ꨄ C͟a͟p̲i͟t͟o͟l͟o͟ q̲u͟a͟t͟t͟r͟o͟ ꨄ

Un'ora dopo, Charlotte era in piedi davanti all'autobus. Seguì con lo sguardo e salutò con un sorriso incoraggiante le ragazze che salivano le scale del mezzo scassato, passandole davanti. Sentiva le ginocchia tremare più del solito, prima di una performance.

Il sole era freddo sul suo lungo trench nero, ma faceva il suo lavoro di illuminazione, ancora per poco. Afferrò la tabella della lista con mani tremanti. «Mancano Felicia e Maddy» si rese conto, dopo aver fatto l'appello.

Il signor Klein si asciugò la fronte umida - sudore freddo, naturalmente - con il fazzoletto di stoffa che portava sempre nella tasca dei pantaloni cachi. Le goccioline gelavano come brina tra le sue folte sopracciglia arruffate.

Deglutì, tremando apertamente. «Charlotte, e se- e se non venissero?» balbettava, torcendo le dita attorno al fazzoletto azzurro. «Sai che essendo il vostro rappresentante in queste cose mi metto in gioco, sei una brava ragazza ma-».

Charlotte ignorò le tipiche chiacchiere, ormai abituata a quel tipo di paranoia. Sembrava che ogni singolo essere vivente ad Adell avesse seri problemi psicologici.

Guardò accigliata la porta aperta della scuola. Gli occhi bruciavano per l'esposizione al bagliore del sole sul gelo schiacciato dei tavoli vuoti nel cortile. Finalmente due forme snelle barcollarono contro la luce bianca.

Charlotte represse un sospiro di sollievo: era nella sua natura apparire ancora più sicura di sé del solito, quando non lo era. Sventolò la penna a sfera verso le due cheerleader ansimanti.

«Voi due-» sibilò lei, incredula - quasi stringendo la penna tra le dita. Le due la guardavano come cani bastonati. Sussurrarono scuse senza senso, alzando le mani come se stesse puntando loro contro una pistola. Maddy era piegata in due per riprendere fiato.

Charlotte alzò gli occhi al cielo. «Salite sull'autobus», ordinò, spuntando le due caselle mancanti della lista. Si strinse la tracolla dello zaino bianco sulla schiena e si catapultò dentro. Erano in ritardo di sette minuti.

L'autista - un uomo barbuto che somigliava vagamente a Babbo Natale - le fece l'occhiolino al suo passaggio. Bob poteva fare tutto. Il signor Klein stava alle sue costole come un piccolo anatroccolo smarrito, seguendola nei primi posti davanti, per poi sedersi accanto a lei.

L'autobus puzzava di gomma da masticare, ma il viaggio fu piacevole. Le ragazze cantavano varie canzoni scolastiche come Our Director - Lim con uno strano tono profondo e grave, quasi funereo ma comunque migliore di Felicia, che era stonata come una campana.

Stavano mangiando noccioline e frutta secca - cosa che Charlotte rifiutò categoricamente, essiccare la frutta doveva essere un crimine. I piccoli Rams - nome della squadra - erano molto emozionati. Era quello che voleva il loro capo. Non aveva davvero intenzione di sostituire nessuna di loro.

Charlotte non era come sua madre e allo stesso tempo le somigliava esattamente. In un modo che a volte la spaventava quasi a morte. Ma - in questo - erano diverse: Charlotte rispettava la natura umana, la ammirava, anche se era ridicola e limitante.

Erano in viaggio da un paio d'ore - e mancavano circa trentacinque minuti prima che arrivassero alla Green Lake High School - quando si udì un piccolo botto da qualche parte sotto le ruote. Non molto rumoroso, quasi insignificante.

Charlotte sentì Bob borbottare che una gomma doveva essersi bucata su quella dannata strada sconnessa. L'uomo si fermò vicino a un campo di girasoli così bello da essere accecante anche al crepuscolo. Un odore di polline e legno di sandalo si diffuse nel veicolo.

Charlotte si slacciò la cintura: gli altri non sembravano fortunatamente preoccupati, continuavano a chiacchierare amabilmente o a dormire con la bocca aperta e la testa contro il finestrino. Invece, lei aggirò il posto del signor Klein: l'insegnante era sull'orlo dell'isteria.

Si sporse nella cabina di guida, spingendo la schiena contro una un sottile sostegno d'acciaio per tenersi in equilibrio. «Serve una mano, Bob?» chiese, incrociando le braccia sui seni pieni, un dolce sorriso sulle labbra.

«Sì, se potessi-». Ma Bob non ha mai avuto il tempo di finire quella frase. Ironia della sorte, secondo studi recenti, su 23.700 incidenti automobilistici ad Adell, 594 provocavano la morte. Il 33% degli incidenti era dovuto all'eccesso di velocità. Erano parcheggiati in un maledetto campo di girasoli.

E Charlotte non vide letteralmente niente. Solo gli occhi di Bob spalancati quasi uscire dalla testa mentre fissava il parabrezza.

Anche lei fece scattate la testa e la sua vista fu inondata dal logo di un'agenzia che suo padre aveva smantellato - bianco sotto un tridente - e poi nero.

Quando si svegliò, vedeva ancora solo il nero. Non riusciva a respirare e sentiva una bruciatura intorno alla caviglia. Le sue gambe erano incastrate nella cabina di guida, pensò: poteva sentire una ruvida barba ispida contro il suo ginocchio.

Ciò significava che i pantaloni erano strappati, ma soprattutto che la cabina era capovolta. Di conseguenza, l'autobus era capovolto. Quella consapevolezza la fece uscire dall'apnea, proprio mentre dei puntini neri si imprimevano sulle retine.

Erano sedili, quelli che premevano con forza contro la cassa toracica. Doveva parlare, anche se la sua lingua argentina non l'avrebbe portata fuori. Provò a ruotare il busto, sotto di lei c'erano dei vetri rotti e qualcosa che sembrava grigio nell'oscurità.

Asfalto: ruvido e doloroso, ma non importava. I conati di vomito le fecero contrarre le viscere mentre lottava. «Bob!» chiamò, con gli occhi che lacrimavano mentre un dolore accecante le graffiava le corde vocali. «Bob, sposta le mie gambe», disse in un sussurro gracchiante.

Nessuna risposta. Bob doveva essere svenuto. Non si permetteva di pensare che potesse anche essere morto. Respinse le lacrime. Nessuno si salvava piangendo a dirotto, non in un oscuro antro all'interno di un autobus distrutto.

Premette con forza le mani contro il vetro macchiato di sangue - suo, forse - senza preoccuparsi di trattenere un grido di dolore. Trascinò il petto sull'asfalto, tirando così forte che se non avesse funzionato si sarebbe strappata via i piedi.

Digrignare i denti le aprì uno squarcio doloroso all'interno della guancia. Sputò un singhiozzo sanguinante e nello stesso momento le sue gambe scattarono fuori dalla loro trappola.

Il suo corpo si accartocciò in una posizione che sarebbe stata impossibile se non fosse stata una cheerleader. Il respiro raschiava come carta vetrata. La sua spalla affondò nell'asfalto, un dolore acuto le incendiò il braccio.

Si sollevò sul gomito, sollevando il viso verso il bagliore della luce sopra la sua testa. Contorcendosi in quello che sembrava un letto di aghi - sangue, asfalto e vetro - si strappò la giacca di dosso e ne creò un fagotto - vi fece scivolare dentro un pugno rosso sangue.

Si allungò sopra la testa con la mano fasciata - un tonfo sordo e uno strano scricchiolio delle sue dita. Urlò disperatamente tra i denti, colpendo ancora e ancora e ancora . Lacrime salate le bruciarono un taglio sulla guancia.

Ormai la sua schiena era viscida di sangue, vetro frastagliato nella sua pelle. Era forte, aveva i muscoli guizzanti di un gatto e la resistenza, ma non era come nei film, non così facile.

Il vetro era imbrattato di sangue come se un corvo vi si fosse schiantato contro e Charlotte non riusciva più a sentire la propria mano quando finalmente sul finestrino sopra di lei cominciarono a formarsi le prime crepe. Si tirò sul viso il cappuccio della giacca di pile prima di dare l'ultimo colpo.

Il vetro esplose con un rumore assordante, pezzetti taglienti le finirono addosso. Fortunatamente si era coperta la faccia.

Solo quando l'aria la raggiunse si rese conto che aveva trattenuto il respiro a intervalli regolari e che gran parte della debolezza proveniva dalla mancanza di ossigeno. Le sue mani afferrarono le lastre di metallo attorno al finestrino, premendo per sollevarsi leggermente e guardare fuori. Il tocco torturava la pelle già frantumata con una pressione violenta.

Nulla era cambiato nella profumata nuvola di girasoli, tranne che ora la faceva star male. Si alzò a sedere tra i vetri, avrebbe potuto spingersi fuori con uno scatto di reni. Tuttavia, non sapeva nulla degli altri.

Si voltò nell'oscurità, strisciando verso il lato opposto all'uscita: non poteva fare nulla per Bob, solo aspettare i soccorsi. Ma poteva controllare le altre. Charlotte incontrò cellulari nel suo cammino a quattro zampe nell'autobus schiacciato, ma erano tutti rotti. Un familiare gemito agonizzante la fece quasi balzare fuori dalla pelle scorticata.

«Lim» ansimò con voce rauca, cercando di scavare un varco attraverso l'imbottitura dei sedili sovrapposti che le sbarravano la strada. Mignoli spuntarono da uno spazio tra due pezzi di stoffa strappati. «Lim, Lim- ma che cazzo», ripeté Charlotte, più forte.

Le dita si agitarono in segno di riconoscimento e una voce soffocata si strozzò contro il tessuto. «Ti sento, Charlotte» balbettò la quindicenne, «non hai bisogno di imprecare - o forse, in effetti, in questa situazione dovrei farlo anch'io».

Charlotte emise una risata soffocata e acquosa, più per rassicurare Lim che altro. Stava bene se sapeva fare battute. Strinse la manina di Lim tra le sue dita sporche attraverso la fessura. «Oh merda, Charlotte» squittì improvvisamente Lim «stai sanguinando!».

Charlotte sorrise, appoggiando la fronte contro il tessuto dei sedili tra di loro. «Ne sono consapevole, stronza» sbuffò, ritraendo le mani per asciugarsele nei jeans strappati – ingoiò le intense fitte di fuoco che le si arricciavano fino alla nuca.

«Non dovresti insultarmi», ansimò Lim, allontanando la mano dal taglio tra i sedili. «Avevo il telefono in mano quando è successo, così ho chiamato il 911» sussurrò.

Il cuore di Charlotte sussultò di sollievo, il tuono nella sua testa stava aumentando: sentiva che il sangue caldo le stava sgorgando dalla fronte, ma non era sicura di niente. «Cristo, Lim», gracchiò sorpresa, «ora voglio baciarti».

La ragazzina soffocò una risatina: era un buon segno, Charlotte sentiva che un'altra risata avrebbe potuto farla a pezzi da un lato all'altro. «Sono sicura che mi piacerebbe», Lim cinguettò felice, «Sei un po' come il sogno erotico di ogni Cheerleader.»

La bionda deglutì un groppo in gola, troppo confusa per preoccuparsi seriamente di quelle parole e di come non fossero mai state quello che voleva essere. Da bambina odiava le cheerleader e voleva diventare un'artista: come cambiavano i tempi.

«Posso anche pomiciare con te, Lim, se mi aiuti a spostare questi sedili», la carota invece che il bastone, a quanto pare - pensò ironicamente. «C'è qualcun altro?».

Lim esitò, poi emise un mormorio appena udibile dietro la stoffa, «Ci sono Harper e Keen, ma-» deglutì a fatica, ansimando «Keen dice cose strane e Harper non si sveglia.» Un tocco di dita sui sedili «Posso raggiungere gli altri anche da qui - credo».

Charlotte annuì, anche se sapeva che Lim non poteva vederla. «Non preoccuparti» sussurrò, raschiando le parole dalla bocca del suo stomaco agitato. «Se riusciamo a tirarti fuori, mi occuperò io degli altri – uh, e Maddy?».

Improvvisamente, Lim singhiozzò, «Mi dispiace, Charlotte - non lo so» si strozzò sulle sue parole, «non riesco a trovarla, io- temo che sia stata buttata fuori».

Charlotte emise piccoli suoni rassicuranti mentre premeva la mano sanguinante contro il sedile. L'autobus si era trasformato nell'intestino di un serpente. Era fortunata che fosse buio: non voleva vedere com'erano le sue mani.

«Non preoccuparti, Lim - la troveremo», si trascinò seduta - alla massima altezza che la stretta caverna le permetteva - con una piccola smorfia di dolore. «Cerca Emery, penso che abbia un coltellino svizzero», ordinò, stringendosi lo stomaco tra le braccia.

Sentì movimenti fruscianti dall'altra parte - Lim scattò immediatamente. Charlotte poteva ancora sentire i suoi piccoli sussurri: «Em, Em!» , - ma non era così vicino come prima. Si concesse di premere la schiena contro il pavimento, sdraiandosi.

I suoi occhi erano pesanti, ma sapeva che doveva tirarle fuori tutti prima di morire come un cane. Voleva combattere per loro, non per se stessa, per l'ultima volta. E poi, beh, forse l'inferno era carino e Satana aveva un bel sorriso.

Stava per addormentarsi - o morire , perché a questo punto non sapeva più quale fosse la differenza. L'odore dei girasoli era un ricordo sbiadito, quello del sangue vivido nel cranio e il dolore cominciava a svanire.

Il soffitto nero sopra di lei sembrava un manto di stelle. Colpi violenti sui sedili la fecero sollevare seduta di scatto. «Charlotte, sei un fottuto genio, quindi non morire, cazzo» – e quella era Emery. L'unica del gruppo ad aver già compiuto diciotto anni. Emery aveva un fratello di nove anni.

Detto fratellino, un bellissimo bambino dai capelli ricci di nome Michael, si comportava come un sociopatico in erba. I loro genitori non erano mai a casa e in qualche modo lui riusciva sempre a strappare qualche arma pericolosa - accendini, lamette da barba - dai compagni di classe.

Per questo motivo, Emery andava in giro con una riserva di armi sotto i vestiti: prima di uscire di casa doveva sempre perquisire suo fratello e controllare che non indossasse nulla di potenzialmente letale. Se così era, Emery gli sottraeva gli oggetti pericolosi, se li metteva in tasca e poi se ne dimenticava.

Molte volte Emery si era punta durante l'allenamento a causa di un rasoio in tasca - si sbucciava le dita se cercava un fazzoletto nella borsa.

Charlotte raddrizzò la schiena congelata, accogliendo la fitta di dolore con aspettativa. «Non sto morendo» borbottò, scuotendo la coda di cavallo macchiata di sangue che le pungeva la schiena. «Fai il culo di questo sedili».

Le cheerleader ridacchiarono per lo strano ordine. Distrussero il sedile con strani rumori di strappo e Charlotte vide l'imbottitura sgonfiarsi lentamente finché non rimasero solo grumi di tessuto come pelle cadente.

La faccia macchiata di lacrime di Lim fu la prima a uscire tra strappi nel tessuto, e con un gemito si arrampicò fuori dal buco. Piccoli batuffoli di cotone erano aggrovigliati tra i riccioli, le lacrime si erano incrostate sotto i suoi occhi rossi.

Si gettò su Charlotte come una bambina capricciosa e le cinse il collo con le braccia. La bionda dovette sopprimere l'ennesimo urlo di dolore mordendosi il pugno insanguinato - anche peggio - mentre appoggiava il mento sulla spalla di Lim.

Poi fu la volta di Emery, che ebbe qualche difficoltà in più, essendo allampanata - la sua bisnonna era russa - la sua pelle lattiginosa brillava al buio. Il suo viso era una macchia bianca sotto le ciocche intrecciate in uno strano pasticcio di trecce alla Daenerys Targaryen.

Anche Keen, con i suoi denti bianchi e la pelle scura, sbirciò nel buco e in qualche modo riuscì a farsi sputare fuori. C'era uno strano sorriso stravagante sulla sua bocca, come se fosse ubriaca marcia o qualcosa del genere.

«Charlotte versione zombie, vestiti strappati e tutto il resto» cinguettò maliziosa, arricciando le gambe – quella parte dell'autobus cominciava a stringersi. «Ci ​​piace, in qualche modo sei ancora molto sexy».

Charlotte inarcò le sopracciglia, «Grazie» gracchiò divertita. L'oscurità rendeva difficile vedere la reale entità del suo danno, ma i capelli di Keen erano tirati a sinistra e probabilmente aveva preso una bella botta. «Anche il tuo trauma cranico è molto sexy».

Keen rise in modo esagerato e Lim deglutì, come se stesse per unirsi alla conversazione, anche senza un trauma cranico. «Lim e Keen, andate laggiù», indicò Charlotte nella direzione da cui era venuta, «ho sfondato un finestrino, attente ai vetri - uscite e monitorate la situazione dall'esterno».

Le tre ragazze la guardarono con espressioni sconvolte. «Hai sfondato un finestrino?» Lim sussultò, incredula - «Tipo corso di sopravvivenza?». Keen stava canticchiando un «Fuuuuuck» incredibilmente lungo in sottofondo.

Charlotte scosse la testa esasperata. «Emery» proseguì, attirando facilmente l'attenzione della ragazza più tosta del gruppo, «Se non ti dispiace, aiutami a radunare e far uscire Harper e gli altri».

Emery annuì immediatamente, estrasse il coltellino svizzero dallo stivale e si affrettò ad allargare il buco nel tessuto. Lim agganciò il braccio intorno alle spalle di Keen: le due se ne andarono, strisciando nella direzione opposta.

Sorpresa che avessero eseguito le sue direttive come se fosse normale, anche in quella situazione di vita o di morte, Charlotte si asciugò il sudore dalla fronte. Per la prima volta nella sua vita, il freddo non era un problema.

Si sono occupati in fretta delle altre cheerleader e in qualche modo, alla fine, quindici di loro - e il signor Klein che stava vomitando nel campo dei girasoli - riuscirono a riunirsi sulla strada aperta. Una folla di macchine si era radunata intorno al campo di girasoli e tutti avevano cercato di chiamare un'ambulanza, che era rimasta bloccata nel traffico.

Quando Charlotte scese - spingendosi fuori dal finestrino rotto con un movimento scattante e fluido nonostante il dolore - ci fu un applauso che le fece quasi girare la testa. Poteva solamente immaginare cosa diavolo avesse detto Lim.

Il cielo blu notte e ghiacciato di stelle come brina era decisamente infinito all'orizzonte, e la gabbia di Adell sembrava ancora più spaziosa di quel minuscolo autobus nero e giallo accartocciato come formaggio fuso.

Le sue amiche - che erano più o meno contuse, ma solo Harper priva di sensi - erano state accolte da gruppi di persone o famiglie, che le avevano fatte sedere nelle loro lucide macchine parcheggiate e avevano fornito cerotti e coperte.

Il sollievo stava quasi facendo cedere le gambe di Charlotte, ma all'improvviso si rese conto di due cose. Il camion - una distruttiva auto bianca cento volte più grande del loro minuscolo autobus che si era schiantato contro di loro non si vedeva da nessuna parte.

E poi, ce n'erano solo quindici - aveva contato, ricontato e ricontato. Maddy non si vedeva da nessuna parte. C'erano macchie di sangue sul marciapiede che continuavano, imbrattando il terreno di girasoli bruniti.

Approfittò della distrazione dei loro soccorritori per seguire le tracce incrostate di rosso su giallo brillante nella notte più nera. Non ci volle molto prima che lei - stordita e con la testa spaccata da un dolore lancinante - perdesse il senso dell'orientamento.

Si ritrovò come un puntino, il campo di girasoli si estendeva a perdita d'occhio da tutte le parti, le luci dei fari delle auto erano un lontano ricordo. Il freddo cominciava a diventare un problema adesso.

Batteva i denti, non indossava più il trench, visto che l'aveva usato per fasciarsi le mani e rompere il vetro e l'aveva lasciato sull'autobus. Si sentiva come un nervo scoperto su cui il gelido lago Michigan continuava ad agitarsi violentemente.

I tacchi degli stivali affondarono nel terriccio. I girasoli iniziarono a risaltare più alti di lei, come una foresta dall'odore soporifero e dolciastro, proiettavano lunghe ombre di corolle ovunque sotto il cielo stellato. Si strinse il petto, le labbra viola.

Ecco perché non se ne era accorta, quando qualcosa era spuntato fuori da uno stretto gruppo di girasoli dietro di lei. Una mano guantata di nero le fu messa sulla bocca e Charlotte la morse forte. Sentì un ginocchio sollevarsi per bloccarle le gambe.

Spinse lo stivale dietro la gamba dello sconosciuto, torcendo il tacco intorno al polpaccio. Il colpo li fece cadere entrambi a terra e Charlotte tossì, un'ustione gelida le fece inarcare la spina dorsale nel terreno umido. Un pezzo di vetro bruciava come lava.

Sputò per terra il guanto che aveva strappato all'assalitore, rotolandosi sullo stomaco con un conato. Qualcosa cadde dal guanto: un'unghia rosa pesca. Charlotte si sollevò sui gomiti, aggrappandosi alla corolla di un alto girasole.

Strisciò sulla schiena imbrattata di sangue: lasciava una scia che sembrava viola nella notte e il fango si era rappreso nelle ferite. Si voltò verso il suo aggressore, era minuto in un grande cappotto lungo e nero come l'inchiostro.

Aveva il volto coperto, ma lei sapeva chi era adesso. La mano senza guanto rimase dietro la schiena della figura scura, mentre l'altra si sporse in avanti, le dita sul grilletto di una pistola Glock 19, ideale per ruoli versatili, diceva Oliver.

Charlotte si schiarì la gola, puntando le iridi azzurre sulla figura, catturò quegli sfuggenti occhi castani. «Maddy, ti tolgo il ruolo di cheerleader» dichiarò tutta d'un fiato all'assalitrice, - la ferocia nei suoi occhi, «Perché sei una lurida bastarda, non solo una stronza».

Uno sparo squarciò l'aria, lacrime di sangue scivolarono tra i petali limpidi dei girasoli, la Stella Polare brillò.

Un ventaglio di sangue schizzò verso Charlotte. La ragazza emise un verso strozzato mentre apriva gli occhi, non volendo affatto vedere. Non era morta, il colpo era esploso troppo a destra.

Davanti a lei, Maddy era caduta nell'acciottolato terreno tra i girasoli. La posizione del collo era contorta e i suoi occhi erano fissi e non più sfuggenti, l'unica cosa visibile sotto il passamontagna.

La luna brillava sul sangue viscoso che si allargava in una pozza attorno alla sagoma esile e magra del corpo di Maddy, rendendo il trench nero ancora più scuro. Le ginocchia erano puntate verso l'esterno. Era morta.

Un grosso animale si ergeva sul corpo - il pelo era bianco come l'ectoplasma di un fantasma, o l'appendice di un tratto di luna. I suoi occhi neri come abissi di ossidiana levigata nell'inferno.

Le sue zampe anteriori premevano nelle scapole di Maddy, imprimendo sulla ragazza un peso tale da schiacciare la spina dorsale e far scricchiolare le ossa.

Era grande, come un'orso. Ma non sembrava affatto un'orso. Era snello e guizzante nei muscoli affusolati del corpo. Ma non era un gatto.

La sua pelliccia era folta come quella di un cane delle nevi, che doveva resistere al freddo, bianca come la laniccia all'interno di un cappotto invernale. Ma non era un cane.

Era un lupo, con gli artigli insanguinati che schiacciavano la trachea di Maddy e occhi di belva, feroci.

Charlotte si trascinò indietro sui gomiti, lo sguardo fisso sulla macabra scena nell'oscurità. L'odore dolce dei girasoli nel buio freddo della luna. Come se fosse morta e stesse sognando un lupo bianco e soffice come piume d'angelo.

Le sue dita si strinsero attorno al guanto di Maddy in mezzo al terriccio. Senza pensare scagliò l'oggetto contro il lupo con poca o nessuna forza.

Sentiva ormai il sangue defluire dal suo corpo, lasciandola come una foglia nel vento. Le parti del corpo trafitte da vetri pulsavano e imploravano.

Il guanto colpì il muso del lupo, con uno schiocco simile a uno schiaffo. Il lupo ringhiò, allungando il collo verso di lei con cattiveria, ma non fece nessun movimento pericoloso.

Con quel ringhio, scoprì i denti. Filari spessi e stretti in una morsa, sottili e affusolati come incisivi. Erano rossi di sangue, la lingua, ruvida e azzurrina, vi passò sopra, ripulendolo.

Charlotte singhiozzò, tirandosi seduta più dritta con la sola forza di volontà. Portò le mani alla bocca, tappandola, la gola contratta per i conati di vomito.

Le sue dita e la sua pelle sapevano di sangue. Sentiva l'umidità sulle guance e sulla pelle. «Che cosa hai fatto?» urlò.

Era una strana scelta di parole, per rivolgersi a un lupo. Probabilmente non le arrivavano abbastanza sangue e ossigeno al cervello.

Il lupo non rispose. Ovviamente. Fece per riabbassare la testa sul volto di Maddy, nel sangue dietro la nuca coperta. Charlotte ebbe l'orribile pensiero che volesse mangiarla.

Scosse freneticamente la testa, tenendo gli occhi aperti con un notevole sforzo, mentre sentiva le braccia cominciare a cedere sotto il peso del corpo e la pressione nel terreno.

«No-», esclamò, una goccia di sangue tracciò il percorso dalla guancia alla bocca. Era davvero sul punto di vomitare.

Fu come se non avesse parlato. Il lupo premette i denti sul bordo del passamontagna. E lo sfilò dalla testa senza vita di Maddy, che si sollevò e ricadde con un tonfo, quando il lupo smise di tirare via la stoffa.

Il cuore di Charlotte schizzò nel petto a una velocità intollerabile per le sue condizioni. Il sangue sgorgava più velocemente dalla pelle scorticata. L'oscenità della situazione si solidificò alla radice delle sue paure.

I capelli biondi sporco di Maddy erano neri di sangue nel buio e la sua guancia premeva contro la pozza enorme e liquida che si era allargata sotto il corpo gracile.

E poi, improvvisamente, mentre fissava quegli occhi spenti, il cuore di Charlotte rallentò bruscamente. L'ultima cosa che vide fu il cranio del lupo scattare nella sua direzione, come se puntasse una preda.

Poi la sua testa cominciò a girare e il lupo non fu più un lupo ma una macchia bianca e indistinta nella notte ai bordi della sua coscienza.

Successivamente avrebbe ricordato solo il tonfo del proprio corpo contro il terreno come un'esperienza ultra corporea. La coscienza cedeva. La luce della luna riflessa sul manto bianco tra i girasoli. Ticchettio di artigli che si avvicinavano.

Il sapore della terra era amaro sulla lingua. Poi del calore e un movimento oscillante. Dopo, più niente.

personalmente, questo è il mio capitolo preferito, ma penso di essere di parte,

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top