ꨄ C͟a͟p̲i͟t͟o͟l͟o͟ d͟i͟e͟c͟i͟ ꨄ
E 'fanculo, pensò. Ren aveva appena convenientemente parcheggiato davanti a un piccolo bar con l'insegna lampeggiante - chapeau era il nome - costeggiando un marciapiede sdrucciolato. Charlotte aprì lo sportello e scese dalla macchina.
Quasi scivolò interamente in un tombino a bordo strada a cui mancava il coperchio. L'abominevole Charlotte delle fogne, era l'unica disgrazia che mancava ancora da spuntare nella sua lista "come vivere la vita al meglio".
Strinse più forte il giubbotto tra le sue braccia. In qualche modo, un po' di quello strano odore era ancora incastrato nella stoffa e le dava un minimo di strana sicurezza in più.
Si riprese in fretta. «Invece possono», scattò - sbattendosi la portiera alle spalle. Stava cercando di dirlo più a sé stessa, che a Ren. L'autista rimise in moto e si allontanò, mentre lei ancora si guardava attorno, cercando di capire cosa non andasse in quella strada. Qualcosa era strano.
Ci mise un po' a rendersene conto. E lo fece solo quando si voltò verso il lato opposto della strada. Un'insegna farmaceutica verde ronzava e si illuminava come una luce a led, ma ad intermittenza, come se stesse per spegnersi. Un poster era stato strappato dal muro di una casa.
Le casette a schiera non sembravano affatto case di Adell - non dell'Adell che conosceva lei, almeno. Assolutamente non di Random Lake.
Le pareti erano di piccole pietre grigiastre, uno stile un po' antiquato, simile a un piccolo sobborgo. Vecchi cavi della corrente e di panni da stendere correvano da una grondaia mezza arrugginita all'altra.
La strada, ora che la guardava bene, sembrava un acciottolato sfondato, più che una vera strada. Questo spiegava l'ondeggiare della macchina.
Una gru rossa fiammante, a cui si erano intrecciati rampicanti, era ferma accanto a un cantiere - che era in realtà una specie di cupola a vetrate, simile a un dipinto trasparente, sorretta da colonne, pareti e supporti di legno. Della segatura era sparpagliata sul terreno lì vicino.
Suddetta segatura formava un cerchio attorno all'edificio in costruzione nel cantiere, come faceva il veleno che Norah lasciava attorno alla casa, per le formiche coraggiose che sopravvivevano al freddo di Adell.
Qualche foglio e una busta di plastica spiegazzata riposa sull'asfalto umido,- fra una buca dissestata e l'altra - credette di scorgere un cane morto ai piedi della recinzione attorno allo sterrato del cantiere, con lo stomaco attraversato da tracce di pneumatico.
Le venne da vomitare, anche se non aveva mai avuto stomaco sensibile per quelle cose - la scosse un brivido con l'istinto stranamente naturale e forte di distogliere lo sguardo. Gli occhi le pizzicarono, ma non lo fece.
Strizzò le palpebre, per distinguere meglio la sagoma di pelo bianco e sangue schiacciata tra la segatura. E, improvvisamente, il cane morto non era più un cane morto. Era una statua bianca - tanto bianca, infatti, da sembrare fatta di sale - seduta ritta come a fare la guardia.
Più simile a una sfinge canina. Le orecchie dritte e gli occhi neri come il carbone. Charlotte alzò di nuovo lo sguardo sul cantiere in costruzione e saltò indietro con un urlo di sorpresa appena soffocato contro il palmo della mano - per poco non cadde nuovamente giù nel tombino scoperchiato. Cazzo. Era impazzita.
Faceva ancora in tempo ad andarsene. Avrebbe chiamato Ren e si sarebbe fatta portare in ospedale. Possibilmente, un ospedale psichiatrico. Ricoverata d'urgenza. Perché la recinzione e il cantiere non c'erano più. C'era il cerchio di segatura. C'era ancora la cupola.
Ma la cupola non aveva più niente di arrugginito e cadente, anzi. Sembrava una specie di Hotel - schiacciato in una sinuosa forma ellittica. Un'insegna rettangolare d'alabastro svettava fra intarsi bruniti. ALBA, c'era scritto. Pareti affusolate di un caldo color avorio e vetrate bianche, luminose come lucciole alle finestre.
Qualcuno non voleva che si potesse vedere l'interno. C'era un tappeto rosso, sull'entrata - e la statua di sale bianco se ne stava immobile proprio sull'angolo sottile. C'era un uomo sulla porta, il busto piegato in un mezzo inchino con la mano dietro la schiena e un berretto bianco sulla testa. Immobile.
Charlotte prese la decisione più stupida della sua vita. Appoggiò il giubbotto spesso nell'incavo del braccio, - sembrava quasi vibrare di calore nelle sue mani e attraversò la strada. Non si preoccupò neppure di guardare, prima di farlo.
Non c'era anima viva in quel vicolo. Era una fortuna che Ren avesse notato solo il bar e non si fosse fermato più del necessario a fare domande. Charlotte camminò - rigida come un soldatino giocattolo caricato a molla. Una statua di sale.
La schiena dritta e le spalle tese come una corda di violino. Quando raggiunse il piccolo rigonfiamento del tappeto rosso, - sul primo gradino del portico leggermente rialzato - si strinse forte al giubbotto, affondando le unghie nella pelliccia fibrosa.
Il rumore dei tacchi bianchi fu totalmente attutito, quando il soffice tappeto rosso sostituì il terreno ghiaioso. La segatura scintillava, si rese conto, il cerchio attorno all'edificio sembrava fatto più che altro di polvere d'oro fuso, da vicino.
Per poco non saltò fuori dalla sua pelle quando la statua di sale le saltò addosso senza emettere un suono e veloce come un fulmine, appena lei l'ebbe raggiunta. Le graffiò una coscia, con la zampa affilata, - mettendosi su due zampe - lasciò briciole di sale sui pantaloni bianchi del Tailleur e scodinzolò.
Era davvero una statua di sale. E si muoveva - scodinzolava. E quando lo faceva, metteva un suono decisamente inquietante - come quando si scuote un pacco di sale mezzo vuoto.
Il cane di sale affondò il naso duro e bianco nel giubbotto che Charlotte aveva appeso al braccio e lo sniffò, mentre la ragazza faceva del suo meglio per non sudare freddo.
Alla fine, apparentemente soddisfatto, tornò al suo posto di statua. Charlotte avanzò ancora, con le gambe che tremavano, gli occhi azzurri spiritati e le mani tremanti che stringevano spasmodicamente il giubbotto.
Quasi non fu sorpresa - bene, più o meno -, quando l'usciere in divisa bianca sulla porta raddrizzò la schiena con uno scatto rumoroso e lei dovette rendersi conto che la sua pelle era di sale. Raggrinzita e con un pezzetto di naso mancante.
L'usciere le tese una mano guantata di bianco davanti alla faccia e Charlotte inghiottì qualcosa che le era rimasto bloccato in gola. Presa da un moto di panico si tastò le tasche interne del blazer, alla ricerca di soldi. Cazzo. Non ne aveva portati.
Non era sua abitudine, ad Adell sapevano chi lei fosse, poteva far mettere tutto sul conto di suo padre. Non credeva che avrebbe funzionato con le statue di sale. Nella disperata ricerca, tirò fuori dalla tasca il biglietto da visita dell'Hotel.
L'usciere di sale glielo strappò praticamente dalle dita con un gesto automatico - il contatto con la pelle ruvida, anche oltre i guanti, la fece rabbrividire. La visiera del berretto bianco da postino copriva gli occhi.
Sarebbero stati comunque bianchi, pensò Charlotte, - mentre l'usciere le apriva la porta a vetri, dopo averle restituito il biglietto da visita. Non sapeva neanche lei cosa stesse facendo. Aveva messo in moto il corpo, ma non il cervello.
Quando entrò, urlò. Letteralmente. La Hall era stupefacente, - arcate di avorio sopra le loro teste, un soffitto dipinto di angioletti con i riccioli biondi e guance cicciotte e pareti del colore della panna montata. Ma non fu quello a farla urlare.
In realtà, furono molte cose. Esempio, il fatto che la donna dietro il bancone della reception avesse la pelle viola, gli occhi neri, totalmente - e uno scollo che arrivava allo stomaco, ma quello era secondario. Più o meno.
Era vestita come una specie di hostess sexy di un film porno e alle spalle aveva una parete di specchi che sembrava non riflettere nulla dei presenti, solo le poltroncine della Hall - come se fossero vuote, gli appendiabiti, senza abiti, le scale mobili vuote e Charlotte.
Eppure l'edificio era pieno di gente in ogni angolo. Un altro problema, fu il fatto che Charlotte aveva appena trafitto qualcosa di viscido con i tacchi. Qualcosa di simile a un tentacolo, che aveva schizzato di nero il pavimento bianco e cerato e si contorceva per terra, strappato dal resto del corpo della persona a cui apparteneva. Cristo.
«Porca troia, Mary-Rose non fare quella faccia,» sbraitò l'uomo da cui scaturivano i tentacoli. Bene, aveva delle braccia e sembrava un uomo normale - solo che le sue dita guantate di bianco si allungavano poi in cinque tentacoli ciascuna.
Le dita-tentacoli erano tanto lunghe che strusciavano sul pavimento bianco luminescente - ed erano di un colore nero inchiostro, che contrastava con la polo bianca e i guanti senza dita che indossava. Stava urlando in faccia a una donnina.
La donnina aveva i capelli fuxia e le antenne dietro le orecchie. Stava cercando di raccogliere frettolosamente i tentacoli rimasti al ragazzo urlante, stringendoli goffamente in un mucchio tra le braccia. «Non lascerò correre, è la dodicesima volta che succede».
In effetti, Charlotte si rese conto che non era stata lei stessa a urlare. Era stato il ragazzo con i tentacoli. Lei poteva facilmente vedere la propria espressione pallida, boccheggiante e inorridita riflessa nello specchio che nessuno guardava, dietro la receptionist. Si ricompose.
O almeno, ci provò. Ormai la gente - che prima era stata stravaccata sui divanetti della Hall, chi a leggere un giornaletto scintillante e chi a oziare con un caffè - l'aveva accerchiata.
Alcuni avevano raddrizzato la schiena e cominciavano ad allungare i colli per vedere cosa stesse succedendo. Signore bassine - con ciglia arcuate ed enormemente lunghe - stavano coprendo gli occhi ai loro figli. Altri scuotevano la testa scontenti.
Charlotte cercò di darsi un contegno. Ci provò davvero, ma la situazione era decisamente troppo assurda. Stava cominciando a mancarle aria nei polmoni. Sudore freddo le si appiccicava dietro la nuca. «Io non so-», fece per dire, indietreggiando di un passo. «Mi dispiace».
Le file di luci al neon sul soffitto della Hall e il pavimento luminescente la stavano soffocando. Come se fosse in una scatola troppo luminosa. «Certo, certo» rispose l'uomo dotato di tentacoli, con tono zuccherato «Un povero Cecaelia non può andarsene in giro senza essere mutilato.»
La sua pelle - come i suoi tentacoli - era di un nero che Charlotte non aveva mai visto, più scuro dell'inchiostro, ma per il resto il suo volto era umano - occhi scuri e zigomi lisci. Aveva narici un po' schiacciate, forse, fumanti di rabbia.
«Credevo che mitologicamente i Cecaelia fossero donne» si ritrovò a dire Charlotte - la situazione era talmente assurda che il suo cervello si era fatto crescere le gambe ed era corso via. Le girava la testa. «Sa', come Ursula della Sirenetta».
L'uomo-octopus la guardò come se lo avesse preso a pugni. La donnina fuxia emise uno squittio e fece cadere i tentacoli dell'uomo sul pavimento con un sonoro tonfo. Il mezzo polpo fece per aprire bocca, la folla attorno a loro tratteneva il fiato.
Ma venne interrotto. «Frena i tentacoli, Ron», qualcuno sbuffò, con voce tanto carica di saccenza da suonare pigra e strascicata contro il palato. Un ragazzo spintonò una vecchietta con i baffi da gatta e irruppe nel cerchio, avvicinandosi al Cecaelia e a Charlotte.
Era normale, realizzò Charlotte con un tremito di sollievo delle dita affondate nel cappotto che aveva appeso al braccio. «La ragazza non voleva certo offendere», disse lui e avanzò spingendo una mano tra i capelli rosso fuoco. «Piantala con i tuoi latrati, non mordi». Normale in una maniera follemente attraente.
Più il ragazzo si avvicinava, più i dettagli lampeggiavano sul suo viso. Zigomi affilati, un mezzo ghigno arricciato all'angolo della bocca, occhi verde scuro, sopracciglia arcuate agli angoli e tante lentiggini sulle guance. Ron il Cecaelia sussultò visibilmente. «Sei l'ultimo che può parlare di latrati, tu» si difese.
Se possibile, il ghigno del ragazzo si espanse - sgorgando come marea bianca, in una maniera che gli fece scintillare gli occhi in essenza ferina. «Va bene,» disse soltanto, inarcando le sopracciglia e battendo le mani con distaccato divertimento. «La festa tormentiamo la ragazza umana è finita, andatevene».
Ci fu un mormorio scontento nella folla, serpeggiò come una biscia tra i cespugli. Dei ragazzini scontenti esitarono - ma alla fine i gruppetti si dispersero. Ron rivolse a Charlotte un'occhiataccia e tirò su col naso piatto, prima di voltarle le spalle e andarsene con tutti i suoi dodici moncherini.
Il ragazzo con i capelli rossi fece un mezzo giro sui talloni delle scarpe da ginnastica e fissò Charlotte. Dalla testa ai piedi, con un sopracciglio sollevato, le labbra increspate e zero imbarazzo. Le maniche della sua maglia bianca erano arrotolate attorno ai gomiti. «Sono Keith e tu non dovresti essere qui».
Le tese la mano. Charlotte batté le palpebre a vuoto un paio di volte, poi la afferrò e la strinse. «Veramente mi chiamo Charlotte Roberts, non tu-non-dovresti-essere-qui.», si morse le labbra. «Credevo non ci fossero Hotel ad Adell», aggiunse.
Keith sembrava in grado di esprimere una vastissima gamma di emozioni attraverso bocca e sopracciglia. La sua espressione si colorò di sorpresa. «Perché non ci sono, infatti», disse - con un tono che avrebbe innestato dubbi persino nello stesso proprietario di quell'Hotel.
Charlotte strinse le labbra. La gente attorno a loro era tornata alle poltroncine e una donna fingeva di non sbirciare nella loro direzione al disopra del giornale. «Questo è un Hotel», disse. «Ci siamo dentro proprio adesso».
«Non dare tempo e spazio per scontati», si limitò a replicare Keith con una scrollata di spalle e un broncio. «Adell potrebbe trovarsi nell'intestino di un Titano, per quanto ne sai». Sorrise e i suoi denti scintillarono di un bianco accecante.
Charlotte scosse la testa, il taglio sulla fronte cominciava di nuovo a pulsare. «In ogni caso, devi andartene» riprese Keith, chinandosi a raccogliere il tentacolo mozzato del Cecaelia dal pavimento sporco di sangue. «Darò io questo a Ron da parte tua».
Soppesandolo, esaminò la sostanza nera e viscosa che il tentacolo gli lasciava sulle mani e sotto le unghie con disinteresse. Charlotte trattenne a stento un conato di vomito. «Conosco gente che non sarebbe felice di vederti qui, sei un'umana».
Tu no?, Charlotte non fece in tempo a chiederglielo. Keith la trascinò via, spintolandola senza nessuna delicatezza e trascinandola per un gomito. Lei riuscì solo ad aggrapparsi al cappotto misterioso, prima di ritrovarsi sul marciapiede a fissare un cartello sbiadito.
Sola e confusa come un cucciolo sul ciglio della strada. Con un Tailleur bianco panna addosso, contusioni residue sul bel viso e un giubbotto di pelliccia tra le braccia.
Keith tornò dentro, sbattendosi la porta alle spalle in una maniera che fece tremare il vetro. Ai lati di Charlotte, le statue di sale rimasero statue di sale.
Il cielo si era fatto di un grigio cinereo. Tuoni cominciavano a ronfare sopra di lei, minacciando un temporale. Tirò fuori il cellulare dalla tasca per chiamare Ren e si rese conto che il biglietto dell'Hotel era sparito.
un Hotel che non esiste con una clientela... particolare?
Tentacoli mozzati dai tacchi della nostra bionda preferita, un polpo molto arrabbiato e un ragazzo lentigginoso.
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