Capitolo 4 - Una fitta in fondo allo stomaco
La mattina dopo aprii gli occhi poco prima che la sveglia suonasse. Alle 7:30, quando la mia migliore amica, Marie, venne a chiamarmi per andare a scuola, ero già prontissima. A quell'ora il cielo era ancora scuro e il freddo intenso, così feci del mio meglio per intabarrarmi in un cappotto di lana un po' informe ma caldo. Sotto la gonna dell'uniforme scolastica avevo indossato pesanti leggins neri.
«Sbrigati, Margot!» esortai mia sorella, che stava ancora finendo di fare colazione.
«Arrivo!» mi rispose lei con la bocca piena di cereali, poi mi raggiunse sulla porta mentre stavo chiacchierando con Marie degli ultimi fumetti che aveva acquistato il giorno prima.
La ragazza era l'unica con cui potessi condividere la passione che avevo per i manga e i videogiochi; non per niente era diventata la mia migliore amica fin quasi dal nostro primo incontro.
Era un'umana con una massa incolta di capelli biondi e due vivaci occhi grigi. Aveva un viso rotondo e le fossette quando sorrideva.
«Guarda!» esclamò, fermandosi sul marciapiede ancora coperto da un sottile strato di ghiaccio e tirando fuori dallo zaino un volumetto con la copertina plastificata. «Te l'ho portato.»
«Oh, mio Dio! Hai già finito di leggerlo!» gridai per l'eccitazione, mentre tendevo le mani e lei si tirava indietro ridendo.
«Ma è ovvio. E adesso posso prestartelo. Contenta?»
Lasciò che le prendessi finalmente dalle dita il fumetto; guardò soddisfatta il modo in cui lo sfogliavo, tenendolo con una cura che forse avrei riservato solo a una sacra reliquia.
«Posso svenire?» sorrisi, richiudendolo subito dopo per evitare di bruciarmi il piacere della lettura.
«Non sapevo che i lupi svenissero.» Le fossette ai lati della bocca di Marie divennero più profonde mentre infilavo il manga nello zaino e riprendevamo subito dopo a camminare, fianco a fianco. Il suo fiato nell'aria gelida si condensava formando volute color grigio perla.
Sembrava che nulla potesse scalfire l'ottimismo della mia amica. Amavo il suo essere sempre allegra e solare, malgrado la sua famiglia fosse stata colpita da un grave lutto quando lei era ancora piccola: suo padre era stato travolto da una slavina mentre si trovava con la moglie in motoslitta, poco distante da un resort sulle montagne del British Columbia. Si erano concessi il primo weekend da soli dopo dieci anni di matrimonio per festeggiare l'anniversario. La madre di Marie si era salvata per miracolo, mentre il marito era stato ritrovato dai soccorritori solo un'ora dopo l'incidente.
«Comunque, adesso avrò molto più tempo per dedicarmi alla lettura e ai videogiochi» considerai, guardando mia sorella Margot che ci precedeva canticchiando una canzone folk.
«Davvero? E come mai?»
«Sono stata retrocessa» dissi tutto d'un fiato, fingendo indifferenza. «Sono tornata a essere un'immatura.»
Risi, accorgendomi che quella risata suonava incredibilmente falsa. E dovette capirlo anche Marie, perché aggrottò la fronte e assunse un'espressione seria quando disse: «Mi dispiace molto, Sophie. Sicura di stare bene?»
Sospirai, stiracchiandomi un po'. «Come ha detto mio padre ai Landry, mi passerà.»
Marie restò in silenzio con le labbra che sporgevano in avanti. Mosse quei suoi passetti da bambolina giapponese, poi ammiccò verso di me. «Peccato, però, dover stare con i poppanti come Margot invece che con quei fighi pazzeschi...»
La mia gomitata le raggiunse il fianco, strappandole una risata soffocata mentre si piegava in due e mia sorella emetteva una sonora protesta: «Ehi, guarda che ti ho sentito! E non sono una poppante, io!»
La mia amica si raddrizzò, smettendo di ridere per strizzarle l'occhio. «Scusa, non dicevo sul serio.»
In effetti, stare con i coetanei di mia sorella sarebbe stato sopportabile: era sempre meglio avere a che fare con dei quattordicenni che con dei bambini di sei o sette anni, o magari ancora più giovani. Nel caso di immaturi così piccoli era la prassi che i lupi più grandi, prossimi a lasciare il gruppo, li sorvegliassero accudendoli come veri baby-sitter.
Margot, che aveva solo due anni meno di me e che, come me, si sarebbe sviluppata tardi, non aveva fatto mistero della sua gioia nel sapere che adesso quel ruolo di responsabilità sarebbe toccato a sua sorella, la nuova veterana del gruppo.
Quando giungemmo in vista della cattedrale di St. John, un edificio moderno dalle grandi vetrate colorate, come al solito ci preparammo a svoltare a un incrocio, anche se passare davanti alla chiesa ci avrebbe consentito di guadagnare tempo.
Lo facevamo per precauzione, perché là si riunivano spesso gli attivisti dell'MDU, il Movimento per i diritti degli umani, e non volevo incidenti.
Non capivo quella gente e il motivo delle manifestazioni che tante volte avevano portato scompiglio nella nostra comunità. I lupi, era vero, a volte avevano corsie preferenziali per accedere a determinate professioni, tutte quelle in cui la prestanza fisica era uno dei requisiti richiesti, ma nei restanti casi erano quasi sempre le prime vittime delle discriminazioni razziali. Se era certo che quelli della mia specie erano presenti in numero cospicuo tra i vigili del fuoco, gli agenti di polizia, gli operai e nell'esercito, ad esempio, era un dato di fatto che per qualsiasi altra professione, soprattutto in quelle che richiedevano un costante contatto con il pubblico, i lupi fossero osteggiati in ogni modo. Non conoscevo nessuno dei miei simili che insegnasse, che esercitasse la professione medica o lavorasse nei servizi sociali. I lupi impiegati nel settore pubblico, negli uffici postali – come mio padre –, nelle società dei trasporti erano piuttosto rari, così come nell'ambito della ristorazione. Inoltre, negli sport, dove avrebbero potuto eccellere, di solito venivano tenuti in scarsa considerazione proprio perché fisicamente superiori ai comuni esseri umani, cosa ritenuta iniqua. Come far gareggiare una Corvette contro un'utilitaria, in pratica.
A me sembrava che tutte queste restrizioni applicate alla nostra comunità compensassero i vantaggi ottenuti in altri campi. Insomma, mi appariva un buon compromesso.
Ma, forse, ero ancora troppo giovane per avere una ben chiara visione del mondo, come mi aveva detto un'attivista con cui avevo provato una volta ad avere uno scambio di opinioni. Era successo dopo che, a scuola, una delle mie amiche era stata presa di mira dal figlio della donna, che aveva scatenato una vera e propria rissa in cui ero rimasta coinvolta per sbaglio.
Ci avevo guadagnato una gomitata nell'occhio e, senza che avessi fatto male a nessuno, un bel provvedimento disciplinare come i maschi del branco che avevano spaccato nasi e fratturato braccia.
Quella volta, i genitori dei lupi coinvolti avevano sborsato migliaia di dollari canadesi per risarcire le famiglie dei ragazzi umani feriti e mettere a tacere lo scandalo. Anche i miei.
Ma nella nostra comunità se n'era parlato per mesi. Una gran brutta storia.
Da quando, nel 1867, con il celebre accordo Montague-Barlow i lupi nordamericani erano venuti allo scoperto e si erano impegnati a convivere pacificamente con gli esseri umani, avevamo sempre cercato di evitare tensioni e scontri. C'era stato un lungo periodo, nella prima metà del Novecento, in cui erano state addirittura incoraggiate le unioni miste, dalle quali erano nati moltissimi individui ibridi che avrebbero dovuto rappresentare un ponte tra umani e lupi. Risultato? Erano stati discriminati dagli uni e scansati dagli altri e la politica delle unioni tra razze accantonata perché fallimentare.
Be', sì, dovevo riconoscere che ero davvero ferrata in storia. Sia che si trattasse di storia del Canada e del Québec, storia mondiale o storia del mio popolo. Non per niente ero arrivata prima all'edizione precedente dei Campionati di storia. E terza in quelli di letteratura, per la gioia e l'orgoglio della mia insegnante.
«Oltre a essere una nerd sei pure una secchiona» mi avevano presa ancora una volta in giro le mie amiche, ma sapevo che non c'era invidia o gelosia, in loro. Come lupa non mi prendevano certo a modello, ma come studentessa potevano congratularsi con me. Che dire, compensavo l'indolenza del mio lato animale con i successi scolastici conseguiti da umana. E sospettavo che mi volessero bene proprio perché come lupa mi consideravano un'autentica schiappa.
Quando arrivammo davanti ai cancelli della scuola che frequentavamo, Marie e Margot osservarono che era davvero molto presto: erano appena le otto, mentre le lezioni sarebbero iniziate solo quarantacinque minuti più tardi.
«Allora che facciamo?» domandai, grattandomi il mento.
«Colazione da Chez Fernand?» propose mia sorella, giocherellando con la frangia della sciarpa.
«Abbiamo già fatto colazione» sorrisi, ma mi bastò un'occhiata complice di Marie per capitolare.
Chez Fernand era una pasticceria francese che distava qualche centinaio di metri. Ci arrivammo agevolmente, con il naso rosso per il freddo e l'odore di neve tra i capelli. Quando entrammo ci accolse il suono cristallino di un sonaglio per porta e un odore di croissant fragranti al burro, appena sfornati.
Mentre stavo già pregustando il momento di affondare i denti nel dolce, la porta d'ingresso girò di nuovo sui cardini, facendo tintinnare ancora una volta il sonaglio. Il vento gelido mi portò un aroma di acqua di colonia, di gomme da masticare, di cuoio, misto a un odore di selvatico che avevo già conosciuto.
Quando mi girai sapevo chi avrei visto e lui era proprio là, in mezzo a un gruppetto di ragazzi che ridevano e scherzavano: Jean Martel.
Nel momento in cui la porta si richiuse dietro di loro, gli studenti tacquero tutti e appuntarono gli occhi su me e mia sorella. Occhi di lupo.
Tra noi riuscivamo sempre a riconoscerci, a prescindere dagli odori personali. Il lupus hominarius aveva un modo di guardare e di muoversi che lo distingueva da qualsiasi altro essere umano.
Dei Grigi!
Notai che sotto le giacche invernali indossavano l'uniforme di una scuola privata non molto lontana dalla pasticceria. Adesso capivo perché non avevo mai visto prima Jean: era uno studente di un altro istituto.
Mentre lo fissavo imbambolata lui alzò una mano e mi rivolse un sorriso amichevole, ma io strinsi la mandibola e presi per un braccio Marie. «Andiamocene subito» dissi tra i denti. Avevo giurato che gliel'avrei fatta pagare, ma per il momento mi sarebbe bastato mostrargli il mio disprezzo.
«Cosa? Perché?» La mia amica guardò il gruppetto di ragazzi, poi, cogliendo il modo in cui ci scrutavano, restò in silenzio. Si lasciò trascinare docilmente via, malgrado le proteste di Margot, che comunque si affrettò a seguirci.
Benché i Grigi si scansassero per lasciarci passare, Jean non si spostò abbastanza, lasciando che la sua spalla strusciasse contro la mia. A quel contatto avvertii una sorta di fitta in fondo allo stomaco che provai a ignorare, ma solo quando mi trovai fuori dalla pasticceria mi resi conto che stavo sudando e il cuore aveva accelerato i suoi battiti.
«Sophie, tutto bene?» mi chiese Marie. La sua voce tremò; nel momento in cui guardai il suo viso pallidissimo, notai che le stavo ancora stringendo con forza il braccio. Staccai la mano mentre piccole piume bianche fuoriuscivano da un profondo squarcio sulla manica della sua giacca.
«Che ti sta succedendo?» La testa color rame di mia sorella si interpose tra le nostre. «Ti trasformi davanti a tutti, adesso?»
Scossi la testa, osservando gli artigli e la peluria scura sul dorso della mano. «No, certo che no» risposi, tentando di mantenere la calma e nascondendo dietro la schiena i segni di quello strano cambiamento indolore. «Mi dispiace tanto per la tua giacca, Marie: te la ripagherò. A proposito! Mi sono ricordata di una cosa...»
Iniziai a indietreggiare mentre Margot mi guardava stupita. «E adesso dov'è che vai?»
«A casa. Voi precedetemi pure. Ci vediamo a scuola!»
Prima che potessero fermarmi girai sui tacchi e corsi via, con il ghiaccio sul marciapiede che scricchiolava sotto gli stivali. Mentre tutto il mio corpo si tendeva nello sforzo di accelerare, mi accorsi che la potenza muscolare delle gambe era diversa dal solito. Mi sentivo veloce come o, addirittura, più di quando ero nella mia forma di lupo. Il vento freddo mi sferzava senza farmi rabbrividire, i colori intorno a me erano più nitidi del normale, gli odori più penetranti.
Percepii il profumo di carta stampata e di caffè che proveniva dalla veranda del signor Grandier, dove l'uomo era solito fare colazione leggendo il giornale anche quando nevicava; l'odore acre di pannolini sporchi dei gemelli di pochi mesi dei signori Dion quando passai davanti a casa loro. Mi arrivò in modo estremamente vivido l'afrore di colla, carta e inchiostro dell'ufficio postale dove lavorava mio padre, che allora stava aprendo al pubblico; quello di pelliccia bagnata del gatto che stava attraversando la strada una ventina di metri più avanti...
Arrivai a casa in un lampo, con lo zaino traballante sulla schiena mentre percorrevo il vialetto e mi fiondavo alla porta.
A quell'ora i miei genitori erano già usciti. Mio padre per svolgere il suo ruolo di revisore dei conti, mia madre per lavorare come commessa part-time nel piccolo negozio di articoli natalizi del signor Manniti. Quest'ultimo, un lupo di origini italiane che esponeva tutto l'anno nella sua bottega bellissimi presepi napoletani meccanizzati – che faceva funzionare per la modica cifra di mezzo dollaro – era ormai un amico di famiglia. A ogni Natale ci regalava una sfera decorativa da appendere all'albero, simile, diceva, a quelle dei mercatini natalizi di località dai nomi esotici come Bozen e Vipiteno.
Entrando in casa, mi fermai quasi subito all'ingresso per guardare la mia immagine riflessa nel grande specchio ovale affisso alla parete. Sobbalzai vedendo i canini acuminati sporgere dalla gengiva almeno mezzo centimetro più del normale. Gli zigomi mi parvero più marcati e le orecchie...
Sollevandomi i capelli cacciai un urlo: le orecchie non erano più dove avrebbero dovuto essere! In compenso, passandomi le dita un po' più su, all'altezza delle tempie, trovai due piccoli rigonfiamenti che, sotto la mia mano, parvero come svegliarsi da un breve sonno. Si drizzarono, tendendosi per percepire ogni più piccolo suono proveniente da qualsiasi direzione.
Queste sono... sono... orecchie di lupo!
Se mentre correvo mi ero sentita quasi galvanizzata dalle nuove sensazioni che stavo provando, nel guardarmi adesso allo specchio fui colta da un conato di vomito. Questo mio aspetto incompleto era assolutamente disgustoso. Grottesco. Non avevo niente della bellezza sbarazzina di quando ero una ragazza umana, né della fiera eleganza della mia forma animale.
Insomma, ero... davvero brutta.
Come avevo fatto la sera precedente, mi sforzai di ordinare al mio corpo di tornare indietro. Volevo che diventasse quello che era prima che si innescasse il perverso meccanismo di quello strano cambiamento.
Mi ci vollero dieci minuti buoni per recuperare le mie sembianze umane perché, rispetto alla prima volta, la trasformazione era andata più avanti.
L'angoscia mi strinse il petto. Corsi in cucina per bere un paio di bicchieri d'acqua trangugiandone il contenuto con foga. E fu un sollievo per la mia gola riarsa.
Forse sono malata...
Mi toccai la fronte, come se il calore potesse essere, per un lupo, un sintomo di una qualche patologia!
Dandomi della stupida, urlai di frustrazione mentre scendevo nel seminterrato, dove mia madre aveva allestito un piccolo spazio lavanderia. Tirai fuori dall'asciugatrice la giacca e il maglione che Cédric mi aveva prestato – o meglio, lanciato addosso – il giorno prima, poi feci per tornare al pianterreno. Ero tornata a casa per nascondere alla mia amica e a Margot ciò che stava accadendo al mio corpo, ma avrei dovuto trovare una scusa per giustificare il fatto di averle piantate in asso tutto d'un tratto. Avevo pensato che i vestiti di Cédric sarebbero serviti allo scopo.
Mentre me li stringevo al petto mi fermai, con il piede sul primo gradino della scala di legno che portava su. I miei occhi si fissarono sulle numerose scatole all'interno di un vecchio armadio dalle ante trasparenti, e su una in particolare.
Trascorsi qualche attimo restando immobile, poi tornai indietro dopo aver poggiato giacca e maglia sull'asciugatrice. Non abbandonai mai con lo sguardo la scatola di cartone che premeva contro una delle ante dell'armadio. A differenza delle altre, era rivestita di velluto color ocra e aveva dei ganci metallici che ne chiudevano il coperchio.
Quando la tirai fuori dal mobile la portai con me sulle scale e, sedendomi sui gradini, la poggiai sulle ginocchia per poi aprirla con grande cura sollevando il coperchio di lato.
Forse era da un paio d'anni che non la tenevo tra le mani. Un debole odore mi raggiunse le narici, che si dilatarono nel tentativo di identificarlo. Abbassai il viso per annusare gli oggetti contenuti... Avevo quasi dimenticato quell'odore che adesso mi solleticava il naso. Possedeva una fragranza un po' aspra, tipicamente maschile, ma anche con note più dolci. Mi raddrizzai per frugare con la mano tra vecchie foto, alcune t-shirt con il logo dei Québec Bulldogs, della Forteresse Junior Hockey Club e di altre squadre di hockey su ghiaccio, e svariati oggetti che cominciavano a puzzare di chiuso. Trovai un puck di gomma dai bordi consumati che osservai rigirandomelo tra le dita, poi lo misi a posto sostituendolo con una delle magliette. Me la portai al viso chiudendo gli occhi.
Benché fosse stato lavato anni prima, l'indumento, che aveva perso da tempo il profumo di sapone da bucato, conservava ancora quell'odore asprigno che avevo sentito non appena aperta la scatola. Lo inspirai profondamente mentre cercavo di ricordare il ragazzo che aveva indossato quella t-shirt: era alto come mio padre, anche se meno muscoloso, ma aveva gli stessi occhi gialli. I capelli erano rossi come quelli di Margot e la sua voce...
Sophie.
Mi parve di sentirlo pronunciare il mio nome.
Sophie.
«Jonathan...»
Prima che la commozione prendesse il sopravvento, riposi nella scatola la maglietta, richiusi il coperchio e sistemai il contenitore di nuovo nell'armadio, sperando che mia madre non si accorgesse che era stato toccato.
I miei genitori avevano proibito sia a me che a Margot di parlare di nostro fratello maggiore, come se non fosse mai esistito. Si vergognavano di lui, lo consideravano un disonore per la famiglia. E io temevo che un giorno o l'altro avrei finito per dimenticarmi davvero che aveva fatto parte della mia vita.
Per non pensare a quella possibilità mi concentrai su altro.
Mi affrettai a recuperare i vestiti di Cédric, poi finalmente tornai su per sistemarli in un bustone di plastica. Guardando l'orologio, calcolai il tempo che avrei impiegato per arrivare a scuola: mi resi conto che non ce l'avrei mai fatta ad arrivare puntuale per il suono della prima campanella. A meno che non avessi fatto ricorso alla strana forma ibrida che avevo tanto faticato per far sparire e che non sapevo come controllare.
Fuori discussione, ovviamente.
Rassegnata ad arrivare in ritardo, stavolta lungo la strada me la presi comoda, fermandomi di tanto in tanto per guardarmi le mani e tastarmi la bocca o la testa, alla ricerca di stranezze anatomiche che avrebbero dovuto mettermi in allarme.
Per fortuna non ne trovai e la scuola mi comparve davanti agli occhi una mezz'ora più tardi, dietro l'imponente cancello di ferro battuto.
Mentre stavo per varcarne la soglia, vidi un uomo dall'altro lato della strada che mi fissava immobile. Aveva un aspetto trasandato, come se avesse faticato per allacciare le scarpe e alzare la zip della giacca, che infatti sembrava essersi inceppata a metà strada.
I suoi occhi apparivano estremamente chiari, tanto che non riuscii a distinguerne la pupilla.
Non può essere...
Mi toccai d'istinto il collare sotto la sciarpa. Abbassai lo sguardo solo qualche secondo per scoprirne il cuoio con le pietre sciamaniche che lo ornavano. Poi, quando alzai di nuovo gli occhi, l'uomo non c'era già più.
Restai per un attimo ferma a scrutare la strada di fronte a me. Annusai l'aria, ma non rilevai nulla di insolito.
Devo essermi sbagliata.
Mi affrettai a correre verso l'ingresso della scuola senza più pensare a quel bislacco individuo. Quando avvertii un lieve pizzicore alla base del collo, mi grattai distrattamente con le unghie e nascosi di nuovo il collare sotto la sciarpa.
Nuovi dettagli sulla vita provata di Sophie 😊. Abbiamo conosciuto la sua migliore amica, Marie, una ragazza umana con una tragedia familiare alle spalle, e, in modo indiretto, il fratello Jonathan, ripudiato dalla famiglia per qualche ragione che non conosciamo ancora.
Ci siamo anche imbattuti nuovamente nell'enigmatico Jean e abbiamo scoperto che umani e lupi convivono, anche se non in modo del tutto privo di difficoltà.
Insomma, penso che sia stato un capitolo abbastanza interessante... o magari no... Boh!
Fatemi sapere cosa ne pensate e le vostre teorie sull'uomo di fine capitolo.
Un bacione! A presto <3
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top