ꨄ C͟a͟p̲i͟t͟o͟l͟o͟ s͟e͟i͟ ꨄ
Un'esperienza mistica di stallo tra vita e morte era una cosa strana. Charlotte se l'era aspettato, in un certo senso, ma sicuramente non in quel senso.
Premette i piedi nudi nell'acqua sotto i suoi piedi, il che emise una specie di suono sordo: plop.
In realtà, non sembrava propriamente acqua, anche se si increspava sotto di lei in ampi cerchi concentrici come avrebbe fatto l'immenso lago Michigan, se qualcuno avesse potuto camminare sulla fredda superficie.
La differenza principale: era tutto buio. Tutto scorreva intorno alla sua pelle come seta liquida e si assottigliava, fresco come una pozione viscosa. L'oscurità era infinita, eppure sembrava impossessarsi del suo corpo.
Le stesse ombre scalavano il profilo delle clavicole come se volessero profanare la pelle diafana e penetrare nelle vene azzurrine sottostanti. La consistenza era la stessa che Charlotte avrebbe immaginato fosse quella di scaglie di serpente.
Un vestito bianco leggero come una piuma le ondeggiava intorno alle ginocchia e abbracciava il rigonfiamento dei suoi seni. La stava proteggendo dalle ombre che avanzavano.
Era fresco contro la carnagione morbida e traslucida, come un tuffo nella piscina municipale di Adell in agosto. Tuttavia, Charlotte non aveva freddo. In verità, non si era mai sentita così al caldo e leggera in tutta la sua vita.
Il mare di tutti i colori del cielo si estendeva davanti a lei a perdita d'occhio. Un fenomeno di tale bellezza da far tremare le sue labbra violacee. Le ricordava vagamente le immagini che aveva cercato su Google dell'aurora boreale in Norvegia durante l'inverno.
Le luci polari apparivano in molte forme diverse, piccole macchie di luce, in archi, colonne illuminavano quello che sembrava un cielo nero. Se quello - poter finalmente guardare le stelle senza essere rimproverata - era Inferno, non voleva svegliarsi.
Charlotte sapeva che le aurore boreali erano prodotte da particelle elettriche che, arrivando dal Sole, colpivano la ionosfera terrestre. Terminato il fenomeno elettrico, l'energia prodotta dagli elettroni si trasformava in luce visibile: l'aurora boreale.
Eppure, quello che stava vedendo le sembrava magico, profondamente magico. Come se fosse un'ignorante qualsiasi - lasciando la caverna di Platone per la prima volta. Dopo tutto quel dolore, non riconosceva più il suo corpo in spoglie indolori.
Pareva essere il Giudizio Universale. I colori dell'aurora boreale erano il rosso, il verde e il blu, che mescolandosi tra loro creavano sorprendenti giochi di luce chiamati archi aurorali. Ma i semplici colori sgualciti non solamente giocavano davanti a lei.
Dicevano che alla propria quasi morte, tutta la vita ti passasse davanti. Lei vide la sua morte, non la sua vita. Cosa sarebbe accaduto se essa fosse avvenuta. In un cielo di fuoco brunito al crepuscolo calante della sanguinosa discesa. Vide il momento della sua morte inciso nelle retine: i girasoli dorati macchiati di rosso. Vide il Prima.
E, vide il Dopo. Con una chiarezza inquietante che fece accapponare violentemente la sua pelle di alabastro. Erano inquadrature veritiere, in cui i colori si piegavano a formare immagini - come nella sala buia di un cinema disincarnato.
Vide sua madre e Oliver seduti al tavolo di mogano nel silenzio della loro casa, l'una di fronte all'altro come a una riunione aziendale. Non li aveva visti interagire così vicini da molto tempo. Tuttavia, le loro figure appartenevano ancora l'una all'altra.
Era chiaro che l'impianto di riscaldamento non era acceso. Sua madre aveva la pelle rosso scuro sul naso e sulle guance, per il resto era pallida come un fantasma e tremava nella camicia da notte di lino. Non era mai sembrata più fragile, con le sue spalle sottili.
C'erano aloni scuri sotto gli occhi azzurri. Lacrime: le caddero sulle braccia nude, incrociate sul tavolo. La bocca magenta era spalancata come in apnea, lottando per riprendere fiato. Il dolore era inciso in ogni curva del viso duro di Norah.
Sembrava una bambina innocente. Tale crudezza sbocciò nelle iridi color uovo di pettirosso, era mozzafiato. Assomigliava così tanto a Charlotte da farla star male. Strisce nere sotto gli occhi, capelli disordinati: quella non era la signora Roberts.
Quella era Norah Lewis. La giornalista sempre indaffarata, genuinamente coinvolta nei suoi casi, con quei sorrisi bianchi da mozzare il fiato e quei riccioli biondo cenere in disordine nello stravagante caschetto anni Cinquanta. Soffriva e piangeva.
Oliver - di fronte a lei - sembrava appena tornato, una valigetta era stata gettata su un bordo appartato del tavolo e le sue dita erano intrecciate insieme in una presa sbiancata. Ovunque la madre di Charlotte fosse morbida, lui era tagliente, come unghie strusciate in uno schiaffo.
Gli occhi erano di un liscio grigio fumo, la bocca piena e ammaliante. La mascella così stretta e affilata come un pugnale - le guance contratte sotto l'alone ben curato della barba color fieno. Brevi ciocche bionde pettinate appena dietro le orecchie.
Assomigliava a un Dio vendicatore. Ares disceso sulla terra una volta iniziata la guerra, per sferrare il colpo di grazia ai suoi nemici. Le spalle erano dritte e la schiena tesa. Tuttavia, acqua salata scorreva sulle protuberanze acute degli zigomi affilati.
L'aria era muta e il loro spirito strideva. «Li distruggerò», sibilò l'uomo, guardando le proprie mani callose premere contro il legno – le stesse mani che avevano stretto tra le braccia la sua Charlotte, mai abbastanza. «Chiunque sia stato, lo distruggerò».
Come se questo sigillasse un accordo silenzioso su carta bollata, la mano di Oliver si allungò e incontrò quella di Norah, a metà del tavolo. Le loro dita si intrecciarono come se ricordassero quanto avevano amato farlo in passato.
La luce del lampadario illuminava la meravigliosa presa, proiettando arcaici scarabocchi sulla pelle. Norah alzò lo sguardo, fissando i loro occhi in una feroce sfida come un pugno ben piazzato. «Io e te - li distruggiamo».
Poi, il suono del campanello. Una cameriera - Gemima - sbirciò frenetica alla porta, non osando guardare gli ospiti addolorati, volse lo sguardo verso il pavimento quando disse: «Signorina. Sofiya è qui, voleva sapere come stava lei, signore, e-».
Le parole successive furono strane. Charlotte dubitò per un secondo della veridicità delle proiezioni diluite. Norah e Oliver dissero in coro: «Dille di andare a farsi fottere», freddamente. Gemima annuì, non troppo sconcertata - li conosceva da tempo - e si ritirò.
Com'era ironico. Norah aveva costretto Charlotte a passare la vita alla ricerca di un qualcosa abbastanza eclatante e meraviglioso da fare, qualcosa che potesse farle riconquistare suo padre. Si scopriva, ora, ciò che era sempre stato necessario - morire.
Forse lo scopo di quella strana aurora boreale dei ricordi era di farle rimpiangere di essere in punto di morte - forse qualche entità superiore pensava che fosse troppo estranea ai suoi interessi terreni e voleva farla soffrire. La cosa successiva che vide raggiunse l'obbiettivo, in ampia parte.
Riconobbe la stanza di Henry non appena si librò come immagine incastrata nel cielo. Non tutti avevano un poster di Magnus Carlsen - grande giocatore di scacchi - appeso al muro.
Henry era seduto sul bordo del letto. Sembrava che si fosse appena svegliato. I suoi capelli scuri erano aggrovigliati con l'oscurità nella stanza maniacalmente ordinata. La cosa più strana era suo padre - seduto accanto a lui, strofinandogli una mano sulla schiena.
Lynn Anderson non assomigliava affatto a suo figlio - che era una copia carbone di sua madre -, i suoi capelli biondi erano l'unica fiamma bianca nella stanza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per suo figlio, ma non c'era quasi mai fisicamente.
Henry si teneva la testa tra le mani: anche nell'oscurità era chiaro che la sua schiena tremava, come se stesse singhiozzando. «Mi dispiace Henry, ma è passato un mese», stava dicendo Lynn, «forse dovresti parlare con qualcuno di questi incubi, tornare a scuola e...».
Henry si limitò a scuotere forte la testa, respirando affannosamente. «Posso farcela da solo» ansimò, come un animale ferito. «È solo che- ogni volta che vedo qualcosa che mi ricorda lei - è come se una dolina mi squarciasse il petto».
La voce di suo padre si spense, premette la mano callosa sulla nuca di suo figlio. «So cosa vuoi dire», disse, il dolore chiaro nella sua voce. «Anche io ero così, quando tua madre se n'è andata- scusa, non ho mai-» esitò, «non pensavo che tu l'amassi così».
Harry soffocò una risata acquosa. «Certo che sì» sbuffò, asciugandosi gli occhi con la manica della maglietta, «Come potrei non amare così Charlotte, la bambina che mi prendeva a calci negli stinchi quando piangevo per mia madre- che mi chiamava piagnucolone da bambino...» rise.
Poi, Henry raddrizzò la schiena e incontrò gli occhi limpidi del padre che lo fissavano pieni di un dolore pari al suo nel buio: «Eppure, la stessa bambina che mi difendeva dai prepotenti e poi subito mi avvolgeva tra le sue braccia - ripeteva che sarebbe andato tutto bene finché non ci credevo anch'io?».
La proiezione svanì. Charlotte singhiozzò, mettendosi una mano sulla bocca, notando a malapena che la sua pelle era ancora più bianca e luminosa del solito. Le lacrime le macchiarono le ciglia - altre gocce emisero piccoli tunk, cadendo nel liquido freddo e nero sotto i suoi piedi.
Si domandò distrattamente se quell'umido ruscello su cui camminava non fosse un catino concavo contenente le lacrime leggere di tutti coloro che vi erano passati prima di lei. Henry era la persona più forte che Charlotte conoscesse, la più fredda.
Vedere così il suo fidanzato - o meglio, il suo amico - il bambino che era cresciuto con lei, schermandosi il cuore con i suoi difetti e la sua ostentata arroganza, era una tortura. Il signor Anderson aveva detto che era passato un mese, quindi le immagini non erano in ordine cronologico.
Come sulle montagne russe, la proiezione successiva fece diventare pindarico il suo tenue stomaco e il suo umore. Riconobbe la massa calcarea blu - svolazzante nel cielo nero - della palestra con un'istantanea fitta di malinconia nella gabbia toracica.
Gli zaini erano accartocciati in un angolo. Le ragazze erano sparse per la palestra come al solito. Nessuna di loro, per quello che poteva vedere, indossava l'uniforme standard da allenamento e i capelli cadevano sciolti lungo le spalle curve.
Charlotte aprì la bocca come per rimproverarle dall'oltretomba. Poi, ricordò - stava per morire, non le avrebbe mai più rimproverate. Si ritrovò a boccheggiare per alcuni balbettii senza senso.
Poi, colse l'espressione sui loro volti. Rabbia e stupore si rincorrevano mentre si rannicchiavano in un angolo umido della palestra. Il motivo di tanta eccitazione era scioccante e a dir poco assurdo.
Lim stava trascinando il corpo di una ragazza, per i capelli. Spinse la testa di Amy, davanti al suo viso, in modo che i loro occhi fossero allo stesso livello. Mormorii indignati circolarono tra le cheerleader allarmate contro Amy.
Era stano perché tutte amavano Amy. Era la vice di Charlotte, un'altra ragazza dell'ultimo anno. Piuttosto, la mamma chioccia del gruppo. Spesso rimproverava a Charlotte il fatto di esagerare con le punizioni o le strillate.
«Ripetilo se hai il coraggio, bastarda!» Lim urlò in faccia a Amy – premendole le dita sulla nuca, fece toccare i loro nasi. «Ripeti, sul serio, così ho una scusa per prenderti a calci in culo». Gli occhi color caramello brillavano di scintille.
La bocca di Harper era spalancata mentre fissava con orrore. Sembrava essersi ripresa bene dall'incidente. Era una fortuna, suo padre non avrebbe sopportato di perdere anche sua figlia. «Lim, cosa...» borbottò, confusa.
Amy piagnucolò dolorosamente e lottò, cercando di liberare i suoi capelli biondi dalla morsa del piccolo folletto furioso. Lim indossava l'uniforme giusta e apparentemente si era fatta il culo per stringere la sua folle zazzera di riccioli in una coda di cavallo ordinata.
«Vivy», gemette Amy, lanciando un'occhiata a una delle ragazze meno familiari a Charlotte, alle spalle di Lim. «È pazza , Vivy» squittì «dammi una mano».
Vivienne - morbidi capelli scuri e occhi perlati - si limitò a voltare la testa dall'altra parte, sporgendo il mento in segno di indignazione. «Prima ripeti quello che hai detto» sbuffò incredula, «fai sentire gli altri - poi vedremo se ti vogliono aiutare».
Gli occhi castani di Amy si indurirono, fissando intensamente quelli di Lim. Sporse ostinatamente la bocca in avanti, «Ho detto che il vantaggio è che — essendo Char morta — non dovete farvi il culo come prima, perché, sai, sono una grande leader».
L'aria incandescente esplose in urla di indignazione come un ruggito. Lim strinse forte la mano tra i capelli di Amy e con un'espressione quasi psicotica di soddisfazione sadica, ascoltò la ragazza urlare e lottare mentre i ciuffi rimanevano attaccati alle sue dita.
Amy indietreggiò, con le lacrime agli occhi. Premette la mano su un punto della testa che era calvo, come un pulcino spennato, ansimante. Guardò Lim con il tradimento negli occhi. «È vero!», gracchiò «E mi ti stai opponendo fin dall'inizio solo perché sei la sua cagna».
Lim si soffiò via i capelli strappati dalle dita, le sopracciglia che si agitavano ferocemente. «Ora sono la capo cheerleader e voi ragazze avete molta più libertà», continuò Amy, sull'orlo delle lacrime. «Dovrei piacervi - e dovreste ringraziarmi».
Poi fece qualche passo indietro, ritrovandosi con la schiena contro la parete da arrampicata. Sembrava molto probabile che Lim mirasse a continuare il pestaggio.
Amy deglutì. Gli occhi acuti. «Non dovresti prendermi alla leggera, secondo anno» sputò minacciosa, «Come Maddy ha fatto fuori dal gioco Charlotte - l'ape regina -, posso far fuori anche te - insetto.»
Gli occhi di Lim si spalancarono bruscamente, ma non come se fosse troppo sorpresa. Se lo aspettava, forse. Era stata l'unica ad essersi accorta dell'assenza di Maddy, subito dopo l'incidente e del suo misterioso ritorno senza Charlotte, poco prima dell'arrivo dell'ambulanza.
Gli occhi color caramello si riempirono di lacrime, la rabbia improvvisamente sgonfiata. Deglutì, abbracciandosi lo stomaco. «Sporca-», gemette, in un tono che lasciava intendere che stesse per vomitare – come se tutti i suoi peggiori timori fossero appena stati confermati.
Gli occhi di Amy si spalancarono per lo shock. Fece per aprire la bocca, ma Harper la interruppe, tirando fuori dalla tasca il cellulare rosa. «Chiamo la polizia» informò freddamente gli altri. «Dopo due settimane finalmente ha parlato».
Keen - aveva una piccola cicatrice d'argento sulla tempia, che risaltava con forza contro la sua pelle scura, - annuì scioccata, appoggiandosi alla sua spalla per sostenersi mentre le dita di Harper tremavano sui tasti.
Charlotte espirò per lo stupore, la scena cambiò davanti ai suoi occhi. Se quello fosse stato un televisore, l'avrebbe preso a pugni. Aveva bisogno di sapere come sarebbe andata a finire, se anche Bob e il signor Klein stavano bene.
Per la prima volta - nel cielo - fu creato un paesaggio che lei non conosceva personalmente, ma che in linea di principio comprendeva. Era un cimitero. Le sue cheerleader erano tutte raccolte attorno a una particolare lapide: color alabastro, ricoperta di brina.
La neve si era attaccata al terreno, quindi la data era probabilmente febbraio, il mese più freddo di Adell. O non erano ad Adell. In effetti, Charlotte aveva visto il cimitero di Adell e non era altrettanto lussuoso ed elegante.
Rose rosse e bianche erano intrecciate in boccioli congelati tra le lapidi. Alcune viti si erano allungate e formavano un reticolo intrecciato alla base della lapide di alabastro, che era una delle poche così pallide.
Accanto alle sue compagne di squadra, Bob stringeva il suo cappello da camionista tra le dita grinzose - dopo averlo rispettosamente rimosso -, rivelando una lucida testa calva. Grosse lacrime scendevano dai suoi occhi limpidi, finendo nella folta barba.
Lim uscì dalla fila ordinata delle ragazze, sistemò una rosa color malva tra i rovi e Charlotte lo trovò stranamente poetico e commovente. La studentessa del secondo anno si prese un momento, inspirando con gli occhi chiusi.
Poi abbassò lo sguardo per fissare la lapide, gli altri dietro di lei emisero mormorii funebri e incoraggianti. Gli uccelli cinguettavano. «Ciao, Charlotte - uh» si dimenò sul posto con gli occhi acquosi, torcendo la maglietta tra le dita.
Alla fine, sembrò prendere una decisione. «Andiamo ai nazionali, sì!» cinguettò, con falso entusiasmo, agitando debolmente il pugno in aria. «Immagino che sarebbe la prima cosa che vorresti sapere, e...». Lanciò un'occhiata incerta alle ragazze dietro di lei.
Loro annuirono e lei continuò. «Ho preso a calci in culo Amy, facendole rivelare cose su Madeleine, le due stronze erano d'accordo» sbottò lei, tirando indietro con orgoglio le spalle. Madeline era Maddy. «E sono diventata la più giovane capo cheerleader nella storia dei Rams alla Random Lake High School – beh, dopo di te».
Le cheerleader emisero un suono che era da qualche parte tra una risata svogliata e un piagnucolio. «Non volevo accettare» disse improvvisamente Lim, facendo crollare il cuore di Charlotte: il suo folletto sembrava così fragile e grigio.
Lim agitò il braccio in un gesto avvolgente. «È passato praticamente un anno dal tuo funerale e continuo a pensare che dovresti avere diciotto anni - non sappiamo neanche cosa sia davvero successo, Madeleine ti ha attirato tra i girasoli, aveva una pistola, ma poi lei è morta, vorrei chiedertelo», si passò le mani tra i folti capelli, disperata. «Ma tu non ci sei - non ci sei affatto».
Inspirò di nuovo, cercando di calmarsi - espirò nell'aria uno sbuffo di nuvola bianca e fredda. «Le ragazze mi hanno convinto a venire qui a parlare con te, immagino che se non mi mandi un fulmine sul posto vuol dire che ho la tua benedizione-» ridacchiò, acquosa.
«Per fortuna ci ha accompagnato Bob» aggiunse, lanciando un'occhiata di traverso all'uomo, «giuro, non ho idea del perché tua madre abbia insistito tanto sul sep-, voglio dire, farti stare qui, a Londra», si strinse nelle spalle.
Ormai Charlotte era praticamente accovacciata in posizione fetale - un punto luminoso in mezzo al buio - contorcendosi silenziosamente per il dolore, ma cercando di non perdere una parola. Sua madre l'aveva aiutata a fuggire da Adell, finalmente.
«Tuttavia, Bob ci ha accompagnato solo da adulto responsabile», schernì Lim, «Dopo l'incidente si è ritirato e...» scrollò nervosamente le spalle.
«Non c'è un autobus diretto dalla stazione del Wisconsin a Londra», sbottò, senza motivo. «così, siamo partiti dalla stazione degli autobus di Milwaukee e siamo arrivati a Richmond a nord di Horton NB ed è stato tutto un casino», rise nervosamente.
Poi, all'improvviso, si fermò e alzò lo sguardo: uno strano scintillio colpevole nei suoi occhi iniettati di sangue. «Per favore, non arrabbiarti con Henry per non essere venuto al funerale», implorò. «E non viene mai qui, fa lo stronzo da qualche parte, conosci il suo modo di affrontare il dolore».
Charlotte sapeva infatti che Henry affrontava il dolore così, reinventandosi e ricostruendosi ogni volta più stronzo di prima. Non sapeva come Lim lo sapesse, ma era felice che i due si fossero apparentemente incontrati.
«Sig. Anderson però si sta occupando del caso contro Madeleine e Amy», mormorò speranzosa, «Anche prima del funerale era sicuro che avrebbero dato almeno quindici anni a Amy, poi con quello che è successo - avrebbero dovuto commuoversi».
«Il tuo funerale, a proposito-», Lim si strofinò nervosamente il braccio sopra il cappotto, «mi dispiace per il disordine, io- non volevo piangere così tanto e nemmeno aggrapparmi alla tua bara, è un miracolo che tuo padre non mi abbia cacciato, è nervoso in questi giorni e io—».
Pestò gli stivali sulla neve come una bambina capricciosa, cercando di trattenere le lacrime, «Continuavo a pensare di essere stata l'ultima ad abbracciarti e tu mi avevi promesso di baciarmi e noi scherzavamo e ridevamo - e fa male, da morire».
Seppellì la testa tra le mani e gli occhi nel gomito, singhiozzando all'improvviso. Harper si fece avanti e le accarezzò la spalla: teneva qualcosa tra le braccia. «Va bene, Lim», mormorò docilmente, «posso occuparmene io».
Lim non rispose, ma si voltò di nuovo verso gli altri, lasciandosi riscaldare mentre veniva assorbita dal loro abbraccio di gruppo.
Si scoprì che la cosa che Harper aveva in mano era un vaso di girasoli. «Ti ho visto disegnare» disse, incerta «pensavo ti potessero piacere, nonostante tutto», e li depose alla base della tomba con un sorriso mesto.
I suoi occhi verde erba non guardavano la tomba, come quelli di Lim: non tutti erano così coraggiosi. Fissò in lontananza i rami bitorzoluti di un sempreverde. «Lim diceva la verità», disse piano, «Mr. Roberts è fuori di testa dalla furia».
Scostò le ciocche rosse dalla fronte. «Ha varato l'altro giorno una legge che vieta la coltivazione dei girasoli nei confini di Adell», azzardò una risatina poco convinta, «ma a lui e tua madre ci pensiamo noi».
Una lacrima le scese lungo la guancia, «Ultimamente il signor Roberts parla molto con mia madre e mio padre - che è in via di guarigione, sai?» si portò una mano al petto: «La gente mi tratta meglio ora che mio padre è tornato il prediletto del sindaco».
Lei sbuffò ironicamente, un sorriso amaro sul viso. «Questa è la gente di Adell, ma tu non sei così», gli occhi verdi scivolavano appannati all'orizzonte, «non so come».
Singhiozzò: «Sei sempre sembrata una stronza fredda che pensa solo al successo, come tutti qui», scosse violentemente la testa, «Ma ricorderò sempre il giorno in cui sono venuta da te perché volevo lasciare la squadra-» sorrise malinconicamente, tra le lacrime.
«Volevi sapere perché e ti ho detto che pensavo che lo scandalo di mio padre potesse portare cattiva pubblicità alle Rams», si strinse nel cappotto, le labbra screpolate tremarono, «non ti ho mai visto più arrabbiata di così».
Lei rise: «Eri già convinta che io profumassi di cannella, quindi hai detto qualcosa del tipo – 'Allora? Tuo padre ruba la cannella e tu cosa... ci fai il bagno? Sì, siete pazzi criminali!'» aggrottò le sopracciglia, «e poi 'adesso muovi il culo e allenati, Cinnamon'».
Felicia, nella fila orizzontale, rise apertamente: «Sì, me lo ricordo» aggiunse docilmente, «E probabilmente sarai contenta di non vedere più il mio pollo rachitico, ma vorrei che tornassi, anche solo per rompermi le braccia».
Scoppiarono tutte in risate e singhiozzi sconnessi. Loro - quindici toste cheerleader della nazionale di Adell - piangevano per lei, anche se tutti i loro problemi si erano risolti con la sua morte - come se non fosse dovuta esistere. Era felice per loro.
Charlotte distolse lo sguardo e lo fissò sulla lapide. L'iscrizione incisa sul materiale traslucido luccicava alla luce del sole. La parte in nero diceva:
Charlotte Roberts
21 agosto 2005 - 5 dicembre 2023.
Sotto, incisa nell'alabastro stesso, c'era una dedica.
"Amata figlia e amica"
"Leader tra le stelle".
Una voce attutita tuonò nel vuoto nero. Mani giganti - mani di Dio? - discesero dal cielo, piombando sulla sua anima e riscaldandola. «Dai, Charlotte», disse la voce, avvertiva una pressione sul suo petto. «Non puoi andare, non possono ancora perderti» e poi «ti stanno tutti aspettando».
esperienza extracorporale di pre-morte per la nostra Charlotte; quando si dice che la vita ti passa davanti agli occhi. In questo caso sia presente che futura 👀.
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