ꨄ C͟a͟p̲i͟t͟o͟l͟o͟ c͟i͟n͟q̲u͟e͟ ꨄ
20 agosto 2011.
Mequon, WI.
Le luci si riflettevano a intermittenza sul vetro sottile della finestra tagliata nel muro di mattoni, facendo scintille nell'aria che erano residui del sole, soffocato dalla notte in arrivo.
Il cielo crepitava di una pallida sfumatura di blu cobalto, sereno come pensava di non averlo mai visto.
Una bambina era accovacciata tra i morbidi cuscini macchiati di tempere e inchiostri indelebili, nella nicchia più accogliente accanto alla finestra.
I suoi occhi blu zaffiro erano ricoperti da una patina chiara, bianca, lattiginosa, come le sfumature più calde del tramonto di fine giugno.
Sembrava ammirare un piccolo tordo che scorrazzava sul cornicione con le sue piume brune arruffate dal vento - visione confermata dal fatto che la bambina teneva un album sulle ginocchia.
Le sue mani si muovevano automaticamente sulla carta, le dita strette intorno al fusto arrotondato di una matita scura. L'altra mano picchiettava ogni battito del cuore sulla cassa di legno.
I denti bianchi non sarebbero potuti penetrare più in profondità nelle labbra, anche se avesse voluto. Improvvisamente interruppe la sua immobilità statuaria.
Fece scivolare indietro le sue piccole spalle, strette nella maglietta bianca - il cotone scivolò sul profilo delle scapole - raddrizzando la schiena. La sua lingua rosa schizzò fuori dalle labbra.
Lasciò che la matita scivolasse tra i cuscini come se le avesse bruciato il palmo o un dio misterioso le avesse appena dato il permesso di abbandonare il suo lavoro di carta macchiata ad arte.
Congiunse le mani e le tese sopra la testa in una sorta di goffo allungamento, gemendo di soddisfazione per il piccolo tratto della spina dorsale che era rimasto incurvato per troppo tempo.
Aveva mantenuto una postura per la quale molto probabilmente sua madre l'avrebbe uccisa. Il pensiero portò la bambina a guardare con scetticismo l'orologio sulla parete alla sua destra.
23.17 - mancava solo poco più di mezz'ora al suo compleanno. Era sicura che sua madre si sarebbe precipitata laggiù con una specie di buffo calzino-sciarpa tra le mani da un momento all'altro.
Sì, esattamente un calzino-sciarpa. La madre biologica di Charlotte era una donna molto particolare, che accettava di fare la tipica casalinga e lavorare a maglia solo una volta all'anno: il giorno del compleanno di Charlotte.
Per mostrare la sua dedizione alla sua famiglia, diceva. E sarebbe stato davvero carino, se la donna non avesse fatto schifo a lavorare a maglia, cioè.
Così, nel corso di sei anni, Charlotte si era ritrovata ad accumulare strane sciarpe di varie tonalità sgargianti che sembravano quasi radioattive, con bordi ruvidi e ricami storti.
Probabilmente se li avesse indossati avrebbero tentato di strangolarla. Sarebbe stato uno strano modo di morire.
Comunque ci avrebbe provato, se la madre l'avesse chiesto, non l'aveva fatto, mai. Oh, se Charlotte avesse immaginato quante cose potevano cambiare in quaranta minuti.
Prese il trillo di avvertimento nel suo cervello con la dovuta calma, sentendo la maniglia scattare con una certa forza. Il suo cuore perse un battito, accartocciato come un piccolo colibrì che cerca di volare senza spiegare le ali nella sua gabbia di vetro rotto.
Sua madre era sulla soglia. I suoi occhi scrutarono il corridoio mentre correva dentro e sbatteva la porta dietro di sé con un tonfo per il quale Charlotte sarebbe stata rimproverata.
Lena Nowak-Blanch, donna buona e gentile - sì, gentile, ma severa, sicura e insidiosa come la morte, capace di cambiare città e stato solo per mantenere il suo cognome dopo il matrimonio.
La testa di Charlotte scattò immediatamente sull'attenti, il mento sollevato verso l'alto. Azzardò uno sguardo attraverso le ciglia, incrociando gli occhi di sua madre - inghiottì un carbone luccicante e infuocato.
Il primo pensiero di Charlotte fu - freneticamente e malsano per la sua anima lacerata - che non era così che doveva essere.
Le mani da violinista, piene di cerotti, di sua madre dovevano essere infilate dietro la schiena dritta, non intrecciate e incrociate sul busto come se stesse cercando di non lasciarsi saltare il cuore fuori dal petto.
Le sue ciglia dovevano essere sbattute innocentemente, come se Charlotte non conoscesse il regalo imbarazzante che l'attendeva – non freneticamente come se stesse cercando di schiarirsi la vista, per assicurarsi che la bambina fosse davvero lì.
I suoi riccioli rossi dovevano essere separati e raccolti in qualcosa di ordinato e carico di lacca per capelli, non schiacciati a sinistra per coprire un piccolo taglio sulla fronte che comunque Charlotte non si era persa.
Il suo tubino rosso attillato, che le fasciava la vita come una seconda pelle, doveva essere la prova che era appena tornata dal lavoro e aveva pensato subito al compleanno di sua figlia.
Non doveva essere tutto arrotolato ai bordi, con macchie di fango incrostate nelle cuciture laterali. Come se fosse corsa nelle fogne di Mequon - una città del Wisconsin molto più grande di Adell - per tornare a casa.
Charlotte si rese conto con orrore che non sapeva nemmeno esattamente quale dannato lavoro facesse sua madre - ogni volta che provava a chiedere, a cena, sua madre scrollava le spalle magre.
La guardava con quel sorriso pieno di rossetto rosso, scalciava via dal tavolo la cartella di pelle, lasciandola graffiare contro il parquet e diceva: «Te lo spiegherò quando sarai più grande».
Charlotte aveva sempre pensato - O meglio, si era lasciata pensare che fosse una cosa tipo contabilità o legge, troppo complicata per una ragazzina. Ora, quelle parole assumevano un significato leggermente diverso.
Poi sua madre le diceva di finire gli involtini di zucchine grigliate e di non cercare di distrarla con argomenti per non mangiare le verdure. In realtà, Charlotte non aveva problemi con le verdure.
Suo padre si aggiustava gli occhiali appannati sul naso e Charlotte non riusciva a vedere i suoi espressivi occhi color ambra, ma le sue labbra erano screpolate in un sorriso.
Lo strattone dei tacchi degli stivali sul pavimento riportò Charlotte alla realtà con un brusco risveglio. Sua madre si avvicinò lentamente, con un sorriso che voleva essere rassicurante.
Si chinò vicino alla nicchia per essere al suo livello, picchiettando le unghie lucide sui pantaloni beige di Charlotte, come se avessero tutto il tempo del mondo. Non era vero.
«Devi-» cominciò, con un tono stranamente cadenzato e autoritario che Charlotte le aveva sentito usare un paio di volte al cellulare - gelido come una brezza su un lago ghiacciato.
Poi si schiarì la voce, con il suo garbato mormorio, espirò come per dare la colpa a uno strano mal di gola. «Ho bisogno che tu chiami la polizia, kocie».
Lo disse con lo stesso tono con cui di solito le diceva di scendere a mangiare. Rotolando la lingua nel soprannome polacco intriso di affetto che aveva sempre ricordato a Charlotte le origini della loro famiglia.
Charlotte sentì il suo respiro scoppiettare rumorosamente nelle sue orecchie, le ruote del suo cervello che cigolavano di nuovo. Capì cosa significava la dolce supplica negli occhi carbone di sua madre.
"Voglio rassicurarti e dirti che andrà tutto bene, ma non posso. Voglio spiegare ma non c'è tempo per le domande, anche se faccio sembrare che ci sia".
Prima che se ne rendesse conto, Charlotte si ritrovò a muovere la testa su e giù un paio di volte, la stretta corona di riccioli che le rimbalzava dietro il collo. Poteva accettare questo, suo malgrado.
Capiva il pericolo - la sopravvivenza, nonostante tutto e a dispetto di tutti - molto più dell'affetto, come le era stato insegnato, soprattutto in quel momento. La sua mascella si irrigidì, morse discretamente l'interno della guancia.
Sua madre le gettò il cellulare in grembo con un luccichio negli occhi che sembrava quasi orgoglioso - come se non si fosse aspettata niente di meno da Charlotte, e questo la fece sentire bene. Per un momento.
Poi uno schianto al piano di sotto fu seguito da un'imprecazione di suo padre che mandò in frantumi la fiducia negli occhi di sua madre come una lama, tagliando via ogni emozione tranne la ferocia.
Il padre di Charlotte. Louis Blanch non imprecava, semplicemente no. Era la persona più tranquilla che conoscesse. Il più equilibrato.
La schiena di sua madre si drizzò coraggiosamente, come Charlotte aveva visto fare ai veterani che ogni tanto andavano in visita nella sua scuola a raccontare storie di guerra.
«Nasconditi sotto il letto» ordinò a Charlotte, con un suono sibillino e velenoso che non ammetteva repliche. La bambina scattò automaticamente, muovendosi fuori dalla nicchia e giù sul terreno per eseguire velocemente l'ordine.
Il pavimento era polveroso e la fessura del letto stretta, dovette trattenere il respiro, per riuscire a scivolare sotto.
«Io-» continuò la donna, spingendo dolcemente con il piede la mano leggermente sporgente di Charlotte, allungata fuori dalla fessura del letto, in modo che la bambina capisse quanto fosse fondamentale rannicchiarsi nel terreno polveroso.
Charlotte ebbe la sensazione che Lena volesse dare seguito a qualcosa del tipo tornerò. Presto. Ma poi sua madre scosse la testa con un sorriso quasi bonario. «Ti amo» disse.
Charlotte non aveva intenzione di restare sotto il letto, ovviamente. Ma non poté fare altro che rimanere senza fiato quando sentì lo scatto della chiave nella serratura dopo che sua madre se n'era andata.
Un misto di confusione e rabbia sembrava aleggiare nel materasso sopra di lei, come se riempisse l'aria e volesse che lei scattasse a tutti i costi. Lei non poteva.
Non poteva, ma il suo petto ribolliva e il suo respiro quasi annebbiava il tappeto. Era così carica di risentimento. Sapeva che odiare sua madre per averla protetta non aveva senso.
Ma il suo respiro pesante, le sue ossa fredde e rigide come l'acciaio, il fatto che si fosse immobilizzata come una statua e sentisse il pavimento freddo sotto di lei, il materasso sopra. Era in trappola.
Tutto questo non era niente in confronto alla consapevolezza che sua madre - l'unica degna di essere chiamata tale - in realtà conosceva Charlotte meglio di quanto avesse mai sospettato.
Certo, avrebbe potuto aver chiuso la porta per tenere fuori qualcosa e non dentro Charlotte, ma la bambina era abbastanza sicura che non fosse quello il motivo e ribolliva di domande.
Cercò di sforzarsi di respirare con la bocca per non sentire gli occhi gonfiarsi e prudere per la sua stupida allergia alla polvere, si sentiva come se stesse inalando fuoco - l'ultima cosa che poteva fare era starnutire.
Dopo quel giorno la sua allergia si era in qualche modo combinata con il trauma e aveva cominciato a sentire un vero terrore che le turbinava nel petto al solo pensiero dell'odore della polvere, peggiore del sangue.
Cercò di muovere gli arti, senza far scricchiolare niente. Senza far risuonare il pavimento, abbastanza da rotolare sulla schiena e sollevare il cellulare di sua madre sopra il petto.
Non sapeva nemmeno cosa dire alla polizia. La verità, meschina delinquente!, Una voce, che suonava molto simile a quella bonaria e roboante di suo padre, le suggerì dal profondo della sua testa.
La verità, certo. Ma non era per lei: lo avrebbe fatto per sua madre e suo padre, avrebbe represso il tarlo corrosivo dell'incertezza. Quel pensiero che comunque non le avrebbero creduto.
Fece velocemente il numero. Le dita non tremavano affatto, sicure e veloci.
Il centralinista della polizia rispose dopo il primo squillo e Charlotte sinceramente non sapeva perché fosse sorpresa. Ma lo era ancora di più quando la donna sembrava afferrare rapidamente la situazione.
Dopotutto, il respiro di Charlotte, tra allergia e ansia, era abbastanza raschiante da sembrare che stesse chiamando direttamente dall'inferno.
La voce della donna che rispose era dolce e gentile, calda come una cioccolata calda d'inverno. Ed usciva sottile, come se sapesse di non dover alzare la voce.
«Salve.» disse, formale, ma con leggerezza. Sembrava sul punto di dirle chi fosse, in quale stazione si trovasse e fare domande stupide, ma Charlotte non si preoccupò di lasciarla finire.
«Sono alla ventunesima casa di Somerset Street, al confine. Mi chiamo Charlotte Blanch in-» guardò l'ora sullo schermo del telefono, sopra la chiamata «sette minuti, avrò sette anni, c'è rumore di sotto, mia madre mi ha detto di chiamare la polizia e poi è scesa, in casa c'è anche mio padre, credo sia ferito. Venite».
Ok, chiamare la polizia con ordini non era cosa da tutti, ma tendeva a diventare prepotente in situazioni stressanti. A suo merito, la donna non sembrava turbata.
Le assicurò che sarebbero stati lì in pochi minuti - prima del suo compleanno, riuscì persino a scherzare - e continuò a dire qualcosa di rassicurante e a chiederle dove fosse.
Charlotte l'avrebbe incontrata e ringraziata più avanti, ma non ora. In quel momento chiuse brutalmente la chiamata, e non per cattiveria, ma perché aveva appena avuto il tempo di essere grata per il soffio d'aria che l'aveva raggiunta, quando si rese conto che se prendeva un po' d'aria nel fuoco della polvere doveva essere perché la porta era stata forzata.
Perciò attaccò. Uno strano suono rotolante e gorgogliante confermò il suo pensiero prima che Charlotte fosse costretta a smettere di respirare.
Rotolò silenziosamente su un fianco, ignorando un dolore lancinante che doveva essere stato causato dalla punta di un compasso che doveva aver lasciato cadere lì qualche tempo prima.
Quando finalmente raggiunse una posizione che le consentisse di vedere attraverso lo spazio tra le lenzuola penzolanti e il pavimento, non vide nessuna scarpa, come si era aspettata. Nessun ladro o assassino.
No - quelli non erano decisamente piedi umani - zampe, sarebbe stato più corretto chiamarle. Pelose e con gli artigli che ticchettavano tra ciuffi bianchi e un dannato muso che annusava tra alcuni stralci di disegni.
Il sussulto di smarrimento di Charlotte annegò in uno strano rumore che per un attimo le suonò estraneo, non le arrivò al cervello quasi soffocato e privo di ossigeno.
Poi si rese conto che era una suoneria - e non una suoneria qualsiasi, ma quella di una sveglia, la sveglia impostata sul cellulare di sua madre, che ora lampeggiava con un avviso di buon compleanno. Le voci di sua madre e suo padre che cantavano Happy Birthday a squarciagola.
Charlotte sbatté la mano così forte sul dispositivo che si ruppe, quasi schiantandosi contro il pavimento. Cercò di liberarsi delle lacrime tra le ciglia con la sola forza di volontà.
Quando alzò lo sguardo - gli occhi lucidi per il dolore -, si bloccò sul posto come per una scossa elettrica. Due occhi neri come tizzoni ardenti la fissavano, grandi come palle da baseball e allungati in una forma a mandorla terribilmente selvaggia.
Occhi di lupo. Ma occhi troppo intelligenti e sagaci per essere occhi di animale. Era sicura che la stessero guardando, scavando nella sua anima. Poi il lupo abbassò lo sguardo, mordicchiando la sua zampa bianca con noncuranza.
Sbatté la coda contro il letto, mise giù la zampa e si allontanò, quasi sbuffando in direzione della porta, come per dire che non aveva visto niente di interessante.
Poi - due secondi dopo - le sirene della polizia. Lampeggianti luci rosse e blu riempirono la stanza. Il lupo era sparito. Portando tutto dietro di sé.
Quindici minuti dopo, Charlotte era stata tirata fuori dal suo nascondiglio da un agente di polizia molto paziente, che aveva dovuto strapparle le unghie dal tappeto.
Nei giorni successivi la bambina dovette affrontare l'inferno. Paparazzi cercavano di invadere il cimitero durante il funerale dei suoi genitori, dichiarazioni su dichiarazioni alla polizia, sedute in tribunale e con psicologi che la credevano pazza.
Qualche settimana in case-famiglia sparse nel Wisconsin. Finché un giorno la direttrice non la chiamò nell'ufficio.
Le disse che una ricchissima coppia - nella piccola cittadina di Adell - aveva intenzione di adottarla.
Le fu subito chiaro, appena li conobbe, che Norah e Oliver Roberts cercavano una bambina bionda e con gli occhi azzurri perché volevano che assomigliasse a Norah. Per spacciarla come loro figlia biologica.
Non era una cosa molto legale, ovviamente. Ma Adell era fatta così, a quanto pareva, la direttrice veniva proprio da lì, ed era più che disposta ad aiutare il candidato più promettente alla carica di sindaco.
La informarono che avrebbe dovuto fingere di essere stata con dei parenti all'estero per questioni di studio.
Le dissero che non poteva permettersi errori. Così Charlotte Blanch divenne Charlotte Roberts.
Angolo d'Autrice
Abbiamo finalmente un grande flashback che spiga quello che finora è stato solamente detto (scritto).
Charlotte è adottata dai Roberts, non la loro figlia biologica.
Sinceramente ero stanca di quelle storie in cui la protagonista sfancula i genitori adottivi come se non fossero quelli che l'hanno cresciuta.
Per questo Charlotte si riferirà sempre con affetto ai suoi genitori adottivi. Senza mai dire eh, però sono solo adottivi. Per me non ha senso.
Ovviamente con Oliver la situation è un po' più complicata, ma assolutamente non perché lei non lo consideri al pari di un padre biologico, anzi proprio perché lo considera tale.
Lei vorrebbe il suo affetto, la sua attenzione e il suo amore. Eppure, Oliver è un uomo complicato.
Che dite? Le vuole bene o non le vuole bene? Ama Norah o non la ama?
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