FEEL GOOD #1

Un omogenizzato per neonati sarebbe stato più gradevole, la verità è che non posso permettermi di fare la schizzinosa. Addento la mela senza sbucciarla (spero vivamente che sia stata pulita) e, se proprio ho i morsi della fame, mando giù un paio di cucchiaiate della zuppa indigesta nella ciotola. Non ci sono orologi o finestre. L'unica maniera che ho per non impazzire e dare un senso alle giornate è contare le visite del mio carceriere. Un tipo con il volto coperto da un passamontagna. Entra due volte al giorno, per portarmi il vassoio del pranzo e poi quello della cena. Il menu è sempre lo stesso: zuppa scondita e mela.

In passato ho già avuto modo di riscontrare il senso dell'umorismo di Minimal Jack. Adesso ha toccato il suo apice rievocando il pranzo in ospedale che lui stesso mi aveva distrutto quando ci eravamo conosciuti: una zuppa e una pera. Presumo che il carceriere passi due volte al giorno (per il pranzo e la cena) e non quattro (per la colazione e la merenda) basandomi sui miei ritmi biologici. A volte mi risveglio con una fame da lupi e so che è ora di colazione, ma non ho cibo. Dopo circa quattro ore arriva il vassoio del pranzo. Dopo circa altre sei arriva la cena. Poi, più nulla fino al mio successivo risveglio. Se l'ipotesi è corretta, allora ho già trascorso sette giorni rinchiusa nella Red Zone.

Il carceriere, l'unico contatto umano che ho con la realtà esterna, non mi rivolge mai la parola nonostante le mie insistenze. Entra dalla porta blindata: per quanto ne so è l'unico accesso alla fumetteria. Non ho mai saputo che l'esercito di Minimal Jack potesse contare su soldati uomini, ho sempre e solo conosciuto le Tipping Girls. Mi viene difficile sopraffarlo perché l'uomo è molto grasso a giudicare dalla stazza sotto la divisa grigia. Non ci ho neppure tentato perché non ne ho avuto l'occasione. Entra sempre quando sono distratta, appisolata o comunque lontana dalla porta. Mi tiene d'occhio con le telecamere di sorveglianza, quindi sa quando è il momento adatto per consegnarmi le pietanze. Tentare un appostamento vicino alla porta per sorprenderlo alle spalle sarebbe altrettanto vano. Servirebbe solo a farmi ritardare l'ora della cena.

I miei ritmi sono quindi scanditi dalle due visite giornaliere del mio carceriere, e dall'aggiornamento quotidiano di Minimal Jack che si collega al monitor centrale sul vecchio bancone. Sono anche gli unici momenti nei quali posso ascoltare un po' di musica di sottofondo, altrimenti credo che avrei già perso il senno. Sempre inquadrato in primo piano, Minimal Jack sfoglia delle cartelle come fosse il giornalista di un notiziario. «Oggi ci colleghiamo con Mercedes,» dice Minimal Jack mentre dallo studio trasmettono The Crying Game. «Vediamo che aria tira a lavoro.»

Una brutta aria. Mercedes mi ha scritto una mail, pensando che la leggessi dalla clinica dove crede che io sia ricoverata. A quanto pare i Grandi Capi della multinazionale hanno scoperto un falso in bilancio. Minimal Jack aggiunge, malignamente, che Mercedes sta facendo di tutto per occultare i libri contabili del suo settore assicurativo, perché pare che lei c'entri qualcosa e che stavolta non la passerà liscia. So che Minimal Jack non vuole semplicemente spaventarmi, ma che è la verità. Il precedente stagista di mia madre, Darren, era il suo uomo di fiducia: conosceva i codici della banca e lo mandava in giro a fare commissioni per conto suo. Però a volte i conti di Mercedes erano in rosso, così Darren si lamentava di dover attingere dal proprio portafogli (pur sapendo che non sarebbe mai stato rimborsato) per evitare che mia madre cedesse al vizietto di sottrarre fondi dalla cassa comune del suo settore.

Minimal Jack è entrato in possesso di una registrazione direttamente dalla sala riunioni e me la fa ascoltare. La voce di Mercedes è squillante, quasi goliardica. Comunica rilassatezza. Si affanna per non far ricadere i sospetti su di lei. Sfodera un atteggiamento materno nei confronti del suo settore (assicurazioni contro incidenti automobilistici): quelli che lavorano per lei sono persone integerrime, sostiene, e metterebbe la mano sul fuoco per giurare sull'onestà di ciascuno di loro. Mi stupisce non poco. In precedenza Mercedes non si era fatta scrupoli ad addossare le colpe su Darren, ma forse stavolta il guaio è così serio che non vuole rischiare il futuro di nessuno dei suoi dipendenti. Li ha talmente a cuore che uno dei Grandi Capi (Malcolm Rourke) la rimprovera di essere troppo indulgente e al contempo troppo dispotica con i suoi sottoposti: questi hanno terrore di parlare con loro, i Grandi Capi, se non è presente anche Mercedes, o anche solo di mandare loro una semplice mail se in copia (anche invisibile) non è presente Mercedes. Li culla come una mamma, e li sottomette come una sultana. Mercedes non teme di alzare il volume della voce, neppure di fronte a un Grande Capo (soprattutto l'altro, quello dalla voce effemminata, Danny Hightower): lei è la migliore, e se il suo settore ha un rendimento eccellente è grazie al suo modo di gestire gli affari.

La riunione è interrotta da Stefan, il nuovo assistente, che le porta il caffè. Mercedes lo sgrida per non avere pensato anche ai Grandi Capi e lo manda a preparare altri caffè. A nulla valgono le proteste di Stefan, che sostiene di averne preparato solo uno perché così gli aveva chiesto Mercedes via skype. Mercedes non ammette repliche: «questa non è una democrazia,» e c'è un motivo se lei si trova in cima alla piramide. Sa quando essere prudente, sa quando rischiare. Per cui manda via Stefan con una sfilza di parolacce ("testa di cazzo") e battute sessiste ("muovi quel bel culetto muscoloso") che suscitano l'ilarità dei Grandi Capi. Mercedes è un mostro, lo so, ma è pur sempre mia madre.

«Da MJ, per oggi è tutto,» mi comunica Minimal Jack. Ci guardiamo per un momento. Non dico nulla. Mi accorgo che, sin da quando lo conosco, anche quando lo amavo follemente, mi sono sempre trovata a disagio in sua compagnia. Non avevamo argomenti di conversazione, cose di cui ridere, interessi comuni. Perlopiù parlavamo di addestramento o di amenità come per esempio se Windows fosse migliore di Apple o viceversa. Sono molti i silenzi imbarazzanti che ho condiviso con lui. Come quello che viviamo adesso, entrambi. «Restituisco la linea alla Red Zone. Buon proseguimento e, se non dovessimo vederci, buona sera e buona notte.» Minimal Jack si scollega, e con lui l'ultimo scampolo di Mr. Blue Sky degli Electric Light.

Per me va bene così. Almeno oggi non ho dovuto sorbirmi l'aggiornamento quotidiano sull'andamento di WIZ. Solitamente Minimal Jack mi riporta le statistiche di acquisizione, i dati di sviluppo e tutto quello che serve per ricordarmi il suo successo. Ancora due settimane al Giorno della Conversione e il suo successo sarà totale. Quando ci penso vengo colta da una furia inarrestabile, inserisco il braccio su uno scaffale e spingo quanti più fumetti possibile verso il limite per buttarli giù. Cascano ai miei piedi. Ricordavo fossero anneriti. Di questi invece riconosco perfettamente la cover: sono per bambini o a tema supereroi. Come per magia, volano verso l'alto. Sembra che il tempo si stia riavvolgendo, i fumetti risalgono sullo scaffale ripristinando la posizione che avevano prima. Sono impazzita, non ci sono più dubbi.

Riprovo a gettarli per terra, ma quelli ritornano al loro posto. Riprovo l'esperimento più volte e il risultato è sempre identico. Tante erano la rabbia e lo sconcerto che non mi sono accorta di essermi addentrata in fondo alla fumetteria. Sinceramente non ricordavo fosse così grande. Come se le sue pareti si fossero allungate, e io fossi un topolino bianco e biondo al centro di un pazzesco labirinto.

«It's raining in my heart... every time we are apart...» Non sentivo questi versi da una vita. Li canticchiava Debra Jones quando dividevamo le notti alla Tipping Wiz. Aggiro il limite di un alto scaffale e scopro di non essere sola. Vedo una ragazza rannicchiata sul pavimento, con le spalle addossate alle mensole di fumetti. Ha il volto coperto dalle mani, credo abbia la mia età. Le sue spalle ricevono continui sussulti provocati dal pianto sommesso che, di tanto in tanto, interrompe il suo canticchiare. La ragazza indossa una t-shirt leggera, scollacciata, colorata in maniera psichedelica, e che reca ancora l'etichetta del negozio, come se l'avesse rubata. La tracolla di una borsetta è allacciata all'incavo del gomito. Non ha i collant, le gambe sono libere e coperte fino al ginocchio da un paio di aggressivi stivali neri con il tacco. Nonostante stringa le ginocchia al petto, capisco che sotto è nuda, le intravedo il triangolo nero del pube.

«Ti hanno fatto del male? Tranquilla, ci sono io adesso,» le dico inginocchiandomi vicino a lei. Le accarezzo le spalle per farle capire che sono una presenza amica. «Lui mi ha uccisa,» risponde lei singhiozzando. «Lui mi ha uccisa.» Io conosco questa voce. «Lui mi ha uccisa, ed è tutta colpa tua.»

Le prendo le mani e delicatamente gliele tolgo dal viso per vederla bene. Porta una coroncina verde da ninfa dei boschi sui capelli biondi, cortissimi, ma con l'aggiunta di un paio di extension cenere polvere come i capelli di Barbie. Sulla fronte sono appoggiati un paio di sgargianti occhiali di plastica a forma di cuore che contribuiscono a disegnarla come una bucolica lolita. Ci guardiamo l'un l'altra. Io cado all'indietro riconoscendo i suoi occhi, il dolore che li affliggono e il risentimento che prova nei miei confronti. È Debra Jones!

«Perché sei venuta da me? Perché sei venuta a cercarmi?» mi urla contro. Vorrei dirle che non potevo fare altrimenti. Ero rimasta scioccata dal fatto che le avessero cancellato la memoria, e io cercavo delle risposte. Mi punta contro la mano, che impugna un lecca lecca smangiucchiato e anch'esso a forma di cuore, e mi addita con i suoi anelli d'oro. «Se tu non fossi tornata, se mi avessi lasciato stare... lui non sarebbe venuto da me! Lui non mi avrebbe uccisa. Tutta colpa tua! Colpa tua!»

Mi faccio indietro sospingendomi sui palmi delle mani, come una tarantola in fuga. Mi aggrappo agli scaffali più vicini e mi rimetto in piedi. Scappo via, fuggo attraverso il labirinto di fumetti, il più lontano possibile, lontana dal fantasma di Debra Jones.

Trovo rifugio dentro una stanza che non credevo esistesse. Una specie di ufficio d'alta classe come quello di Howard River. So di stare vivendo un'allucinazione. Non è la prima volta. Ma se lo so, perché non riesco a svegliarmi?

Una ragazza di colore, molto carina, è seduta sopra la scrivania. Non è una ragazza qualsiasi. È Mary Goldberg. Indossa collant scuri sulle sue gambe nere, che tiene divaricate, il seno non è molto grande ma il reggiseno push-up le fa un ottimo servizio. Insieme a lei c'è un uomo con la talare nera da sacerdote e i Ray-Ban sul naso. In là con l'età, ha una tinta nera fresca ai capelli e un paio di baffoni anni '70. Ed è a lui che Mary si rivolge: «ti va di scoparmi, capo?» Il prete le infila una mano nel reggiseno: «sei la segretaria più intelligente che ho mai avuto.» Detto ciò l'uomo la fa sdraiare sulla scrivania, ma a pancia in giù sul mogano e con il sedere sollevato. «Oh, si, capo, aprimi in due.» Il prete si inumidisce due dita dentro la bocca. Un barboncino dal pelo bianchissimo, accucciato sul sofà, si accorge della mia presenza e abbaia nella mia direzione. Il prete e Mary mi vedono.

«Oh, guarda chi c'è,» dice il prete mimando una scherzosa mossa di karate verso di me. «Mary, hai mangiato il cavolo come ti ho detto?» chiede poi alla ragazza, che annuisce solerte: «sì, capo, così il mio sapore è gradevole.» Il prete è soddisfatto: «ben fatto, Mary. Occupati della nostra ospite. Falla divertire!» Mary porta due dita a forma di V davanti le sue labbra sporgenti e ci fa passare in mezzo la lingua. «Vuoi che ti lecco? O vorresti farmi questo?» dice offrendomi il petto e strizzandosi un seno come a volermi insegnare come si fa. Sono inorridita.

«Non vedi che non vuole? Io stavo scherzando. Prendi sempre tutto alla lettera, tu.» Il prete si è inalberato. «Sparisci, zoccola!» dice raccogliendo da terra i vestiti femminili e lanciandoli contro Mary: «torna a lavorare, alla tua scrivania! Di là ci sono i Lockdown che aspettano per firmare il contratto. Intrattienili, fai il caffè, la lap-dance, quello che ti pare. Ma se vogliono i panini, pagano di tasca loro.» Lei recupera pelliccia e il babydoll, prende il barboncino sottobraccio e si dilegua come se nulla fosse.

«Prima di parlare d'affari mettiamo qualcosa sullo stomaco. Hai preferenze? Cibo vegetariano, drink alla frutta...? Mi fa piacere rivederti, Baby Lynn. Ne è passato di tempo.» Il prete gira intorno alla scrivania, dove ha lasciato un vassoietto con una montagnetta di cocaina. La taglia con l'unghia lunga del mignolo e dà una sniffata veloce. Noto che, appeso alla parete alle sue spalle, c'è il ritratto di una signora, bellissima, nuda e con le occhiaie profonde: ritta in piedi, con una canna fra le dita, la pancia gravida e un neonato carponi sul tappeto che la osserva. «Lei è mia moglie, adesso si sta disintossicando. Ho commissionato io il quadro, poi ho fatto ammazzare di botte l'artista perché nessuno tranne me può vedere mia moglie nuda.»

L'uomo fa il giro della scrivania, viene nella mia direzione. «Fai la timida con me, Baby Lynn? Dopo quello che c'è stato fra di noi?» Si sbottona il clergyman a partire dal colletto bianco. Pian piano la tunica nera si apre su un petto villoso, su una pancia sporgente, e gli ricade ai piedi lasciandolo nei boxer a righe del pigiama. L'uomo si sfila i Ray-Ban dal naso. «Mi riconosci?» Se ne sta con la bocca semiaperta da stoccafisso. Va bene che alla radio danno Are You Experienced? ma chi si crede di essere, una rock star? «Vediamo se questo ti rinfresca la memoria, Baby Lynn...» si cala giù i boxer. Quello che vedo mi impressiona e disgusta. Il suo membro turgido è... mostruoso. La pelle è macchiata dalle voglie bianche della vitiligine. Appartiene all'uomo del video hot girato sulla spiaggia, all'uomo che ha scopato una donna con la mia faccia. Lui è il protagonista del deepfake. «...Oppure preferisci che ti chiami Deepy Baby?»

Indietreggio finché non sbatto con la schiena sulla parete. L'uomo ride follemente. «Non tirartela, Baby. Non eri così quando ci siamo conosciuti. Anzi, ti piaceva moltissimo.» La musica si trasforma in Money, Money, Money. Lo scenario cambia improvvisamente. L'ufficio viene sostituito da una specie di sala informatica tappezzata di monitor. Tutti gli schermi trasmettono lo stesso programma: ci siamo io e Barbie, ci troviamo in un casinò, del tipo di Las Vegas, siamo seduti per cena. Io siedo con Matt mentre Barbie siede con il suo fidanzato, l'uomo nudo. «Sapete che il mio nome di battesimo è Archie?» ci racconta l'uomo nudo e allora io, Matt e Barbie ridiamo divertiti. «Non potevo sfondare nel porno chiamandomi Archie. Il più grande attore porno del mondo si chiama Archie! Per questo ho dovuto scegliere un nome d'arte: Joe Black & White. Un nome falso, ma almeno nel porno sembra vero.»

Mi osservo mentre rido. Sono vestita in maniera sexy, con un vestitino leopardato, l'ho indossato perché me lo ha chiesto Matt. Lui, seduto accanto a me, sta fumando una sigaretta. Non aveva mai fumato prima d'allora. Matt adocchia i seni di Barbie, allora trattiene il fumo e si sporge verso la mia migliore amica. Anche lei si sporge verso il mio fidanzato. Matt e Barbie si passano il fumo di bocca in bocca. Io e Barbie abbiamo sempre scherzato sul fatto di scambiarci i fidanzati, ma non l'abbiamo mai fatto. Barbie adesso sta insieme all'uomo con la vitiligine, eppure sta allungando le mani sotto il tavolo verso le gambe di Matt.

L'uomo nudo mi prende la mano. Io sono sconvolta da quello che succede tra il mio fidanzato e la mia amica, e ora sono imbarazzata perché quest'uomo ci sta provando con me. «Quello che vale per me, vale anche per te,» dice l'uomo nudo, e ora stringe forte la mia mano. «Il tuo nome di battesimo potrebbe non rappresentarti appieno. Forse il tuo nome d'arte, Deepy Baby, esprime quello che sei veramente. Perché non ammetti questa possibilità? Perché non ti lasci andare? Potremmo scoprire di essere anime gemelle, potrei scoprire che anche tu hai la vitiligine nelle tue parti intime...»

Sottraggo la mano dalla sua presa. Urlo con tutta la voce che ho in gola. Gli sferro un pugno. Ma non colpisco l'uomo in faccia. Il mio pugno si abbatte su un monitor spaccandone le schermo. Tutti gli schermi intorno a me si frantumano e cristalli affilati mi piovono addosso. Mi butto per terra, con le mani sopra la testa.

Sono di nuovo nella fumetteria. Il mondo sembra tornato alla normalità. Spero che sia davvero così. Davanti a me c'è il vassoio con la zuppa e la mela. Sono intatti. Mi sono appena stati consegnati. Il mio carceriere è ancora lì, fermo sull'uscio, a osservarmi attraverso le fessure per gli occhi del passamontagna.

«Cosa hai da guardare, bastardo? Fammi uscire da qui! Fammi uscire o ti uccido!» Alle minacce faccio seguire l'azione. Afferro il vassoio rovesciando zuppa e mela sul pavimento. «Lo sai che sono una campionessa di tiro? Posso farti molto male.» L'attimo dopo il vassoio d'argento sfreccia nell'aria, manca di molto il carceriere, colpisce la parete, si ammacca e stridulo ricade per terra. «In questo caso,» dice il carceriere prima di richiudersi la porta blindata alle spalle: «la tua mira fa schifo!»

Va via. L'unico uomo, per quanto repellente, che mi tiene legata alla realtà. Rimango al buio. Di nuovo. Sola con me stessa. E con i miei incubi.

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