»

Risposero con dei nomi inventati, gli occhi di Ilyas erano vigili e silenti.

Un lupo, c'è un lupo, quel ragazzo è un lupo... possibile che non se ne accorgessero?

Che ci faceva con suo cugino un mezzo-lupo?

«Lena è un bel nome.» Sergej fece schioccare la lingua sulle labbra umide e sottili, fissando Aisha. Poi il suo sguardo si spostò su Ilyas. «Sicuri di non voler bere?»

Sasha ringraziò molto la loro stoicità. Suo cugino non era affatto cambiato: pronto a mettere da parte i pregiudizi razziali quando si trattava di un bel vedere, salvo continuare a conservare il suo vistoso disprezzo con un certo orgoglio.

«Siete ceceni? No, la pelle è troppo scura.»

«Sergej, come sta Aleksandr?»

«Ha sempre il solito palo infilato su per il culo. Igor? A quante overdose è sopravvissuto quest'anno?»

«Uhm, circa cinque. Gli affari come vanno?»

«Come vedi a meraviglia.» Sergej occhieggiò le due bionde ai suoi lati. «E tu? Sei ancora un verginello?»

Sasha arrossì dalla punta dei capelli. «Non lo sono.»

La prima esperienza era stata disastrosa, non che le altre fossero state tanto meglio, ma almeno non aveva rigurgitato tutta la vodka che i suoi fratelli gli avevano costretto a bere per, come dicevano loro, dargli il coraggio di farsi una "sana montata".

Preferì non guardare dal lato di Aisha.

«Cosa c'è laggiù?» chiese serafica lei nell'indicare la piattaforma in alto alla pista, dalla fluorescenza luminescente.

«Si chiama la "casa di Odino", il punto dove ci si diverte di più.» Sergej la sbirciò. «Ci vuoi andare?»

Sasha ricordava quel che gli aveva detto Ivan un po' di tempo prima: "Sergej è il classico tipo che istiga all'omicidio anche se non sei particolarmente violento".

«Andiamo tutti, perché no?»

Ilyas si erse di scatto. Sasha lo guardò perplesso, ma si alzò, quando lo fecero gli altri, incluse le bellezze bionde e il ragazzo-lupo. Come uscì dal divanetto perse l'equilibrio, andando a sbattere il ginocchio contro il tavolino di vetro. Trattenne un'imprecazione; aveva visto distintamente il piede di Ilyas fargli lo sgambetto.

«Sei rimasto tale e quale, il solito goffo Molokosos» se la sghignazzò Sergej.

Aggirò il tavolino e si prese un'altra sigaretta. Lo fissò dall'alto, mentre Sasha si rialzava borbottante, stilettando un'occhiataccia ad Ilyas.

Ad aiutarlo ad alzarsi fu quel ragazzo di nome Andrej.

«Aspetta.»

Nell'esatto istante in cui le sue dita sfiorarono quelle di Sasha una serie di immagini, spezzate e nebulose, gli si affacciarono davanti agli occhi come i fotogrammi di un film venuto male. Vide una strada grigia, invasa di neve e di rottami, sentì odore di sangue, udì il guaito di un cane. C'era un uomo alto che imbracciava un fucile e una donna che urlava; una macchia rossa sulla neve, come petali sparsi e insanguinati.

Sussultò e ritirò la mano come se quella del ragazzo scottasse.

«Ehi» fece lui, aggrottando la fronte e Sasha deglutì profondamente.

«Tutto bene, tutto bene.»

Scesero dal privée, Sasha aveva le dita tremanti.

E poi si spersero: sentì una mano che lo tirava, lo trascinava via. Nella pista c'era troppa gente, era facile perdere di vista chi ti stava accanto. Sasha si ritrovò a un angolo del locale coi due fratelli senza più vedere neanche più la testa di suo cugino in quella massa di gente illuminata dalle luci psichedeliche del locale. Ilyas gli sventolò davanti una sigaretta consumata.

«Preso il bottino, ora possiamo anche filarcela.»

Era più che d'accordo. Lo seguì con sollievo lungo la pista, Aisha che camminava dietro di loro, rapida e silente. Tuttavia, quando scivolarono verso l'ingresso, Ilyas tentennò. Si guardava attorno, nel buio attraversato da scariche di luce. Alla fine porse la sigaretta alla sorella.

«Tienila tu, andate via.»

«E tu?»

«Io rimango qui.»

«Cosa?» Aisha si irrigidì. «Non c'è...»

«Abbiamo bisogno di soldi, lo sai: becco qualcuno a cui rubare un po' di kradija e torno.»

«Ilyas, non fare pazzie, c'è gente pericolosa qui.»

Il sorriso di lui affiorò appena per le luci, una lama storta, trasudante sicurezza. «Mai nessuno quanto un lupo».

«Stai attento» borbottò Sasha, che non vedeva l'ora di darsela a gambe, in verità. Poi sarebbe stato da solo con lei.

«Anche tu.» Ilyas lo occhieggiò e, quando Aisha si allontanò, lo afferrò per il braccio, chinandosi al suo orecchio. «Ha un kinzhal, un coltello con cui in Caucaso si sventrano gli animali e si ammazzano i predoni, con cui un tempo si applicava la legge del taglione. Stai attento a dove metti le mani, perché lo sa usare bene.»

Sasha deglutì. Stava per protestare – ma per chi lo aveva preso? uno stupratore?? –, quando gli venne in mente il ragazzo-lupo che stava con Sergej. Glielo disse e lui aggrottò la fronte.

«Uno di noi? E che ci faceva lì? Comunque avrà capito che sei un lupo, si sentirebbe la tua puzza da qui fino al Daghestan.»

Puzza, ma senti questo.

«Io non...»

«Ti insegnerò a trattenerla, all'inizio è normale. Comunque sei sicuro che fosse un lupo? Sì? Altro motivo per restare: chissà quanti ce ne sono in giro.»

Lo lasciò, addentrandosi nella folla di gente. Rimasero lui e Aisha e lei si era già avviata.

Sasha le corse dietro. «Aspetta!»

«Prima ce ne andiamo meglio è» sibilò lei, quella voce asciutta, quel passo dritto. «E non parlare, per favore.»

Sasha, in pochi secondi, arrivò a più conclusioni per quella balorda serata: si era messo in un mare di guai, detestava l'umorismo caucasico e quella ragazza gli piaceva da morire.


***


«Serata piatta, Volk?» gli chiese Kolja, appoggiandosi contro la balaustra da dove Lukas stava scrutando la pista.

«Poca selvaggina stasera» mormorò lui, occhi che si muovevano lenti e blandi, con sufficienza quasi nello sfiorare le immagini sommerse dalle luci, una massa indistinta di corpi, bocche e ombre inframmezzate.

«Poca? Ma se c'è la manna di Dio!» si intromise un altro della sua druzina, Georgij Zatenov.

«La manna per gli affamati» sentenziò lui e si girò, gomiti alla balaustra.

Doveva dire che si stava annoiando: non c'era nessuno quella sera che gli stuzzicasse l'appetito; i soliti corpi perfetti, capaci di generare vuota ammirazione, non vera adrenalina.

Era da tanto che non incontrava qualcuno che ritenesse all'altezza, uomo o donna che fosse; qualcuno capace di infiammargli qualcosa di più degli elementari istinti del corpo; qualcuno che risvegliasse il lupo che era in lui.

Kolja sghignazzò. «Ah, Volk, sai come si dice: chi si accontenta gode e mi cascassero le palle se qui c'è di che accontentarsi.»

Lukas gli elargì un sorriso sufficiente e non ribatté. Il corridoio era un viavai di persone che scendevano in pista o salivano ai privés e lui continuava a cercare, i sensi in apnea, ma non intorpiditi, vigili.

Raisa se ne era andata poco prima, inghiottita dalla notte.

«Io e Georgij non ci facciamo tanti problemi, vero? Ne ho puntata una...»

«Io ne ho visto uno invece...» fece Georgij e si staccò dalla balaustra, agitando le mani con entusiasmo.

Nell'indietreggiare si scontrò contro una sagoma che proprio in quel momento stava attraversando il corridoio diretta alle scale.

«Ehi, guarda dove vai!» sbottò Georgij, stizzito.

La sagoma – un ragazzo – si voltò. Due occhi di un colore indefinibile con quella penombra luminescente, scuri dai bagliori metallici di mercurio, lo fulminarono.

«Guarda tu dove sposti il cazzo.»

Lukas si raddrizzò, come colpito da una scarica elettrica. Il giovane fu così veloce da perderlo subito di vista nella folla che accalcava il corridoio, ma lo rivide un istante dopo in cima alle scale che portavano alla pista. C'era una luce verdognola precipitante da un fascio luminoso che ne illuminò i lineamenti affilati, così ebbe una chiara visione del suo viso incorniciato da capelli scuri e lunghi, legati in una coda scarmigliata. Un riflesso di bronzo nell'ombra, sguardo tendente al verde oliva, sfumature cangianti come di lince. La sua figura gli fece pensare alla snellezza di una suhak, un'antilope delle steppe, e alla pericolosità di una tigre dell'Amur, la cui bellezza spietata e silente aveva avuto la fortuna di vedere in passato.

Gli ricordò la Siberia, per un attimo, in un modo in cui non pensava avrebbe potuto ricordarla.

Si staccò dalla balaustra nell'istante in cui lo vide scomparire, confondendosi alle ombre della pista. Un senso di eccitazione gli si era innestato all'altezza dei lombi, una sensazione che conosceva bene, come quando andava a caccia sotto forma di lupo.

«Volk? Dove stai andando?» gli chiesero Kolja e Georgij in coro, voci perplesse.

«Miei signori, il lupo ha trovato di che cacciare.»

... beh, ecco, lo dico: adesso si inizia coi fuochi d'artificio ^^

Credit immagine: https://www.deviantart.com/leifheanzo/art/TRIBES-OF-EUROPA-BRATHOK-HQ-872181477

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