2_ Jenn
Seduta in macchina sul posto del passeggero, Jenn lanciò uno sguardo svogliato allo specchietto retrovisore. I capelli le si erano appiccicati alla nuca per il caldo esterno e ora, con il freddo del climatizzatore, aveva l'impressione che tante dita gelide le solleticassero il collo ogni volta che muoveva la testa. Il ronzio tra le orecchie si era affievolito ma lo sentiva ancora in agguato, pronto a ripresentarsi alla prima occasione.
Poggiò le ginocchia nodose contro la portiera e si afflosciò contro lo schienale. Avrebbe voluto chiedere a suo padre quanto tempo ci avrebbe messo in Clinica, ma l'espressione corrucciata di lui la convinse a non tentare nemmeno. Nelle ultime settimane lo aveva visto dormire sempre più di rado a casa. Sembrava avesse più lavoro del solito e le occhiaie scure sotto i suoi occhi erano solo il segno esterno più evidente.
Fuori dal finestrino, il traffico era scorrevole. Jenn alzò la mano per toccarsi la catenella al suo collo. Un gesto pigro, dettato dall'abitudine. Si passò le dita sulle sporgenze delle clavicole e trovò solo la sua pelle. Sorpresa, si raddrizzò e spostò il colletto della maglietta con l'indice, prima che un ricordo di quella mattina la colpisse all'improvviso.
Non se l'era messa. La catenina era ancora sul comodino di camera sua. Maledizione.
Suo padre mormorò: «Che succede? Hai perso qualcosa?»
«No. Mi sono solo dimenticata la catenina a casa.»
Suo padre le lanciò un'occhiata di lato, solo con gli occhi, senza muovere la testa. «Quella di tua madre?»
Ah. Eccolo. L'unico vero momento in cui suo padre non riusciva a mantenere la sua proverbiale compostezza. Quando si parlava di lei.
«Jennifer.»
Suo padre smise di tamburellare con gli indici sul volante dell'auto. Era arrabbiato.
Jenn evitò di proposito di guardarlo. «Non l'ho persa. L'ho solo dimenticata a casa. Non è la fine del mondo.»
«Avevi detto che te ne saresti presa cura.» Le dita di suo padre si strinsero sul volante: non gli piaceva proprio rivangare il passato. «Anche in queste piccole cose, non posso mai fidarmi di te.»
In passato era stato estremamente contrario al fatto che lei tenesse quella catenina. Jenn aveva dovuto insistere per far si che gliela lasciasse. Con quella al collo, le sembrava di poter avere lei al suo fianco, anche se solo nella sua testa. Adesso, ogni volta che per qualche motivo sua madre o quella catenina entravano nella conversazione, lui si irrigidiva come un maledetto stoccafisso.
Jenn ripensò a sua madre, così come se la ricordava. Il che era ben poco. Capelli vaporosi, un fantasma di sorriso, il suo nome pronunciato a fior di labbra quando le dava il bacio della buonanotte. Jen-ny. Con la n debole, in un sussurro appena udibile.
E poi... quello. Gli occhi spalancati verso il nulla, tondi come uova. Le mani con le unghie spaccate e il volto dalla bocca deformata in un grido senza voce.
In fondo lo capiva. Anche lei evitava in modo quasi automatico di parlare di lei. In ogni caso, non c'era modo di sapere cosa suo padre pensasse davvero. Aveva provato a chiederglielo, ma lui non le aveva mai risposto con una frase di senso compiuto. Jenn ci pensava ancora. A volte, non sempre in modo razionale, immaginava come sarebbe stato se lei fosse stata ancora viva.
Sarebbe andato tutto meglio, se sua madre fosse stata ancora lì.
Suo padre parcheggiò l'auto, in modo brusco, in uno delle aree di sosta sulla 16th Street West, proprio di fronte alla sua clinica. La cintura di Jenn si tese di scatto, evitandole di finire con la testa contro il vetro.
Abraham Cander sembrò sul punto di dire qualcosa ma poi emise un breve sospiro. Aprì la portiera ed uscì dalla macchina, infastidito.
Jenn chiuse le mani a pugno e non disse nulla, guardando la facciata dell'edificio di fronte a loro.
L'ingresso era ombreggiato da una coppia di alberi, appartenenti alla più lunga fila del viale alberato. Avevano da poco demolito l'edificio lì affianco, così che la Clinica si trovava tra un lotto vuoto -che presto sarebbe stato trasformato in altri parcheggi- e l'ingresso di una palazzina residenziale a più piani.
Jenn uscì a sua volta. Una cortina di caldo e aria polverosa la avvolse di colpo come un mantello pesante. Suo padre prese alcune cartelle dal sedile posteriore della macchina. Jenn le riconobbe. Erano le stesse che i due specialisti del Blood Pattern tenevano in mano quando li avevano superati.
«Portale dentro.» le ordinò, piazzandogliele in mano senza nemmeno guardarla. «Mettile sul tavolo nel mio studio.»
Suo padre le lanciò anche le chiavi dell'ingresso.
«Usa queste e fai attenzione a quelle cartelle. Sono importanti e non ho voglia di aggiungere altre tue bravate alla mia lista di cose a cui pensare.»
Jenn strinse le chiavi fino a farsi sbiancare le nocche. Contò lentamente, a rovescio.
Sette. Sei.
Il cemento della strada era così caldo che l'aria vicino alla sua superficie tremolava come un ubriaco. I mormorii delle persone sul marciapiede si alternavano al rumore dei motori delle auto e dei clacson.
Cinque. Quattro.
Suo padre aprì il bagagliaio e si allungò al suo interno per prendere chissà che altro. La rabbia continuò a sobbollire, simile ad una pentola piena in procinto di straripare dai bordi.
Tre...
Aveva voglia di prendere a pugni a qualcosa.
Andò alla porta d'ingresso, fece scivolare le chiavi nella toppa graffiandone i bordi e s'infilò nella fresca oscurità all'interno della Clinica. Superò il bancone della segreteria, aprì la porta alla sua destra e schiaffò le chiavi e le cartelle sul tavolo dello studio.
Anche se recentemente suo padre lavorava tutti i giorni, finesettimana compresi, la Clinica avrebbe dovuto esser chiusa di domenica. Jenn aprì le tapparelle di uno spiraglio, facendo entrare un minimo di luce naturale all'interno della stanza.
Lo sguardo le cadde sull'attestato del Dottorato di ricerca, incorniciato ed appeso al muro assieme ad altri premi e riconoscimenti alla carriera. Ormai suo padre collaborava per lo più come consulente per aziende farmaceutiche private o, più raramente, come dottore di riferimento del medico legale. La sua carriera però era iniziata come un qualsiasi ricercatore all'Università. I suoi studi avevano avuto come punto focale i replicanti di pelle -da poter usare per accelerare la cicatrizzazione naturale delle ferite dei pazienti... o qualcosa del genere.
Qualche anno prima gli aveva chiesto di spiegarle più nel dettaglio cosa facesse, e lui era stato stranamente accomodante, quasi fosse felice di poter condividere parte del suo lavoro con lei. Nonostante tutto, lei non era sicura di averci capito davvero qualcosa.
Jenn schioccò la lingua. In quegli ultimi anni, era raro vedere pazienti andare e venire dal suo ufficio. A dirla tutta, era raro vedere pure lui in generale. L'unico momento che ancora condividevano era quel pranzo domenicale su cui aveva tanto insistito la sua psicologa.
All'improvviso dall'ingresso sentì provenire delle voci.
«Non è un buon momento.» fece suo padre in tono greve.
«Ed invece credo sia un ottimo momento, amico mio.»
Jenn si sporse solo con la testa oltre l'uscio dello studio e riconobbe all'istante il volto sorridente e carismatico dell'uomo all'ingresso. Sarebbe stato difficile il contrario. Quel volto dalla barba e capelli curati, striati di grigio, da cui spuntava un naso aguzzo, da aquila, era il volto del politico più in vista del momento. Dominic Compound, leader del Movimento di Patria e Unità.
Era un uomo di mezza età, dal fisico ancora giovanile ma dall'altezza di molto sotto la media. Jenn si rese conto molto presto di potergli vedere la sommità della testa, lucida di gel, con i capelli allineati perfettamente all'indietro dai denti di un pettine.
«Il medico legale assegnato al caso è stato così gentile da lasciare un messaggio nella mia mail.» disse Dominic Compound con un sorriso edulcorato, che non arrivò agli occhi nemmeno per sbaglio. «Sapevo che ti avrei trovato qui, amico mio. Abbiamo un altro morto?»
Il signor Compound entrò senza che nessuno l'avesse invitato a farlo. Si guardò intorno come se la Clinica gli appartenesse e si appoggiò con il fianco al bancone della segreteria. Raccolse tra due dita un immaginario fiocco di polvere dal suo completo blu notte e lo mandò al suolo con disgusto. Suo padre rimane impassibile. «Sono stato chiamato per effettuare l'analisi preliminare. Credo di poter esaminare oggi stesso il corpo per fare ulteriori accertamenti.»
«L'opinione pubblica è divisa a metà, amico mio. C'è agitazione nell'aria: la vicinanza di questi omicidi alle aree abitate non piace a nessuno. E quest'ultimo corpo si trova a soli quindici minuti di macchina dall'area più popolosa di Vancouver nord. Amico mio, mi sembra che ci stiamo mettendo un po' troppo a delimitare questa faccenda. Ho bisogno di risposte migliori di quelle che mi hai dato la scorsa volta.»
Suo padre scrutò l'interno della clinica, fino a trovare gli occhi di Jenn. I loro sguardi si intrecciarono e suo padre fece qualche passo in avanti.«Prima che iniziamo a parlare, Dominic... credo ti ricorderai di mia figlia, anche se è passato un po' di tempo.» Con due dita le fece segno di avvicinarsi a sua volta. «Jennifer, vieni qui.»
Il signor Compound si guardò alle spalle e sembrò sorpreso solo per un singolo istante di vederla uscire dal riquadro della porta. Ritrovò la sua usuale cordialità e sorrise mettendo in mostra tutti i denti.
Strascicando ogni singolo passo, Jenn si fermò affianco a suo padre.
«Ma certo che mi ricordo.» esordì il signor Compound. «Sei cresciuta molto dall'ultima volta che ci siamo visti. Quanti anni hai adesso?»
Jenn evitò di dirgli di farsi una dannata manciata di affari propri e masticò tra i denti: «Diciannove.»
Il signor Compound prese nota con una singola occhiata della sua postura incurvata, dei suoi capelli disordinati tagliati a caschetto, dei suoi jeans scoloriti e della t-shirt scura con un buco all'angolo.
«Incantato.»
Jenn incrociò le braccia sul petto e sollevò un sopracciglio. Magari il pugno poteva darlo a lui.
«Jennifer, io e il signor Compound dobbiamo parlare. Vai a casa.»
Jenn sollevò il mento. Capiva tutto perfettamente: quello era solo un modo facile per disfarsi di lei. Avrebbe potuto impuntarsi, far capire che le andava bene farsi comandare a bacchetta in quel modo. Forse una volta lo avrebbe fatto. Ora non più. Non voleva la compassione di suo padre, o peggio di quel ometto imbalsamato.
Scrollò le spalle. Che andassero tutti a quel paese.
Superò suo padre, uscendo all'aperto. Lui prese la maniglia della porta e le ordinò con tono gutturale. «Dritta a casa. Mi sono spiegato?»
Jenn serrò la mandibola.
«Ti aspetto per cena o....»
Suo padre le chiuse la porta in faccia.
Jenn rimase immobile e abbassò lo sguardo sui propri piedi.
Sette. Sei.
Andava tutto bene. Era stata stupida ad averci provato.
Cinque. Quat...
Tirò un calcio ad un piccolo cestino metallico fuori da un negozio. Le cartacce volarono in ogni direzione. Il proprietario uscì e le gridò addosso una serie di improperi. Lei gli fece il dito medio e sferrò un secondo colpo pure l'insegna pubblicitaria lì accanto. Il sorridente pinguino con un cono gelato finì contro il muro, ammaccandosi.
Il proprietario tirò fuori il cellulare e digitò quello che Jenn immaginò essere il numero della polizia. A quella vista, si girò e se ne andò in fretta. Gli sguardi dei presenti la seguirono, borbottando indignati.
Contare non serviva.
Quella che in un altro genitore avrebbe potuto passare per timore o apprensione, in suo padre non diventava mai in niente di più che pretesa di pianificazione e ordine.
Tirò fuori il cellulare di tasca e scorse la playlist di canzoni. Si mise le cuffie nelle orecchie e fece partire una canzone a caso. Le note cadenzate e ritmate da hip hop le riempirono le orecchie. Tirò sù col naso e si ficcò le mani nelle tasche degli shorts.
Camminò a testa bassa. Lasciò che i piedi scegliessero dove andare da soli. Aveva percorso quella strada fin troppe volte per potersi perdere.
Il tratto di viale dove Lonsdale Ave e Chesterfield Ave incontravano la 15th Street era sempre pieno di gente. Anche all'ora di punta sotto quel sole estivo, diversi passanti andavano rapidi dai negozi alle loro macchine, dagli ingressi ai bordostrada. Sopra alle vetrate dei negozi e dei ristoranti a due piani, svettavano le sagome grigie dei grattacieli del centro. I marciapiedi ampi erano formati da lastre quadrate con un motivo a bande verticali e orizzontali. A distanza irregolari l'uno dall'altro, alberi dalle chiome giovani e rade donavano solo un vago sollievo dalla calura estiva. Un bus di linea si fermò ad una delle fermate poco distanti e quando ripartì investì Jenn con un fiotto nauseabondo di copertone bruciato e gas di scarico.
Al diavolo.
Jenn tirò fuori di tasca il cellulare e digitò fluidamente con una mano sola: «Piani saltati. Vado al solito posto, se vuoi venire.»
Non era brava coi messaggi, ma alla persona a cui l'aveva spedito non sarebbe importato.
Continuò spedita lungo la via principale, poi svoltò verso est e camminò fino a quando non arrivò di fronte al Lion's Gate lane.
Era un condominio di dodici piani dall'aspetto ben tenuto, con un vialetto d'ingresso e due riquadri di erba con cespugli rigogliosi ai lati. I balconi -lunghi quanto l'intera facciata dell'edificio- avevano le ringhiere in ferro annerito. Biciclette, vasi con piante, tavolini, sedie, giocattoli abbandonati di bambini e stendini senza biancheria erano solo una parte di quello che si poteva vedere dalla strada, depositato su quei terrazzi. Jenn si portò una mano alla fronte, riparando gli occhi al sole, per scrutare i piani più alti.
Ora sarebbe solo dovuta entrare.
Il codice di sicurezza del portone d'ingresso non era mai stato cambiato negli ultimi anni, così digitò le cifre con la stessa sicurezza con cui lo avrebbe fatto un residente. Il portoncino si aprì davanti a lei con un docile schiocco e Jenn lo sospinse con una mano sola, facendosi strada all'interno.
Nell'androne delle scale non si fermò ad aspettare l'ascensore, né a chiamarlo. Iniziò a salire i gradini due alla volta, puntando dritta al tetto dell'edificio.
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ANGOLARE AUTORALE: Heyo, qui la trama della storia va non avanti in senso specifico ma volevo far capire di più il rapporto padre-figlia. Nella prima stesura di Wolfed Down i genitori erano proprio delle macchiette indefinite dall'intelligenza di un triceratopo, quindi jooooo... spero vada meglio in questa versione. ^^
Descrizioni e luoghi non sono inventati ma mi sono fatta dei viaggetti in GoogleMaps per vedere e capire come far muovere Jenn a Vancouver nord. Son povera quindi Google è l'unico tipo di viaggio che mi posso permettere. Capitemi.
( ͡° ͜ʖ ͡°)
Prossimo capitolo si parte con Markus. Ho cambiato il tipo di narratore da prima persona a terza persona, solo per poter far parlare Markus, Haley e Alina dal loro punto di vista.
✍️(◔◡◔) Me feliciosa.
Adieu e alla prossima.
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