ꨄ C͟a͟p̲i͟t͟o͟l͟o͟ d͟u͟e͟ ꨄ

Ad Adell le strade si tingevano di notte nera ad orari disarmanti: potevano essere le sei del pomeriggio così come le quattro, o addirittura buio subito dopo pranzo. Era una legge tacita tornare a casa in coppia l'una con l'altra o con qualcun altro.

Charlotte scosse la testa, dirigendosi verso il suo borsone; vicino alla parete da arrampicata. Era una cosa ruvida e porosa, ma non l'avrebbe mai sostituita, nonostante le sollecitazioni di sua madre. Norah non capiva, naturalmente.

Quella borsa l'aveva accompagnata alla sua prima lezione di Cheerleading, quando era entrata da quell'enorme porta con le sembianze di uno gnomo quattordicenne spettinato.

Fece scorrere le dita sulla stoffa grigia opaca, una volta bianca. Il tempo passava molto velocemente. Ci frugò dentro, cercando il suo asciugamano, e incontrò immediatamente il familiare nodulo di paletti e morbidezza.

Charlotte si asciugò rapidamente il sudore. Adesso era all'ultimo anno, capo cheerleader, rappresentante primaria del consiglio studentesco. Avrebbe compiuto diciotto anni ad agosto, tra nove mesi. Aveva una vita frenetica e un desiderio represso di urlare per strada.

Bevve un sorso dalla bottiglia di acqua minerale. Il gusto rinfrescante sulle sue labbra non riusciva a toglierle il bruciore allo stomaco, ma niente le impediva di provarci.

Si mise la borsa in spalla e strinse la bottiglia tra le dita. Attraversò a grandi passi la palestra e tolse il cappotto e la sciarpa dall'appendiabiti. Si infilò rapidamente il cappotto e si legò bene la sciarpa intorno al collo.

Quindi, la ragazza inspirò e attraversò la porta, lasciando la stanza fredda e vuota, come ultima. Le sue mani stavano già tremando per il freddo mentre premeva la chiave nella serratura. C'era una corrente folle nel corridoio.

La voce dietro di lei non la prese alla sprovvista. «Ancora non riesco a credere che il signor Klein ti abbia lasciato le chiavi della palestra», scherzò il suo ragazzo, Henry Anderson, era il figlio di un avvocato, classico nerd idiota e un po' classista. Ma aveva anche dei difetti.

«Be', è piuttosto malleabile», ammise Charlotte, «dopo l'incidente del parrucchino». Henry rise apertamente, avvolgendole le spalle in un abbraccio. Le sue labbra screpolate le sfiorarono la tempia. Il calore si diffuse rapidamente attraverso di lei, una risposta naturale e confortevole.

Era normale che tornassero a casa insieme dopo l'allenamento, a meno che lui non avesse impegni con suo padre o il suo club di scacchi, soprattutto se lei terminava l'allenamento molto tardi.

Henry aveva una macchina e la Random Lake High School non era esattamente dietro l'angolo. Era bello avere il suo corpo caldo e muscoloso avvolto intorno a lei, anche attraverso gli spessi strati di vestiti, sciarpe e cappotti.

Era quel tipo di conforto con occhi morbidi e atteggiamenti poco sinceri. «Un giorno dovrai raccontarmi di questa cosa del parrucchino», la pregò per l'ennesima volta.

Charlotte ridacchiò, soffiandosi aria calda sulle mani mentre scivolavano nel freddo esterno del parcheggio buio. Da nessuna parte le stelle brillavano come ad Adell. Aveva un rapporto viscerale con quei granelli lattiginosi.

La luna non era ancora sorta in quel momento, però. Le stelle erano solo un accenno nelle ombre più scure del crepuscolo serale. Entro i confini di quel cielo che cadeva su Adell c'erano tutte le cose che aveva bisogno di sapere, o avrebbe dovuto voler sapere, e desiderare. Solo che era una bugia.

Il calore etereo risplendeva nell'ampia curva delle spalle di Henry, pizzicando i lucidi capelli neri, levigando la giacca scura e addolcendo il profumo di Ralph Lauren. Il ciuffo corvino era una macchia d'inchiostro sulla sua fronte.

Occhi così scuri che nessuno poteva dire di che colore fossero. Le aprì galantemente la portiera della BMW nera opaca con un gesto teatrale.

Un lampo di denti bianchi nella sera e Charlotte sprofondò nel sedile anteriore, già armeggiando con l'aria condizionata per accendere il riscaldamento mentre lui si dirigeva verso il posto di guida.

Durante il viaggio, Charlotte si divertì a mettere alla prova la pazienza di Henry. Collegò il suo cellulare al bluetooth dell'auto e condivise la sua playlist preferita: una raccolta di tutte le canzoni che Henry odiava.

Diceva che avrebbe preferito farsi esplodere i timpani, piuttosto che ascoltare quella roba.

Circa dieci minuti dopo, entrarono nel vialetto di Charlotte. Era il tipo di casa che vedevi nei vecchi film americani. Le peonie viola oscillavano nel giardino, offuscando un dolce profumo, lo steccato bianco era interrotto solamente dall'alto cancello.

L'edificio si stagliava contro la sera in un altissimo bozzolo, come una montagna, nei suoi tre piani di mattoni battuti. Il soffitto bianco sfumava in pareti grigio cenere.

Henry picchiettò le dita sul cruscotto, Astronomy di Conan Gray era in sottofondo. Charlotte stava aprendo la porta, il respiro trattenuto dalla corrente d'aria. «Tuo padre è in casa?», il ragazzo le chiese, con apparente noncuranza.

Gli occhi azzurri di Charlotte brillavano nell'oscurità, concentrati sulla porta d'ingresso di casa sua. Un piede era già sull'asfalto. Non si voltò verso il ragazzo, limitandosi a dargli le spalle. Sentì il freddo bruciarle le gambe nude, sotto il lungo cappotto.

Ed eccolo di nuovo lì, il pacato Henry Anderson, il figlio del più famoso avvocato della contea di Sheboygan; era disposto a fare qualsiasi cosa per ingraziarsi il sindaco Roberts nella speranza di ottenere qualche succosa causa legale.

Lei alzò gli occhi al cielo, sapendo di non essere vista. «No, lo sai. È a lavoro», sbuffò, la delusione incastonata in fondo alla gola secca, dove sarebbe rimasta. «Penso che passerà la notte in ufficio anche oggi» per lavoro, giusto.

Charlotte si gettò fuori dall'abitacolo, recuperando la borsa sotto i piedi e sorrise seccamente, schioccando le labbra. Colse lo sguardo allarmato di Henry. «Charlotte, mi dispiace stavo solo-» cominciò a dire. I suoi occhi scuri brillavano nell'ombra.

Charlotte gli sbatté la portiera in faccia e barcollò verso la porta d'ingresso, già dondolando le chiavi nel palmo della mano. Henry non l'avrebbe seguita.

Prevedibilmente sentì il rombo del motore allontanarsi lungo la via. «Facendo quello che voleva tuo padre», borbottò, sottovoce.

Charlotte non era sicura di amare Henry, il che, di default, significava che in realtà non lo amava, altrimenti lo avrebbe saputo.

Non lo odiava nemmeno, ovviamente, non che questo fosse un gran risultato. Non impiegava mai energia nell'odio. Gli voleva bene, certamente.

Pensava di essere molto vicina ad amarlo, senza essere in grado di farlo davvero. La prima volta che i loro genitori li avevano lasciati giocare insieme era quando avevano sette anni.

La madre di Henry era morta di cancro il mese prima e il ragazzino era un pasticcio confuso. Suo padre stava intentando una causa contro il Comune per aver utilizzato delle tubature apparentemente cancerogene per costruire i condotti. Lo avrebbe reso famoso in seguito.

Il padre di Charlotte, Oliver Roberts, e il padre di Henry avevano stipulato un accordo sottobanco. Oliver avrebbe aiutato Lynn Anderson a vincere il caso con informazioni sul consiglio. In cambio, avrebbe usato la campagna di Lynn per diventare sindaco e rinnovare le tubature dell'acqua.

Una disposizione intricata e machiavellica quanto disgustosa e moralmente inaccettabile. Così era la vita, ad Adell. E non c'era niente che Charlotte avrebbe amato di più che andarsene. Andare da qualche altra parte, per sempre.

La sua unica opzione era entrare in una scuola della Ivy League con una borsa di studio, quindi si sperava che i suoi genitori l'avrebbero lasciata andare, anche se solo per orgoglio e per il completamento della sua istruzione. Quell'ultimo anno avrebbe deciso la sua intera esistenza.

Quindi, sì. Forse Charlotte amava Henry, nella piccola nicchia, o meglio gabbia, della loro città dimenticata da Dio, ma quell'amore friabile non era niente in confronto al mondo fuori da quella gabbia.

Quel fidanzamento imposto dai loro padri era una decorazione. La loro relazione, prima amicizia, era una scusa e un alibi per giustificare la vicinanza tra l'avvocato Lynn Anderson e il sindaco Oliver Roberts. Una cosa misogina e poco gratificante, almeno per lei come persona.

Quando entrò in casa, sua madre era seduta al tavolo di mogano in soggiorno con una pila storta di scartoffie davanti a lei, il suo caschetto anni Cinquanta che scintillava in onde d'oro dietro le sue orecchie. Gli occhiali erano appoggiati sul naso dritto.

Alzò gli occhi azzurri, spaventosamente congelati e paralizzanti come veleno distillato, quando sentì sbattere la porta. Anche lei ricordava un vecchio film americano. «Buongiorno, Charlotte» cinguettò, tracannando un sorso di caffè, senza sbavarsi il rossetto.

Le sue spalle erano magre e il suo busto dritto come una corolla rigida. Una sciarpa le pendeva intorno alla gola diafana. «Olimpia ha lasciato un po' di stufato nel forno, devi solo tirarlo fuori», informò la figlia, «Gli allenamenti?».

Charlotte si sbottonò lentamente la giacca, controllando il tremito delle sue dita gelide, poi rilasciò il cappotto sulla gruccia con una smorfia. Faceva troppo freddo in soggiorno - le pareti beige, il pavimento cerato - una profondità scomoda.

Si diresse verso il forno con lo stomaco che brontolava, arricciando il naso per l'odore di profumo per ambienti che abitava l'angolo cottura. «Le ragazze fanno schifo, la pandemia le ha grigliate», disse candidamente, «ho minacciato di sostituirle».

La sua voce risuonò nella cucina ad angolo a pianta aperta, che era incassata nel soggiorno stesso senza una parete divisoria. Fece scivolare le mani ghiacciate nelle presine, tirando fuori lo stufato dal forno. «Nuove selezioni» sbuffò, con finto entusiasmo.

Un grugnito di approvazione risuonò nella gola di Norah Roberts. «È la decisione giusta», disse, aggrottando le sopracciglia perfettamente curate per qualcosa che aveva letto nei documenti tra le sue mani sottili. «Con gli adolescenti funziona meglio il bastone che la carota».

Charlotte guardò perplessa lo stufato, versandone due porzioni nei piatti di terracotta beige. Aveva sempre cercato  di convincersi di non essere scattante e pretenziosa come sua madre: non aveva fatto un buon lavoro.

I piatti tintinnavano sul tavolo di mogano. Si abbandonò silenziosamente sulla sedia, alla sinistra della madre, che era a capotavola, infilando una forchetta in ogni piatto. «Quale povera anima affliggerai, la prossima settimana?» chiese.

Sua madre era troppo sofisticata per alzare gli occhi al cielo, ma lo spasmo della sua bocca rossa probabilmente aveva il medesimo significato. «Te l'ho già detto, Charlotte» gemette. «Io non affliggo nessuno, The Sounder scrive ciò che è-».

«Vero al 99,9% e assolutamente non finalizzato a favoreggiamento di alcun genere verso alcun individuo e/o animale e/o oggetto». Charlotte finì, e infilò la forchetta nello stufato. «Hai mai scritto di Oliver?» sfidò.

Norah ostinava a perseguire l'ideale di giornalismo che aveva abbracciato da giovane, quello che denunciava i grandi mostri della città, come quel caso del pericolosissimo idraulico ladro di cannella. Il mostro, tuttavia, era quello che aveva sposato.

Com'era prevedibile, la donna non rispose. Si limitò a scostare i giornali con il braccio e diede un morso allo stufato: il piatto migliore di Olimpia, la loro cuoca.

Charlotte aspettò educatamente che sua madre finisse di masticare prima di parlare. «Henry voleva sapere se Oliver fosse a casa» disse, infine, scrutando la curva dello zigomo alto di sua madre con la coda dell'occhio. Le sue labbra rosa si chiusero intorno a un pezzo di carne.

Poteva sembrare strano - guardando quella massa di freddezza e alterigia che Norah rappresentava - ma sua madre era davvero l'unica persona a cui Charlotte raccontava tutto. Le raccontava anche dei suoi piani di fuga.

Di solito, la donna le diceva solo che aveva visto il mondo e lo vedeva ancora tutti i giorni, per lavoro. Secondo lei, non era niente di speciale, solo un agglomerato di pezzi di terra, corruzione e proprietà privata. Le sue esatte parole.

«Papà-». La donna la corresse sibillina, tamponandosi la bocca con un tovagliolo, una macchia di rossetto sulla stoffa. «Probabilmente è con Jess» disse, scrutando la porta all'altro capo della stanza. «O con Erika, o qual'era quella nuova, quella con il nome russo?».

«Sofiya», si affrettò a fornire Charlotte. La cosa più inquietante era che sua madre avesse effettivamente pronunciato quelle parole come se stesse parlando del tempo sempre burrascoso di Adell, con la stessa sicurezza e lo stesso intento.

La donna annuì consapevolmente, «Giusto». Tornò a fissare i documenti a ventaglio sul tavolo, una linea della schiena stretta e dritta, quasi punitiva. «Vai a quei dannati Nazionali» ordinò aspramente «così noi tre soli ci prenderemo una bella stanza d'albergo nel luogo in cui si svolgeranno.»

Certamente, era così che funzionava. Sua madre non riusciva ad attirare l'attenzione di Oliver, quindi le chiedeva cose difficili, quasi impossibili, per dimostrare che ne valeva la pena. Era soffocante - quella fiducia riposta in lei - la certezza che tutti avevano che lei potesse farlo.

Voleva poter sbagliare per una volta. Poter raccogliere i pezzi e piangerci su. Senza il peso acuto degli altri a gravare sulla linea delle spalle.

Charlotte non aveva mai capito, fin da piccola, come suo padre potesse andare a cercare la compagnia di altre donne di fronte alla bellezza mozzafiato che era Norah. Un qualcosa tra Marilyn Monroe e Rosalie di Twilight versione sposa pazza e omicida.

La sua coriacea armatura di freddezza non era sempre stata lì, era stata faticosamente costruita in anni di inerzia in quella miserabile città. Sebbene Norah dicesse di odiare anche il resto del mondo, Charlotte non ci credeva. Aveva visto le foto di viaggio di sua madre.

Il suo peggior incubo iniziava così: Charlotte nel ruolo di sua madre ed Henry in quello di suo padre, recitando su un palcoscenico dorato di sofferenza e lusso vizioso.

Rinunciò agli ultimi pezzi di stufato nel piatto e decise di metterlo nel forno per dopo. Quindi salì la rampa di scale di marmo. Aveva appena superato i primi tre gradini quando sua madre le parlò, senza alzare lo sguardo dalle sue carte.

«Vuoi imbrattare un'altra tela, o peggio un altro muro?» sbuffò, agitando la mano in aria. Le parole erano aspre, risuonavano nella fredda caverna delle scale. «Non si vive d'arte e gli artisti sono tutti matti, non vorrei che tu facessi circolare voci strane. Come Van Gogh, sai?».

Charlotte si sforzò di mantenere il sorriso sulle labbra, roteando gli occhi puntati sulla forma snella di Norah. «L'altro giorno ho disegnato un campo di girasoli, va bene, ma questo non significa che mi taglierò parte dell'orecchio sinistro» sbuffò.

Sua madre emise un leggero sbuffo. «Sarà meglio, o ti taglierò la bella testolina, e sarebbe un peccato». Sembrava davvero presa da quei documenti se non alzava la testa per minacciarla, e la cosa cominciava a preoccupare molto Charlotte.

La ragazza deglutì, reprimendo un brivido, e si costrinse a ridere. «Van Gogh è un genio su un milione», difese, «e la nostra città è famosa per la sua grande collezione d'arte, quindi si pensa che noi come famiglia emblematica dovremmo apprezzare-».

Sua madre la interruppe con un unico sguardo duro nel vetro dei suoi occhiali rettangolari. «Va bene, non ho detto che voglio fare una conferenza stampa contro le forme d'arte liberali» la rimproverò, «risparmiami la tua retorica». Almeno, alzò lo sguardo.

Charlotte si strinse nelle spalle magre in segno di scusa e si spinse una ciocca bionda dietro l'orecchio con un sorriso, prima di piroettare su per le scale.

Il secondo piano sembrava la casa di un vampiro e la stanza di Charlotte il suo nido. Non c'era stato giorno in cui Norah non si fosse lamentata delle tende color cenere appese alle persiane, delle pile di album sulla scrivania o dei libri impilati sulle lenzuola.

Charlotte non faceva entrare altri, nemmeno le cameriere. Era il suo rifugio, il suo luogo segreto, il suo angulus, come avrebbe detto il poeta Orazio. Ogni centimetro di quella stanza rivelava qualcosa di lei che nessuno sapeva.

Il bozzolo di lenzuola appoggiato sul quadrato incavato del davanzale scrigno, per esempio, nascondeva e raccontava notti insonni guardando un cielo tempestato di stelle. Una mappa di costellazioni attaccata all'intonaco grigio fumo e alcune stelle dipinte sulle pareti blu scuro.

L'ampio pavimento nero rifletteva, nei pochi punti non coperti da giornali, mappe e schizzi spiegazzati, la luce tremolante del lampadario a soffitto. L'aria condizionata era costantemente impostata su una temperatura della California.

La quantità di libri, tra cui Fantasy, sui suoi scaffali avrebbe rivelato una vena nerd che nessuno avrebbe potuto identificare in lei. Si gettò sul letto, sfilando da sotto la schiena un grosso libro con la copertina rigida.

L'aveva già letto cinque volte, per intero. Tuttavia, ogni volta era esattamente come la prima. Sebbene provasse una leggera antipatia per la protagonista principale, il suo amore per il protagonista maschile compensava ampiamente.

Con quei pensieri in mente si addormentò, l'enorme libro pesante sul suo petto.

Eccomi qui.
Se state capitando ora in questa storia, mi auguro che sia l'inizio di un viaggio tortuoso e piacevole - quanto molto molto dettagliato. Mi piacerebbe condurvi. Se avevate già letto o cominciato, vi accorgerete che ho meglio spezzettato i capitoli, in maniera da renderli più brevi e numerosi - meno tediosi, per così dire.
Restate connessi, aggiornerò presto.

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