ꨄ C͟a͟p̲i͟t͟o͟l͟o͟ n͟o͟v͟e͟ ꨄ

Le luci dello strettissimo corridoio della centrale di polizia erano fredde come correnti d'aria sulla pelle pallida e ancora leggermente ammaccata. Le percepiva, quasi fossero un peso effettivo sulla sua coscienza.

Non sapeva perché, in fondo lei non aveva fatto niente. Eccetto non parlare del misterioso giubbotto sulla scena del crimine. Né correggere la polizia e rivelare loro che quello che stavano cercando non era un orso, ma un grosso lupo, bianco di luna.

Charlotte veleggiava sui tacchi delle décolleté bianche. Il senso di colpa le bruciava tra i denti, ma non era il tipo che si faceva intimorire da qualcosa di tanto effimero. La colpa.

Giusto e sbagliato erano fronzoli ad Adell. Aveva deciso molto tempo fa di abbracciare anche il marcio di quella considerazione. Il rumore dei tacchi sulle mattonelle era scattoso, quasi carico di gelida furia.

Il pavimento cerato era liscio e scintillante sotto la luce del lucernario. Simile a riverberi di ghiaccio nel sole. Doveva appoggiarsi alle pareti - di quell'asettico bianco ospedaliero, intervallate da scorci d'ocra - per riuscire a tenersi in piedi, quando ufficiali indaffarati le sbattevano contro le spalle.

L'odore sapeva di carta da documenti - il che poteva sembrare simile, ma era totalmente diverso da quello che permeava pagine di libri nuovi e giornali, più asfissiante e agrodolce. L'avanzata di Charlotte era stata placcata all'imboccatura del corridoio che dava sull'ingresso.

Bob si stagliava davanti a lei. La folta barba bianca pareva arruffata come la coda di uno scoiattolo selvatico e la sua lucida testa calva mancava del solito cappello. Gli eccessivi rigonfiamenti dei muscoli da camionista erano contratti sotto la camicia. La bianca stoffa sottile sul punto di strapparsi.

L'omone era palesemente a disagio, in tenuta elegante - le maniche sudate erano malamente arrotolate attorno agli avambracci. Non come Charlotte, - che sembrava splendere d'oro e d'avorio nel suo Tailleur bianco come le ali di una colomba.

Erano passati tre giorni dall'incidente e sua madre non la lasciava ancora uscire di casa, se non per andare alla centrale per compilare quella stupida serie di deposizioni, quindi le piaceva presentarsi con stile.

Amava vedere che nulla era cambiato, gli sguardi formicolavano ancora su di lei. Certo, alcuni strisciavano di serpentina curiosità e le domande dei detective erano frustate di lingue su ferite aperte, ma c'era ancora quel sottotono di immancabile attrazione.

I suoi capelli, - nel loro lucente e luminoso biondo cenere -, erano modulati in morbide onde, raccolte insieme dietro la nuca da un fermaglio color alabastro. Sul suo viso splendente baluginavano piccole tumefazioni violacee sotto la pelle troppo chiara, appena visibili.

Non le aveva coperte, con nessun tipo di trucco - nonostante le insistenze di Norah. Se la gente l'avesse vista nascondere gli effetti di quell'incubo nero, avrebbe pensato che per lei fosse abbastanza importante da celarlo. Da ferirla. Non era così.

Era meglio così. Metteva burro-cacao al cocco sulle labbra per idratarle, ma non copriva il piccolo squarcio all'angolo della bocca con il rossetto. Illuminava la pelle e alleviava i rossori con creme e antinfiammatori, senza creare patine di fondotinta cedevoli.

«Miss,» proseguì Bob, cadenzato - nella sua direzione. Accompagnando alla voce un gesto della mano verso la fronte, senza trovare il cappello, le dita svolazzarono goffamente sulla cute calva. «Forse dovremmo davvero dire qualcosa a proposito di-».

Charlotte scosse frettolosamente la testa, sistemando freddamente il colletto dello scollo a v del suo blazer bianco. Con un'occhiata veloce squadrò il corridoio sfollato attorno a loro. Nessuno in vista. Emise uno schiocco della lingua contro il palato. «Assolutamente no», sentenziò. «Oliver intende lavorarci da solo».

Bob non sembrò molto rassicurato. Charlotte lo capiva, neppure lei lo sarebbe stata, in reazione a una tale affermazione. «Crede sia saggio lasciare che il signor Roberts se ne occupi?», chiese in un sussurro.

Chiaramente sapeva di star giocando con il fuoco. Metteva inquietudine vedere lo spauracchio sopito rotolarsi nei suoi occhi scuri, - il terrore lampeggiare in quell'uomo di calli, durezza e muscoli robusti.

«Saggio?», Charlotte rise seccamente, in una tonalità ironica e vagamente costretta. «Affatto». Incrociò le braccia sul seno. «Non esiste niente di peggio», scosse la testa, «Ma è l'unica cosa che possiamo fare - che puoi fare».

Se lei poteva, limitatamente, rischiare di opporsi a suo padre - consapevole che lui non le avrebbe fatto del male -, Bob decisamente non poteva permettersi una tale manovra rischiosa. Era sufficiente guardarli, per stabilire le differenze.

Lui - grosso, alto e mastodontico. Eppure, impotente. Lei, sottile come lo stelo di un giunco affusolato, la pelle pallida come distese di neve, le ciglia fluttuanti come spighe di grano - un angelo nella sua bianca tenuta, con il mare negli occhi e la luce della stanza sulle spalle. Forte.

Chiunque altro avrebbe pensato che lei stesse sputando veleno e minacce, visto il mordente in quelle parole. Bob, che la scarrozzava in giro da quattro anni, conosceva Charlotte abbastanza bene da comprendere che la ragazzina cercava di proteggerlo.

Lei scrollò le spalle. I suoi sorrisi erano innocenti e scintillanti come fiocchi di neve nel sole d'agosto di Adell. «Cercherò di limitare-», gli sussurrò in punta di labbra, neanche fosse un imprecazione sulla maliarda bocca rosa. «I danni».

«Io e te abbiamo visto quel tridente in campo bianco, sul lato del camion», disse Bob, e Charlotte sibilò - schiacciando le labbra in una finta risata, che sopprimesse la sua osservazione. «Piccola Charlotte, sappiamo entrambi che c'è di più-».

Charlotte fu tentata di sbattersi una mano sulla fronte più volte, proprio in quel momento. Si trattenne solamente per buona educazione e perché frenata dal pensiero della fitta che sarebbe arrivata. C'era ancora un piccolo taglio sulla tempia, sotto un ciuffo biondo, volutamente sfuggito alla sua stretta acconciatura.

C'era semplicemente qualcosa che certe persone sembravano non comprendere, a proposito del fingere di non sapere, del fatto che anche i muri avevano le orecchie. Le stavano tutti facendo venire un gran mal di testa, con quei loro di più.

Sì, c'era di più - in quella storia. Molto più di quanto chiunque, eccetto lei, sapesse. Iniziando dalla strana accoppiata incidente contro il camion di un'azienda immobiliare che non sarebbe dovuta esistere, non più, e il suo tentato omicidio.

Oppure, il fatto che per apparente casualità, in un gruppo di diciassette persone coinvolte, nessuna di loro avesse rimesso la vita nell'incidente. Eppure, avrebbe voluto che i sospettosi chiudessero gli occhi e la lasciassero in pace.

«Bob - non sono piccola», disse Charlotte, con un sorriso che di lieto aveva poco. Qualcosa di tremulo e triste era espresso nella curva delle sue labbra. «Se quel camion appartiene all'azienda a cui pensiamo, sai dei trascorsi di Oliver».

«Inizio a pensare di non saperne poi molto», venne la sagace e burbera risposta di Bob. I loro sussurri si stavano facendo più scattanti e frenetici. «Ma veramente piccola, se sai qualcosa di pericoloso dovresti parlarne con la polizia, tuo padre-».

«Mio padre è il pericolo», tagliò corto Charlotte. Pareva che Bob fosse addirittura passato a darle del tu. «Per tutti noi in maniera diversa - ma ancora di più se non ottiene quello che vuole», mantenne il sorriso, a discapito di occhi esterni.

In quel momento, una voce alle spalle di Charlotte li interruppe. Un ombroso e poco cordiale ufficiale di polizia - grossi baffoni scuri e l'aria accigliata - si era affacciato sul corridoio dalla porta della sala degli interrogatori. «Mr. Ailor» annunciò.

Si stava sventolando un fascicolo sopra la testa, con fare piuttosto annoiato. Molto probabilmente aveva già ricevuto almeno dieci deposizioni, l'una simile all'altra. Erano state scaglionate, proprio perché i testimoni non si incontrassero.

Charlotte represse un sussulto. Non si voltò. L'ultima cosa che voleva era essere riconosciuta e vista parlare con l'undicesimo testimone prima che quello entrasse a depositare la sua testimonianza. Coercizione.

Che poi, era esattamente quello che stava facendo. Inclinò leggermente il capo in direzione di Bob in un morbido cenno di riconoscimento e scivolò via. Prima che chiunque potesse fermarla. Anche se l'uomo sembrava averne tutta la volontà.

Lei e Bob proseguirono nelle due esatte direzioni opposte. Lei riassaporando il ticchettio dei suoi tacchi mentre usciva dalla bocca di quell'Inferno anche detto corridoio, lui che si dirigeva dal lato opposto verso il patibolo, o sala interrogatori.

C'erano un paio di sediolette bianche sparse contro i muri color fumo nell'ingresso - antiquato stile da film poliziesco in bianco e nero. Una donna con strati di capelli sporchi e unghie troppo lunghe stava picchiettando nervosamente le dita sul bracciolo di stoffa sfilacciata.

Un uomo in giacca e cravatta leggeva il giornale, seduto con le gambe incrociate. Sorseggiava un energy drink. Neanche stesse prendendo il cappuccino nel baretto di fiducia sotto casa. Le pareti proiettavano colori spenti e grigiastri sulla pelle.

Per la prima volta dopo un po' di tempo, Charlotte poté rilassarsi. Allentare la tensione nelle spalle sottili. Nessuno la stava guardando. Soprattuto, non Norah - con quella preoccupazione malcelata incastrata negli occhi incredibilmente azzurri -, a fissarla come il secondino alle porte di una fredda prigione.

Aveva già rilasciato la sua deposizione, più volte. Tra cui anche quella mattina stessa. Tuttavia, decise che prendersi un momento per se stessa - per pensare, riflettere, assimilare - non sarebbe stato affatto male, dopo il caos di quei giorni.

Lisciò le pieghe nel pregiato tessuto dei pantaloni bianchi, prendendo posto a tre sedie di distanza dalla sconosciuta visibilmente nervosa. Infilò discretamente due dita nel blazer, e nella scollatura del top. Sorrise, passando nuovamente in rassegna i dintorni.

Accertatasi dell'assenza di occhi indiscreti, tirò fuori dal reggiseno il biglietto da visita che l'aveva tormentata negli ultimi giorni - da quando lo aveva rinvenuto nella tasca del misterioso cappotto scuro - e se lo rigirò in mano. Osservando fronte e retro per la decima volta.

I caratteri scelti erano puliti. Un pugno nero sulla carta lucida. Times New Roman, vecchio come il mondo. Sul retro si stagliavano delle lettere corvine e maiuscole, in grassetto: ALBA. Dall'altro lato, c'era un indirizzo preciso. Conduceva appena cinque minuti fuori città.

N535 State Highway 57, Random Lake, WI 53075-1333. Sotto di esso, in un carattere lievemente più corsivo e obliquo - quasi simile a uno scarabocchio a mano -, svettava una strana frase. "Ovunque dall'alba dei tempi". Non era certa di cosa significasse.

Eppure, l'indirizzo non le diceva niente. Aveva anche chiesto a sua madre se avesse mai sentito parlare di un certo Hotel Alba. Prevedibilmente, Norah l'aveva guardata come se avesse imprecato. «L'Hotel più vicino è a due ore di viaggio», aveva scandito, saccente e piccata.

Era vero, Charlotte lo sapeva bene. I turisti erano non troppo sottilmente disprezzati, nell'abbraccio elitario di Adell. Se non si parlava di estorcere loro denaro. Hotel vicini non ce ne erano, non ce ne sarebbero mai stati.

Se avesse potuto, sarebbe già andata a controllare - ma non aveva, appunto, avuto neppure un momento di libertà dall'incidente. Non vedeva perché non cogliere la palla al balzo, ora. Il cellulare vibrò, nella tasca interna del blazer, contro la sua costola.

Non si impegnò a tirarlo fuori, doveva essere il tassista che l'avvisava di essere arrivato. Si spense in fretta. Infatti, vide la macchina appena uscì nella pioggerella delicata, abbracciata dal profumo asfissiante dell'asfalto bagnato e la fitta del freddo.

Protese la mano in un cenno, segnalando di non aver bisogno che qualcuno le aprisse la portiera. Si gettò nei sedili posteriori. Il giubbotto era ancora lì, appallottolato come lo aveva lasciato. Un pugno in un occhio, contro la tappezzeria nera e profumata del veicolo.

Se lo appoggiò sulle gambe mentre salutava Ren, il loro autista. Vide lo scatto sorridente dei denti un po' sproporzionati dell'uomo, nello specchietto retrovisore. Lo colse attorcigliare con i polpastrelli qualche baffetto spelacchiato all'angolo della bocca. «Qualcosa di nuovo in reparto memoria, Miss?».

C'era un nonsoche dell'intrigo, rimboccato sotto il coperchio scuro di quegli occhi che bucavano il vetro sottile. Charlotte decise che era troppo interessato. E lei era cresciuta venendo scarrozzata in giro da quell'autista. Ren la vedeva più spesso di Oliver. Cazzo.

Forse stava diventando paranoica. In ogni caso, Charlotte arricciò le dita nella pelliccia nera del giacchetto-involtino sulle sue gambe e lasciò cadere la testa contro il sedile. Chiuse gli occhi e respirò profondamente. «No», soffocò contro il palato.

L'auto fece le fusa, le chiavi scattarono e il rumore costante del motore la cullò. Ren fece inversione, torcendo il gomito per uscire dall'ospedale. Ingranò la marcia e Charlotte raddrizzò la schiena, come se fosse stata fulminata.

«Quasi dimenticavo, Ren» aggiunse, mordicchiandosi il labbro inferiore leggermente tumefatto. Alzò gli occhi, inondando lo specchietto retrovisore dell'intensità azzurra nel suo sguardo, acceso come fuoco fatuo. «Devo incontrare Lim per un caffè».

Falso, fortunatamente. Lim e il caffè erano due entità fermentate che sarebbe stato meglio non associare mai. Dare caffè o zucchero a quella ragazza significava condannare il mondo a una distruzione prematura. «N535 State Highway 57».

Finse di non notare il modo in cui Ren fece scivolare le dita spesse e callose sul volante. «Random Lake?», chiese con apparente sorpresa. «Perché andare fin laggiù?». I suoi occhi saltarono sulla strada scintillante di brina, nuvolette bianche tra le labbra.

Svoltò comunque a destra - e alcuni rami di salice piangente che sporgevano come dita o aculei di porcospino, straripando dai lati della strada, colpirono il tettuccio della macchina.

Charlotte dovette stringere le mani in grembo fino a far sbiancare le nocche screpolate, per non sussultare. Ah, le sue mani - erano ridotte malaccio.

«Il fidanzato di Lim abita da quelle parti,» si inumidì le labbra con la lingua - accogliendo il pizzicore del taglio all'angolo della bocca. «Abbiamo organizzato una cosa dell'ultimo secondo, quasi temo voglia presentarmi qualcuno».

Si aggrappò al sedile davanti, tirando la cintura e stringendo il giubbotto misterioso al petto, per avvicinarsi all'orecchio di Ren. Come se fosse ancora una bambina innocente con i capelli biondo cenere di un angelo prima della caduta e gli occhi sorridenti e azzurri.

Come se ancora raccontasse i suoi segreti al mirabolante autista che conosceva ogni singola catapecchia nella vastità di Adell. Falso, ancora - la sua mente cinguettò, in coro con qualche coraggioso stormo infreddolito, tra i filari gli alberi secchi e cadenti ai lati della strada, oltre il guardrail.

Lim non aveva un fidanzato. Era il fidanzato di Rienna - il giocatore di Football -, a vivere a Random Lake, per questo la ragazza era stata tanto felice di andare alla partita, prima dell'incidente. Una cosa da cheerleader di cui parlare con lui.

In ogni caso, Charlotte non doveva incontrare né Rienna, né Lim, né il fidanzato di nessuno. Era peggio di così. Stava inseguendo il fantasma di un Hotel che nessuno conosceva, nella nebbia di Adell. Per colpa di un biglietto da visita nella tasca di un giubbotto trovato su di lei mezza morta, in una scena del crimine.

Doveva essere ancora colpa della botta in testa. Non avrebbe mai fatto una cosa del genere, se fosse stata totalmente capace di intendere e di volere. Il suo escamotage parve funzionare. «E Mr Anderson?», chiese Ren con divertimento.

Charlotte emise un suono che non era esattamente uno sbuffo, ma quasi. «Per favore, Ren-» schioccò la lingua contro i denti, «Mr Anderson è suo padre, te l'ha detto anche lui - chiamalo solo Henry. E poi, per tua informazione, Mr Anderson non si fa sentire da quando sono uscita dall'ospedale».

Il suo cuore fece un salto carpiato quando vide Ren staccare una mano callosa dal volante per massaggiare la nuca brizzolata. Erano piccole cose umane dei guidatori che Charlotte non aveva mai notato - e ora la riempivano del terrore di schiantarsi.

«Mr Anders-», Ren dovette come notare Charlotte storse la bocca rosea, riflessa nello specchietto. Si corresse, «Mr Henry è-» esitò, «delicato, in questo genere di cose - con quello che è successo a sua madre e il rapporto con suo padre, si chiude e-».

Charlotte schioccò i denti in una morsa silenziosa. «So benissimo come è fatto Henry», lo interruppe - perché davvero non sopportava come anche i dipendenti di suo padre li spingessero insieme. «So anche che prima dell'incidente avevamo avuto una specie di diverbio - forse due».

«Era probabilmente terrorizzato dall'idea che sarei morta senza che potesse scusarsi», lasciò ricadere nuovamente la schiena contro i sedili posteriori. «Ma non riesco a credere che abbia aspettato di essere certo che mi sarei svegliata e poi se ne sia andato dalla stanza senza dire nulla. E non ha richiamato».

«Pensavo avessimo superato quella fase,» incrociò le braccia sul seno, «la prima volta che sono caduta da cavallo otto anni fa e ha provato a scappare dalla tenuta in montagna pensando che sarei morta, quando in realtà mi ero solo slogata una caviglia - ed è stato lui, quello che è quasi morto assiderato nella fuga. Delicato,» sibilò.

«Miss Charlotte», il tono di Ren era conciliante, quasi paterno, stavano imboccando la stradina sterrata dietro la scuola - non poteva mancare molto, prima di raggiungere l'Hotel. «Lei è forte, ma non tutti lo sono - deve capire che le ferite dell'anima non guariscono tanto razionalmente».

Ferite dell'anima. Charlotte pensò al baluginare vermiglio nel cerchio schiacciante di quelle bianche zanne sotto la luce della luna. Alla maniera in cui cani mastodontici tormentavano i suoi sogni, ringhiando ai margini del suo campo visivo.

Pensò al vasetto di tempera che le era caduto a terra quella mattina, quando si era resa conto di aver inchiostrato di bianco e nero con le dita un lupo bianco indelebile sulla parete della sua stanza. A come il rumore del vetro infranto le aveva mozzato il respiro.

Angolo d'autrice
Sì, sono prolissa. Con questa storia me la sto prendendo moooolto comoda, descrivendo ogni scena minuziosamente.
Precisazione: Keith non è il nostro protagonista principale.

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