BIG TROUBLE #7

Vengo sollevata come un fuscello, le mie braccia circondano le spalle muscolose del señor Montero. Non voglio più separarmi dal suo abbraccio. Nel tempo ho cominciato a considerare Raul Garcìa Montero un fratello maggiore. Nonostante io non l'abbia mai visto in volto.

Pure nella suite che ha prenotato al Googol Palace, pure in veste da camera, non si toglie la maschera da tigre associata al nome di battaglia di Blanco Jr., campione del wrestling messicano. Sulle nari rosee della tigre ha inforcato un paio di occhialini da vista stile intellettuale. Per essere un lottatore della lucha libre bisogna avere dieci decimi, si vede che sta invecchiando.

«Accomodati, bionda.» Quanto mi è mancata la calda voce baritonale di Raul. Mi siedo vicino al cassettone, lui sul divano rosso. Le camere dell'hotel hanno preso il posto dei letti a castello del dormitorio universitario. Mi ha condotto lì Tìa Soledad dopo avermi individuato alla mafia-convention e non prima di avermi rimproverato per la mia tendenza a ficcarmi nei guai.

Tìa rifornisce un piatto al buffet della suite, quindi torna da me con salatini vegani e calamari ripieni alla bolognese (qualsiasi cosa significhi). Nel porgermi il cibo, una tetta plutonica va praticamente fuori dalla scollatura che già esibiva generosamente il seno sostenuto da sportiva. Dico che sono sazia, la luchadora porta via. Pure la bella compagna di Raul, abilissima combattente nell'arena, non toglie mai la sua maschera fucsia.

«Ci siamo ritirati dalla lucha libre.» La notizia mi coglie come un fulmine a ciel sereno. Il wrestling è la loro ragione di vita, se hanno deciso di mollare il motivo sarà grave. Noto i lividi e le escoriazioni sulla pelle di Raul, ma a quelle ci hanno fatto il callo. «Sono stato disonorato.» So quanto gli costa ammetterlo. La sua voce è interrotta da un singulto. Un uomo grande e grosso come lui. Tìa si siede al suo bracciolo, le gambe aperte come farebbe un motociclista, gomiti puntati sulle ginocchia e mani congiunte verso il centro. Mi racconta quello che lui non riesce a dire. Uno sfidante misterioso si era presentato al torneo del Retaliation. Non era messicano, il fisico asciutto ma non muscoloso, indossava la maschera di un caprone nero con le corna ricurve sulla fronte. Non solo lo sfidante aveva battuto Blanco Jr., ma aveva fatto quello che nessun guerriero onorevole avrebbe mai fatto: gli ha tolto la maschera da tigre di fronte al pubblico e l'ha lanciata sulle corde del ring che gocciolavano sangue. La sua identità da lottatore non è più un segreto. Gli prometto che non guarderò mai quel video, per me lui rimane per sempre il mitico uomo tigre. Mi ringrazia, ma non tutti la pensano come me. La leggenda è finita.

Raul riprende il racconto ora che ha superato la commozione. Sul lettino medico in infermeria aveva concluso di essere stato vittima di un complotto. Il campione con la maschera di capra era stato pagato dai suoi avversari per umiliarlo. Non aveva agito da solo. Raul sospetta che sia stato aiutato da un complice. Si riferisce alla fidanzata del suo manager, Juan Morales, la donna-Fujiko che io stesso avevo incontrato l'anno prima. Juan è morto, colpito da una misteriosa freccia intinta nel curaro. A quel punto Raul e Tìa hanno deciso di cambiare aria per un po'. Sono venuti al Qwerty per comprare qualcosa che può aiutarli a salvarsi. Vedo Raul grattarsi una pustola rossa sul collo taurino. «Vai o farai tardi,» dice alla fidanzata, più giovane di lui di molti anni.

Tìa indossa un giubbotto slim da motociclista sulla t-shirt leopardata, perfetta sui suoi pantaloni aderenti in pelle rossa. «Strofina il tuo tatuaggio per me,» la prega Raul. Oltre alle polsiere d'oro, agli anelli vistosi alla mano, alle lunghe collane Cartier che le scorrono sull'ampio petto, la guapa porta un anello da piede con gioiello da un karato (regalo di Raul) sopra il disegno di un tigrotto che le risale fino alla caviglia. Dà una strofinata porta fortuna, quindi si sfila la maschera per non farsi notare al Googol Palace. Ha labbra sottili e un paio di occhi da Bambi, ammicca nella mia direzione che, per la prima volta, la vedo in volto, quindi se ne va lasciandoci un po' di privacy.

«Veniamo a noi, bionda.» Avevo coinvolto Raul nella ricerca di Minimal Jackie. Lui non ne aveva mai sentito parlare, ricordava soltanto che ai tempi in cui divideva la sua vita con Jack, l'amico di tanto in tanto spariva dalla circolazione perché "il bosco lo chiamava". Per saperne di più, Raul è andato a fargli visita al manicomio criminale in cui Minimal Jack è rinchiuso. «Fa paura solo a guardarlo.» Cerco di figurarmi la scena basandomi sulle vivide immagini evocate da Raul. Vedo un uomo prigioniero in una cella imbottita, costretto a riflettere sull'esistenza terrena e sulla condizione della carne umana in rapporto all'anima. Per qualche tempo hanno provato a mettergli la camicia da forza, ma trovava sempre il modo per sbarazzarsene. Nell'insania mentale di Minimal Jack la nudità è diventata l'assunto di partenza per le sue riflessioni psico-filosofiche, il punto base dell'essere puro, al netto di ogni sovrastruttura. I suoi deliri rifiutano ogni vestito in quanto rispecchiano la lettura utilitaristica che la società contemporanea fa del corpo: l'abbigliamento è un camuffamento che cela la verità di una persona sotto un'identità apparente. È solo quando siamo nudi che ogni differenza sparisce. I sorveglianti lo lasciano fare, è in totale isolamento e non può nuocere a nessuno. Raul lo ha incontrato così, il corpo svestito sembra avere perso ogni funzione sessuale, cedendo l'antico primato dell'identità di genere in favore dell'irriproducibile vero mistero dell'anima.

«Per Minimal Jack il corpo umano è diventato intollerabile, l'ho visto spingersi fino a rendere obsoleti i suoi limiti.» Il nudo di Minimal Jack è una statua greca, tanto perfetta da sembrare artificiale, così pura da superare la sessualità, smarrire ogni desiderio sessualizzante in chi guarda e spostare l'attenzione del visitatore dall'involucro esterno alla forza vitale imprigionata nell'anima. La coscienza di Minimal Jack ha sciolto ogni vincolo dalla materia corporea, si è scollegata dai luoghi della prigione, al centro della sua finitezza emerge soltanto l'Io, indipendente, libero, integro. Di fronte a tanta compostezza divina, Raul fa un nome. «Minimal Jackie. Chi è?»

Una semplice domanda. Minimal Jack lo guarda per la prima volta, come accorgendosi soltanto allora della presenza del suo vecchio amico. «Chi è Minimal Jackie?» Non è per Raul che ripete la domanda. Ma per qualcun altro, visibile soltanto a Jack. Non dentro la stanza, ma dentro il suo corpo. Una macchina fatta di muscoli, nervi e tessuti che Jack è riuscito a potenziare grazie alla meditazione, rendendola una struttura dalle funzionalità "aumentate". «Minimal Jackie è nel bosco.» A rispondere è una voce dentro Jack per mezzo della sua bocca.

Sulla cartella clinica di Minimal Jack, lo psichiatra ha annotato che egli è tormentato da una "memoria ossessiva". Quello che sfugge alla medicina è che non si tratta di una normale memoria. «Quando eravamo ragazzi Jack sosteneva la teoria mentalica del Similflusso,» Raul mi spiega di cosa si tratta: attraverso una pratica meditativa rigida e costante è possibile accedere alla compartecipazione interiore che accomuna tutti i mentalisti, coloro che hanno trascorso la vita a sviluppare le proprie capacità intellettive e a condividerle con i loro simili. La teoria del Similflusso sostiene che chiunque riesca a entrare in quel campo mentalico può rivivere le esperienze altrui, allo scopo ultimo di estendere la propria consapevolezza del mondo. Minimal Jack c'è infine riuscito: nella sua mente alberga una multi-memoria come una cattedrale di cui lui è il solo Quasimodo. Può pescare estratti da quel serbatoio mnemonico, appellarsi a proprio piacimento ai ricordi di altri mentalisti, ma il suo potere si è già esteso ben oltre, perché può temporaneamente prestare il proprio corpo alle persone-mnemoniche che vivono nella sua mente.

«Il bosco è Minimal Jackie.» Raul nota che il corpo di Jack viene modellato dalle pulsioni di un nuovo subconscio, una nuova personalità lo possiede. La voce è cavernosa, e a Raul sorge il sospetto che appartenga a un mentalista morto da tempo. Sì. La teoria del Similflusso prevede che se un mentalista è a rischio di vita è obbligato a condividere la propria memoria con un suo simile, così è come se non morisse mai. Pure le cellule morte di un mentalista si conservano all'interno di quel campo di forza, ed è possibile riprodurle per richiamare l'esemplare originale in una linea continua dove la morte non ha mai esercitato la sua interruzione. Il mentalista dentro Minimal Jack ricorda tutto della propria vita, a eccezione del momento in cui morì, per questo Raul decide di consultarlo. «Dove si trova il bosco?»

«Non puoi trovare il bosco, è il bosco che trova te. Il bosco siamo noi.»

I ricordi prescienti del mentalista che ha preceduto Minimal Jack vengono condivisi con lui, come non c'è da dubitare che alla morte di Minimal Jack la sua multi-memoria passerà al mentalista successivo. «Io sono il bosco. Minimal Jackie è il bosco. Il bosco è più grande di noi.» Raul prova a farsi dire di più, ma alla consapevolezza aumentata di quel mentalista non sfugge alcun dettaglio intorno a lui. Sa che c'è Baby Lynn dietro quella ricerca, e Raul non esclude che il mentalista possa aver lanciato un avvertimento a Jackie. Fiutato il pericolo, la personalità mentalica si ritira nell'oblio provocando in Minimal Jack un mal di testa lancinante.

Raul non caverà più un ragno dal buco da quel Frankenstein mnemonico, totalmente assuefatto dalla memoria ossessiva. Il rischio del Similflusso è che si finisce per dimenticare di vivere la vita propria e di preferire quella passata di altri mentalisti, o addirittura di confondere le varie vite fino a dimenticarsi della propria. Raul lascia il suo amico in una sorta di tranche mediatica, sconvolto da vuoti memoriali come se avessero impiantato nella sua mente un blocco mnemonico che ostacolasse ogni tentativo di risalire a Minimal Jackie.

Alla fine della storia, Raul torna a grattarsi animatamente la puntura aumentando il rossore sul collo.

Gli racconto perché sono qui al Googol Palace. Di tutti gli eventi organizzati da Qwerty voglio partecipare alla convention della Rampage Shield, la stessa società che ha fabbricato il mio cellulare "magico". Mostro a Raul il C24. Pensava fosse una leggenda metropolitana. Da esperto informatico, sa cosa si dice di quei cellulari. «Non fidarti!» Rispondo che in realtà quel C24 mi ha aiutato in più di un'occasione. «Nelle fiabe la natura eroica dell'eroe è definita dagli oggetti magici. L'ideale di perfezione morale è testimoniato proprio dal possesso o meno dell'oggetto magico,» dice Raul spegnendo il C24, e io penso alla spada di re Artù, «solo chi ne sarà degno potrà possederlo.» Raul riattiva il C24 ma nella "modalità ombra": una versione non hackerabile di soli codici, scritture sorgenti, opzioni numeriche, la realtà dietro la finzione. Solo un hacker come lui, come me, riesce a decifrarli, e a dare i giusti comandi. Raul ne ha sbloccato per me le potenzialità sopite. «Non è l'oggetto a creare l'eroe,» mi restituisce il cellulare, «è l'eroe a meritare l'arma.»

Tìa rientra nella suite portando con sé una sorta di radar parabolico portatile. Sulla confezione leggo "rilevatore di veleno". Non vogliono farmi preoccupare, ma non sono una stupida. Temono che Raul sia stato avvelenato come già successo al suo manager. La sospettata numero uno rimane la donna-Fujiko. La coppia è venuta al Qwerty per comprare quel rilevatore e scoprire la verità. Capisco che devo togliermi di torno. Abbraccio Raul, lo stringo forte come se fosse l'ultima volta. Abbraccio anche Tìa, pure a lei ho iniziato a volere bene. «Prima che tu te ne vada,» Raul mi porge una valigetta grigio metallizzata con combinazione numerica, «era da un po' che volevo dartela.» Accetto il regalo, voglio riservarmi a un momento propizio il piacere di scoprire cosa contiene.

Lungo il corridoio mi arrivano i versi di Creep dei Radiohead cantata dai Napoleon Records. Voglio lasciare la ventiquattrore in custodia alla reception prima di recarmi dalla Rampage Shield. Salgo in ascensore, non riesco a scollarmi di dosso un senso di incredibile tristezza. Chiamo Mercedes. Non mi chiede come sto, mi racconta del suo dirigente che è stato silurato perché truccava i test assicurativi quando avrebbe dovuto condurre indagini approfondite sulle macchine danneggiate e riconsegnate dai clienti. «Doveva comunicare l'esito di un test a un altro manager corrotto come lui. Prese una mail con il suo indirizzo. Anziché cliccare su "rispondi" per sbaglio ha fatto "rispondi a tutti": è stato lui a far sapere a ogni collega della frode... per uno stupido errore.» Mercedes avrebbe dovuto intuire che qualcosa non andava sin da quella cena insieme: il suo dirigente non era vestito bene, dimenticava i nomi di centinaia di clienti che avrebbe dovuto tenere a memoria, insomma era chiaro che il mondo delle assicurazioni non faceva più per lui perché si mostrava fin troppo... rilassato. «La tua vita è in crisi? Vuol dire che il lavoro va bene. Quando la tua vita andrà a rotoli vorrà dire che sei pronta per una promozione.»

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