14. Sei la mia ragazza
Zach Bryan - Revival
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Sono diventata talmente brava ad ignorare la presenza degli altri intorno a me che dovrebbero darmi una medaglia per questo.
Eppure, non riesco a non fare caso al modo in cui Diana fa irruzione nella stanza; un modo del tutto inusuale. Non saluta, non sbuffa e non si lamenta a bassa voce di qualche studente cafone. Anzi, è silenziosa e guardinga. Si avvicina alla sua scrivania in modo furtivo, quasi come se volesse apparire invisibile ai miei occhi o come se non volesse avere addosso la mia attenzione.
Questo è un comportamento che suscita in me qualche perplessità. Sono un'attenta osservatrice e memorizzo in fretta i dettagli e le caratteristiche delle persone e so per certo che in questo momento lei si sta comportando in modo insolito.
La guardo con la coda dell'occhio, ha una mano stretta a pugno lungo il fianco, le spalle rigide. Non le rivolgo più di un mezzo sguardo scocciato, ma mi basta per capire che sta stringendo qualcosa tra le dita.
Si siede sulla sedia girevole, assicurandosi di darmi le spalle e di non offrirmi la possibilità di vedere cosa sta nascondendo.
La curiosità inizia a prendere forma dentro di me. Spinta da un impulso quasi folle mi alzo in piedi e sbircio nella sua direzione.
Diana sposta la sua lunga coda sulla schiena, la fa oscillare un paio di volte. Poi, quasi in modo inaspettato, la sposta sulla spalla sinistra e inclina il busto nella stessa direzione, appoggiando il mento sul palmo della mano e fissando l'agenda, mentre con la penna scarabocchia qualcosa.
Noto il piccolo oggetto accanto al suo gomito: è grande quanto il mio dito medio, è bianco e riconosco il marchio color oro. È un rossetto Chanel.
Diana non è il tipo di persona che cammina come se avesse una bomba attaccata al culo e nemmeno come se da quel rossetto ne dipendesse la sua vita.
«Nuovo acquisto?», le domando appoggiandomi con nonchalance alla mia scrivania.
Mi scocca un'occhiata disinteressata e si stringe nelle spalle. «Diciamo.»
Inarco un sopracciglio. «Potrei-»
Diana scatta in piedi, sibilando: «No.»
Aggrotto la fronte. «Non sai nemmeno cosa stavo per dire. Ritira gli artigli, leonessa», mi do una spinta in avanti per esserle più vicina.
Diana solleva il mento, tenendo gli occhi fissi nei miei.
«Riconosco il comportamento di una ladra alle prime armi», le dico con aria disinvolta mentre lei spalanca lentamente gli occhi.
Dopo una breve pausa, si mette sulla difensiva incrociando le braccia sotto il seno. «E quindi? Hai intenzione di elargirmi uno dei tuoi trucchetti o cosa?»
Rimango sempre più sbalordita dal suo cambio repentino d'umore ma anche dal suo atteggiamento e dalla sua lingua non più dolce ma tagliente.
«No, ma se qualcuno sospettasse di te e venisse a ispezionare la nostra stanza, sai a chi darebbe la colpa? A me. Perché io sono già finita nell'ufficio della preside e nessuno sospetterebbe di una come te con la sindrome da crocerossina e lo sguardo da cucciolo smarrito. Ma forse in fondo è ciò che vuoi, non è vero? Farmela pagare per il modo in cui ti ho trattata.»
«Ti sbagli, Raven», avanza verso di me con un sorrisetto impertinente sulle labbra. «L'ho rubato a quella stronza di Lucy perché mi andava. Perché lo volevo.»
«Ti metterai nei guai», l'avverto con tono basso.
Lei sorride. «E quindi?»
«Non lo so, per te vale la pena finire nei guai per un maledetto rossetto?», le chiedo.
«Sì, ne vale la pena», continua a sorridere compiaciuta.
Non riesco a comprenderla.
«Fallo sparire», le ordino con voce perentoria. «Non voglio avere nella mia stanza oggetti rubati.»
«Rubati da me? O forse vanno bene soltanto quelli che rubi tu?», mi chiede sfacciatamente.
«Non ho rubato nulla», rispondo pacata.
«Ma lo farai. E forse allora ti servirà una brava coinquilina a cui non dovrai tappare la bocca con qualche stupido riscatto, ma che forse sarà persino disponibile a diventare una tua complice», mi fa l'occhiolino e prende nuovamente posto sulla sedia, liquidandomi silenziosamente.
Mi ha davvero fatto l'occhiolino?
La guardo e non riesco a non notare la crepa che si sta formando nella bolla sicura che l'avvolge. È temporaneo, mi dico. Deve esserlo per forza.
Diana non è così. So per certo che lei non è una ladra. Non è sfacciata. Non è arrogante.
«Potresti trascorrere anche cinquant'anni accanto ad una persona e pensare di conoscerla come le tue tasche, eppure, bambina mia, ti assicuro che non è così. L'essere umano è imprevedibile come il tempo. È l'animale più pericoloso, è l'essere di cui dovresti diffidare sempre ma senza farglielo capire. A volte ingannarlo e fare il suo gioco è il metodo più efficace per metterti in salvo», mi aveva detto una volta papà.
Una di quelle rare volte in cui si ricordava che non ero una semplice combinaguai ma ero anche sua figlia.
Uno di quei momenti in cui tornava a casa sobrio, quando ancora si ricordava di avere un posto dove dormire e una famiglia ad accoglierlo.
E mio padre mi ricorda che forse in quella frase aveva infilato in realtà un po' della sua essenza; forse sapeva che sarebbe cambiato da un giorno all'altro, diventando irriconoscibile ai nostri occhi.
E adesso mentre fisso incredula la dolce ragazza seduta davanti a me, do ragione a lui.
Chissà cosa penserebbe Azriel. Chissà cosa farebbe al posto mio. Mi consiglierebbe di mandarla a quel paese, come quando papà ha alzato per la prima volta la voce davanti a me?
«Non puoi salvare tutti», mi ha detto. È davvero questo che sto facendo? O sto semplicemente cercando di tappare un buco dentro di me con qualche stupida buona azione?
«Tra poco i tuoi occhi mi trapasseranno la schiena se continuerai a fissarmi in questo modo», la sua voce, adesso meno tagliente e più vellutata, mi riporta al momento presente.
Noto che mi sta fissando a sua volta. Si porta le mani sul fiocchetto verde in cima alla testa e se lo sistema meglio, anche se è già perfetto così. Forse è un gesto dettato dal nervosismo. Forse ha bisogno di tenere le mani impegnate o forse lo sta facendo per distrarmi.
E temo stia funzionando.
Diana apre la bocca per dire qualcosa, ma qualcuno bussa alla porta.
«Il tuo amico-nemico-amante è venuto a portarti di nuovo da mangiare?», chiede lei con un certo tono malizioso.
Sta cercando di farmi innervosire. Ne sono convinta.
«Non so a quale giochino stai cercando di giocare, Diana, ma ti assicuro che non vuoi avermi come nemica». Un altro colpo alla porta, questa volta più concitato.
Diana guarda me e poi il rossetto sulla sua scrivania.
Diventa di colpo pallida in viso e deglutisce. Dov'è finita tutta la sua sicurezza?
Mi siedo sul mio letto, accavallo le gambe. «Lascialo lì dov'è e vai ad aprire la porta. La persona dall'altra parte sembra piuttosto impaziente. È maleducazione farla aspettare», le ordino.
«Cosa faccio se-»
La interrompo. «Con tutto il rispetto, ma non me ne frega un cazzo, Diana», e mentre lo dico sento il fiele solleticarmi la gola. Conosco la sua paura, quella sensazione opprimente che ti schiaccia il petto. Sembra la fine. Sembra sempre la fine e non lo è mai per davvero.
Adesso subentra l'adrenalina. L'istinto di sopravvivenza.
Si lancerà verso la sua scrivania, prenderà il rossetto e farà di tutto per nasconderlo.
Ed è esattamente ciò che fa.
Lo prende e corre in bagno. Dopo pochi secondi sento tirare lo sciacquone. Non lascio trapelare alcuna emozione sul mio viso. Mi fingo impassibile, un blocco di ghiaccio.
Diana si alliscia la gonna e poi va ad aprire la porta.
Non è la persona che ci aspettavamo di trovare.
Mallory la squadra con fare circospetto dalla testa ai piedi. Ha capito che qualcosa non va in lei. Il suo terrore è palpabile, riempie tutta la stanza.
«Allora? Mi fai entrare o hai intenzione di svenire davanti a me?», le chiede con la sua solita gentilezza. Diana si fa da parte, le tremano le dita mentre richiude la porta. Tira un piccolo sospiro di sollievo, poi si appoggia con le spalle al muro e chiude gli occhi.
«Cosa le è successo?», chiede mia sorella.
«Ha rubato per la prima volta», spiego.
«Che cosa ha rubato?», chiede, gli occhi brillano di curiosità.
«Un rossetto. Chanel», rispondo.
«Fammelo vedere», Mallory sorride con entusiasmo, ma Diana scuote lentamente la testa.
«Non può fartelo vedere. Al momento galleggia da qualche parte insieme alla merda», spiego sbuffando poi una risata divertita.
Mallory si lascia cadere sulla sedia davanti alla mia scrivania. «In che senso?»
«L'ha lanciato nel cesso e ha tirato lo sciacquone.»
All'inizio sento soltanto la piccola e delicata risata di Diana. Poi sento quella più sguaiata di Mallory. Io mi limito a sorridere per un istante.
«Ti piaceva almeno?», le chiede Mal.
Diana scuote la testa.
«Allora perché l'hai rubato?»
«Perché è stata una stronza», bisbiglia a disagio.
«Con te? Chi?», continua a chiedere Mallory.
«Con Peter», risponde Diana.
«L'ha rubato a Lucy», aggiungo con voce neutra.
Diana solleva lo sguardo e mi guarda. A me non ha detto il vero motivo del suo gesto avventato. L'ha fatto per Peter?
Mallory si schiarisce la gola. «A proposito di nostro fratello...»
Trattengo un gemito e mi passo nervosamente una mano tra i capelli. Mi alzo di nuovo in piedi, gli occhi scattano sulla scatola bianca che fino a qualche ora conteneva il mio pasto.
«Credo tu debba parlargli. Intendo, parlargli sul serio, da sorella maggiore e non da mamma senza cuore. Ne abbiamo già una, grazie», mi dice con un sorriso finto.
«Non credo lui voglia parlarmi», ribatto.
«Codarda», pronuncia tra i denti.
Senza dire una parola esco dalla stanza e sbatto la porta alle mie spalle.
Attraverso a passo svelto il corridoio, saluto con un cenno del mento il custode, e poi mi dirigo verso l'atrio.
Mi sembra di trascinarmi sulla testa una nuvoletta scura che lancia fulmini in tutte le direzioni, perché ogni singolo studente si gira per guardarmi e inizia a parlottare con l'amica o l'amico accanto.
Cerco di ignorare i loro sguardi ed esco fuori soltanto per ritrovarmi puntati addosso altre decine di sguardi curiosi.
Oh, al diavolo!
«Sì, è la sorella di quel ragazzo biondo», dice a bassa voce una ragazza dietro di me. Pensa forse che io non sia in grado di sentirla?
«La gente a volte si uccide per cose simili. Come ha potuto fare una cosa simile a suo fratello?», dice un'altra.
Involontariamente mi lascio sfuggire a voce alta: «Raderei al suolo questo posto insieme a tutti voi.»
Qualcuno appoggia un braccio sulle mie spalle e qualcun altro ridacchia divertito.
«Salveresti almeno me?», chiede Asher attirandomi di più verso il suo corpo.
Ryan continua a ridere, ma smette subito non appena gli scocco un'occhiata omicida.
«Dovrai farci l'abitudine», mi dice.
«Sono sempre così pettegoli?», gli chiedo.
Ryan fa spallucce. «Credo di sì. Con il tempo però impari a non sentirli più. Diventano invisibili se tu vuoi che lo siano. Capisci quello che sto dicendo?» solleva entrambe le sopracciglia in attesa di una risposta.
Mi limito ad annuire.
«Li odi davvero così tanto?», chiede Asher massaggiandomi la nuca.
«Non sai cosa darei per vederli piangere», commento con una vena ironica nella voce.
Ryan scuote la testa. «Fidati, Raven, tra un po' smetteranno di parlare di te perché troveranno un soggetto più interessante. È così che funziona in questo posto.»
«Forse è arrivata l'ora che qualcosa cambi.»
«Impossibile», ribatte Asher. «Credimi.»
«Niente è impossibile», mi libero dalla sua stretta. «Vorrei che la smettessero o che fossero al posto di Peter.»
«Accidenti se sei vendicativa», Ryan fischietta e poi con un cenno della testa indica Peter. «Forse a lui non farebbe piacere.»
«Fortunatamente io non sono come lui», dico mordace.
«E come sei?», cinguetta Lucy alle nostre spalle mentre scende le scale.
«Potrei fare sembrare la tua morte un banale incidente. Mettimi alla prova», le ringhio contro.
Lei sorride.
Asher sussurra al mio orecchio: «Vacci piano con le parole. Qui è pieno di figli di avvocati, magistrati, giudici e persino sbirri. Ti sbranerebbero.»
«Non ho paura», dico, il suono martellante del mio cuore mi riempie le orecchie.
Bugiarda.
Hai paura. Lo sanno tutti che hai paura di perdere i tuoi fratelli.
Ignoro quella stupida vocina nella mia testa e mi concentro su Peter. Devo parlare con lui.
Come se l'avessi chiamato col pensiero, lui incrocia il mio sguardo. I suoi occhi si tuffano nei miei ma quando inizio ad avanzare nella sua direzione, lui saluta Matteo e se ne va.
I miei piedi si fermano in automatico.
Pensa, Raven, pensa. Cosa farebbe Peter per tirarti su?
Diamine, dovrei corrergli dietro con una tazza di tè e un biscotto?
E mentre questo stupido pensiero si insinua nella mia testa, realizzo che è esattamente ciò che farò.
Devo solo procurarmi una tazza di tè e un biscotto.
Mentre la ragazza dietro al bancone riempie il bicchiere di carta con del tè fumante e mette il coperchio di plastica, io realizzo che in realtà non è ciò che Peter vorrebbe tenere tra le mani.
Non ama le bevande nei bicchieroni di carta e in realtà, adesso che ne ho uno davanti, mi ricordo anche delle innumerevoli volte in cui ha cercato di spiegarmi la differenza tra tè e tisana e di tutte le volte in cui ha definito la tisana tè soltanto per assecondarmi, perché ho sempre dato per scontato che fossero la stessa cosa. Ancora oggi lo penso.
«Potrei prendere in prestito una tazza? Insomma, una vera tazza?», le domando gentilmente.
La ragazza mi guarda un po' stralunata, valuta la mia richiesta e poi annuisce non troppo convinta.
«Gradirei una tisana. Sai, una di quelle rilassanti», cerco di spiegarle.
«Sì, ho presente. Io le bevo spesso», mi risponde trattenendo un sorriso.
Picchietto le dita sul bancone nero lucido mentre attendo che me la prepari.
«Fammela bollente, per favore», le dico con un sorriso incerto.
Annuisce però continua a guardarmi con sospetto. Le sembro una di quelle ragazze snob, che di solito si siedono al tavolo e chiedono un caffè macchiato, in tazzina di vetro, con della panna, una spolverata di cacao e una voglia irrefrenabile di rompere il cazzo di prima mattina?
«Attenta, anche se l'afferri dal manico rischi di ustionarti ugualmente le dita», mi avverte con estrema gentilezza.
«Grazie, non fa niente», le rispondo afferrando il manico rosa. La ragazza mi fissa con i suoi occhi verdi e poi assottiglia le labbra e mi saluta con un cenno del capo.
«Grazie ancora.»
Esco dalla caffetteria e attraverso il cortile con la tazza tra le mani mentre cerco di non farla raffreddare e di non versarne il contenuto.
Ho le dita rosse, ma non posso fermarmi. Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e mando un messaggio ad Azriel, chiedendo notizie su nostro fratello.
È in biblioteca.
La gente mi guarda male. Penseranno che sono la sorella malvagia.
Eppure sto girando come una matta da una parte all'altra con una tisana tra le mani, che non ho intenzione di bere.
Salgo le scale rapidamente, la bevanda per fortuna è ancora calda.
Entro in biblioteca, intravedo subito la testa riccioluta di Peter. È seduto vicino alla finestra, la testa china. A vederlo sembra voglia sparire tra le pagine di quel libro per quanto è immerso nella lettura.
Sposto la sedia e mi accomodo davanti a lui, posando la tazza sul tavolo.
Solleva appena lo sguardo.
«È ancora calda», gli dico con un filo di voce. Infilo la mano nella tasca ed estraggo un biscotto con gocce di cioccolato e noci caramellate, avvolto in un tovagliolo.
«Vengo in pace», gli dico.
Lui prende il biscotto e alza gli occhi al cielo. «Ha le noci. È il tuo preferito», mi fa presente.
«Sì, be', speravo lo dividessi con me», ammetto con un sorrisetto malizioso.
«Sei tremenda», borbotta. Spezza il biscotto a metà e me ne offre un pezzo.
«È una vera tazza», constata mentre picchietta le dita sulla ceramica. Non che sia una cosa così strana e difficile da reperire. Ma il suo stupore mi provoca una fitta di gioia. Significa che ci ha fatto caso, ha colto questo piccolo dettaglio.
«Sì», confermo.
«Dov'è la tua tisana?», chiede e mi stringo nelle spalle.
«Non ne avevo voglia», rispondo.
Di solito non sono brava bere bevande calde. Mi brucio sempre la gola, per questo Peter mi rimprovera sempre.
Soffia dentro la tazza e poi sorride: «Manda giù il primo sorso», offre, spingendola verso di me.
«Mi accontento del biscotto.»
Peter mi fulmina con lo sguardo. «Bevi, stronzetta.»
Nascondo il sorriso dietro l'orlo della tazza e sento il liquido caldo riversarsi nella mia gola.
«Sono venuta qui per scusarmi. Ho sbagliato, ma non è come pensi, Peter.»
Una volta mi ha detto che i Parker sono uniti. Che quando uno cade è compito dell'altro rialzarlo. E io ci sto provando, anche se sembra tutto quanto un disastro.
Io voglio che lui veda che mi sto impegnando, anche se finisco sempre per distruggere tutto.
«Lo so. Ho parlato con Azriel. Voglio dire, mi sono sfogato un po' e lui mi ha fatto riflettere. La verità è che a volte hai dei modi terribili di voler proteggere gli altri, Rav. Davvero, davvero terribili. Soltanto chi ti ama davvero riesce a farseli andare bene», mi guarda per pochi secondi e io scorgo una scintilla di comprensione nei suoi occhi.
«Mi ritengo fortunata allora», sussurro e rimando giù il senso di colpa. Non bastano le scuse. Tutta la scuola parla di Peter e di come Lucy lo abbia umiliato davanti a tutti.
Persino in questo momento qualcuno parla alle nostre spalle.
«Non fare niente di stupido, va bene?», Peter mi afferra la mano quasi come se mi avesse letto nel pensiero.
«Va bene.»
«Passerà», muove una mano con fare drammatico davanti al viso.
«Davvero?», gli chiedo.
«Matteo dice di sì.»
Non so ancora se Matteo abbia una buona o cattiva influenza su mio fratello, ma lo scoprirò con il tempo.
«Fratelli come prima?», allungo una mano verso di lui.
Me la stringe. «Fratelli come prima.»
«Diana ha rubato per la prima volta», bisbiglio e lui per poco non mi sputa in faccia la tisana. «Per te.»
Adesso è talmente rosso in faccia che sembra sul punto di scoppiare. «Per me?»
Annuisco.
«Perché mai?», chiede sconvolto.
Mi alzo in piedi. «Dimmelo tu», gli faccio l'occhiolino e rimetto la sedia a posto. «Quando finisci, ricordati di riportarmi la tazza. L'ho presa in prestito.»
«Hai preso in prestito una tazza?», domanda, le sue sopracciglia per poco non arrivano all'attaccatura dei capelli.
«Non tutti hanno un fratello schizzinoso come il mio», lo prendo in giro e lui in cambio mi fa un gestaccio.
«Ti voglio bene, idiota», mi dice.
«Lo so.»
Mentre esco dalla biblioteca e scendo le scale, in fondo al corridoio noto la figura inconfondibile di Elias.
Si gira come se sapesse avesse avvertito la mia presenza. Mi guarda. Si appoggia con la spalla al muro e incrocia le braccia al petto. Le persone invadono la nostra traiettoria, danzano davanti ai nostri occhi come moscerini fastidiosi. Ma lui continua a mantenere lo sguardo fisso su di me. Nulla lo infastidisce e tutto lo diverte. Lo odio.
Prende il cellulare tra le mani e poco dopo sento il mio vibrare dentro la tasca.
Noto la notifica sullo schermo e apro il messaggio che mi ha inviato.
“Riconosco lo sguardo soddisfatto di una ragazza che ha mangiato".
Devo mordermi il labbro per non sorridere.
"Ho mangiato soltanto perché non voglio più averti tra i piedi".
Legge il messaggio e sorride.
Mi scrive di nuovo.
“E dimmi, dove vorresti avermi se non tra i piedi, tra le gambe magari?”
Rileggo più volte il suo messaggio, poi digito rapidamente una risposta.
“Sei fidanzato. Fai schifo e fai pena. Pazzo disperato”.
Si morde il labbro con fare divertito.
“Infatti sei la mia ragazza o te lo sei forse già dimenticata? Ladruncola smemorata”.
Chiude la schermata e si gira dall'altra parte.
Sono di nuovo una nuvoletta nera che sfuma davanti ai suoi occhi.
Diana si inserisce con un movimento grazioso tra me e la porta del bagno. Incrocia le braccia al petto, indispettita.
«Credo di averla fatta infuriare. O forse mi sono guadagnata la sua ammirazione. Ma è sempre stata così assente?»
Di solito capisco le cose al volo, ma oggi ho qualche difficoltà a mantenere la concentrazione.
I miei neuroni si mettono in moto. Diana batte ripetutamente il piede a terra. Soltanto quando noto il suo sopracciglio alzato e la sua espressione impaziente capisco che la persona di cui sta parlando è Raven. Giusto. Il nostro accordo, lo scambio di informazioni.
«Oh», dico, chiudendo gli occhi per due secondi mentre penso a cosa rispondere. «Non lo so. Non è così semplice capire una come lei, ma questo lo sai già.»
Diana si schiarisce la gola. «Forse nasconde davvero qualcosa. Dovrei indagare più in profondità?», sembra sinceramente coinvolta, anima e corpo, in questa sua missione. E io adesso mi pento di averla trascinata in questa situazione del cazzo. Quando lo scoprirà Raven, preparerà una fossa per entrambi.
Ma in questo momento, anche se le dicessi di no, sono sicuro che lo farebbe comunque, scaverebbe ancora e ancora perché la sua curiosità aumenta a dismisura e io non sono in grado di placarla, anzi la sto alimentando senza volerlo.
Diana vorrebbe imparare a conoscere bene Raven, ma non si rende conto che in questo modo rischia di inimicarsela per il resto dei suoi giorni.
«Adeline ti lascerà in pace e quindi il nostro accor-», faccio per dire.
I suoi occhi si illuminano. «Davvero?», strilla gaia.
«Sì, davvero.»
Sospiro indicando la porta alle sue spalle. Devo allontanarmi da lei.
«Oh, sì, giusto! Devi fare pipì?»
Corrugo la fronte. «Diana, davvero vuoi saperlo o forse il nervosismo ti fa fare domande idiote?»
«Direi la seconda», ridacchia e con una mossa fulminea si sposta di lato.
La saluto con un cenno del capo, ma lei aggiunge: «Tra Raven e Asher credo stia nascendo qualcosa di più intimo.»
Sento un muscolo guizzarmi sulla mascella.
«Quest'informazione è irrilevante», la liquido con un cenno della mano, poi mi catapulto in bagno e chiudo la porta alle mie spalle. Almeno qui non verrà a darmi il tormento.
Mi posiziono davanti allo specchio, appoggio i palmi sul lavello e piego il busto in avanti serrando gli occhi.
Oggi il mal di testa si fa sentire più che mai.
«Cazzo», esclamo e con la mano sinistra mi massaggio le tempie, prima l'una e poi l'altra.
Vorrei semplicemente stare al buio e in silenzio, ma Adeline mi ha riempito la testa di stronzate per ore, dannazione.
Non la smetteva di parlare. La risata sguaiata di Lucy rimbomba ancora nella mia testa. Vorrei colpire la fronte contro il muro di fronte a me fino a spaccarmi il cranio.
Mi sento così da quattro giorni. Li ho contati perché è stata l'ultima volta che ho incrociato volontariamente lo sguardo di Raven.
Estraggo il cellulare dalla tasca, apro la galleria e cerco la foto che le ho scattato. Ho scoperto a malincuore che guardare i suoi occhi mi rilassa quando sono stressato. Ma guardare troppo gli schermi mi fa male. In questo momento dovrei spegnere il cellulare e non pensarci più. Ma eccola qui, ipnotizzante e di una bellezza straziante.
La ingrandisco e guardo il colore dei suoi occhi, lo specchio su cui si affaccia la tempesta. Quella dannata tempesta che vorrei sfiorare soltanto per sapere cosa si prova a starle così vicino, cosa si prova a invadere la parte più spaventosa e caotica della persona che detesti.
Il mio odio non la rende brutta, proprio per niente. Il mio odio le fa quasi da riflettore. Insopportabilmente affascinante.
Odio che debba essere lei la mia cazzo di ossessione.
Perché non riesco a togliermela dalla testa?
«Amico, pare tu abbia visto un fantasma. Sei pallido come un cadavere», mormora Ryan alle mie spalle, facendomi spaventare. «Ti stavo cercando.»
«E mi hai trovato», biascico e blocco rapidamente lo schermo del cellulare.
«Ti senti bene?», chiede appoggiando una mano sulla mia spalla e inclinando il capo per osservarmi meglio.
«Starei meglio se ci fosse più silenzio intorno a me», rispondo guardandolo in tralice.
Ryan recepisce il messaggio e finge di chiudere la zip immaginaria sulle sue labbra.
«Mi dispiace, sto vivendo delle giornate del cazzo. Non voglio sentire nessuno», mi giustifico.
Ryan apre la bocca per ribattere ma un urlo penetrante squarcia l'aria intorno a noi. Entrambi ci giriamo verso la porta.
«Era l'urlo di una ragazza o sbaglio?», dice, ma io mi sono già precipitato nel corridoio.
Una ragazza dai capelli rossi e ricci corre con le mani davanti al viso, poi rallenta e gesticola nervosamente puntando il dito tremante verso l'altra direzione.
«Morta. È sicuramente morta. L'ha trovata lei», farfuglia tra le lacrime mentre un gruppo di studenti cerca di tranquillizzarla.
Il suo pianto e il chiacchiericcio frenetico che anima improvvisamente il corridoio mi fa desiderare di spararmi direttamente un colpo in testa.
«Amico... Ma l'hai sentita? Ha detto che qualcuno è morto», Ryan mi scuote per la spalla per farmi ritornare con i piedi per terra.
Giro la testa dall'altra parte, vedo gli studenti ammassati davanti al bagno delle ragazze.
«Abbiamo avvisato il custode», grida una ragazza. «Non so come faccia a restare in bagno. Non lascia entrare nessuno», continua a dire.
«È matta. Magari è stata lei», continuano a parlottare tra di loro.
«L'ho detto che i fratelli Parker sono strani e pericolosi», aggiunge l'altra ragazza.
La mia testa scatta verso di lei talmente veloce da procurarmi una fitta lancinante alla testa. Per un attimo vedo tutto bianco intorno a me.
«Chi?», chiedo stringendo i denti. «Di cosa state parlando? Chi c'è là dentro?»
Ryan mi dà uno strattone. «Ma allora sei proprio sordo. Cazzo, qualcuno ha tirato le cuoia in quel dannato bagno.»
I fratelli Parker... Una ragazza. Ha detto una ragazza, giusto?
«Liberate il corridoio. Fatevi da parte, tutti quanti! Ognuno ritorni nella propria stanza, avanti! Non c'è niente da vedere qui», sento la voce autoritaria di mia madre serpeggiare tra di noi.
Prima che si avvicini ulteriormente, inizio a correre verso la calca di studenti. Qualcuno piange, qualcun altro sembra sotto shock.
Mi faccio largo, spingo via tutti quelli che mi intralciano il cammino.
«Non entrare...», una ragazza serra le dita intorno al mio polso. «Lei...», non riesce a finire la frase. Si tappa la bocca con una mano e continua a piangere in silenzio.
«Levatevi dal cazzo», grido e poi entro, fermandomi di colpo, come se qualcuno mi avesse dato un pugno nello stomaco.
Abbasso lo sguardo e noto un paio di converse macchiate di sangue, poi sollevo lentamente gli occhi verso la figura immobile davanti a me.
Seguo la sottile scia di sangue e noto finalmente il corpo esanime semi nascosto dietro la porta del gabinetto. Mi avvicino lentamente alla ragazza in piedi di fronte a me e appoggio una mano sulla sua spalla.
«Ehi», sussurro, cercando di concentrarmi su di lei e non sulla scena raccapricciante davanti a noi.
Gira lentamente la testa verso di me, trattengo il respiro quando i miei occhi incontrano i suoi. «Raven...», dico con un filo di voce.
Sembra in uno stato di trance, i suoi occhi sono completamente pieni di parole che non riesce a pronunciare a voce alta.
Abbassa lo sguardo sulle sue scarpe, poi le sfugge un suono strozzato, sembra un gemito di dolore.
«Sei ferita?», le chiedo. Sento il ticchettio dei tacchi di mia madre dietro di noi.
«Fuori! Uscite fuori immediatamente», ordina. «Dannazione, Elias, cosa diavolo ti è saltato in mente? Avanti, esci!», mi afferra per il gomito e mi trascina verso la porta, ma le mie dita afferrano il polso di Raven con fare brusco.
«Non me ne vado senza di lei», le dico. «Mamma, è sotto shock», mi libero dalla sua presa.
«Parker, mi hai sentito? Devi uscire fuori», la voce di mia madre è quasi rauca. «Perché sei rimasta qui? Sei stata tu? La conoscevi?»
«Ma che cazzo?!», ringhio avvicinandomi di un altro passo. «Cosa cazzo hai detto?»
Mi fulmina con lo sguardo e io mi zittisco. Non è né il momento né il luogo adatto per dare di matto.
Raven indietreggia, lasciando l'impronta rossa della sua scarpa sulle piastrelle bianche.
Un altro gemito strozzato.
«Sei ferita?», domanda mia madre.
La osservo dalla testa ai piedi, non c'è sangue sui suoi vestiti, non sembra ferita. Allora perché...
Mi sposto un po' di più, fino a raggiungere la sua posizione esatta e mi inginocchio davanti a lei per slacciarle le scarpe.
«Va tutto bene, le lasciamo qui», le spiego e lei annuisce quasi in modo impercettibile.
Mia madre impartisce una serie di ordini agli studenti ficcanaso. Il suo cellulare squilla. Risponde, grida rabbiosamente ed esce dal bagno.
«Chiudi gli occhi, non devi più guardarla. Avanti, volpina. Permettimi di portarti fuori di qui», la prego e riduco gli occhi a una fessura sottile mentre cerco di mettere a fuoco la sua figura. Il mal di testa non mi dà tregua.
Raven si toglie velocemente le scarpe e balza all'indietro.
«Lei-», la indica. «Lei mi aveva offerto il suo muffin. È lei», le si spezza la voce. Non credo di averla mai vista così vulnerabile.
Riempio il suo campo visivo con la mia presenza e la mia mano raggiunge la sua nuca. L'attiro a me e le faccio appoggiare la testa al mio petto, guidandola lentamente verso l'uscita.
«Tranquilla», le dico.
Mia madre mi guarda. «Più tardi facciamo i conti, io e te. Ciò che hai fatto è inaccettabile e da irresponsabili. La polizia sta arrivando e quando sarà qui vorrà parlare con-», indica Raven con un cenno del capo. «Dicono sia stata lei a trovarla e ad aver chiamato i soccorsi. Ha persino impedito alle altre ragazze di entrare.»
«Forse perché c'è un cazzo di cadavere là dentro!», grido spazientito, Raven sussulta.
«Tieni a freno la lingua!», dice in un sibilo tremolante. «Una ragazza ha perso la vita nella mia scuola. Lo dovrò comunicare ai suoi genitori. E sai qual è la cosa terribile, Elias? Che non so nemmeno il suo nome. Che forse non saprò mai i nomi di tutti gli studenti, eppure toccherà sempre a me ripulire il nome di questa scuola. La sua reputazione dipende principalmente da me», cerca di darsi un tono, poi solleva il mento e indossa nuovamente la maschera fredda che le ha concesso innumerevoli volte di non crollare davanti agli altri. Proprio come fa Raven.
D'un tratto mi rendo conto che è una situazione di merda per tutti e che dovrà affrontare tutto questo da sola.
Raven se ne sta in disparte con un'espressione pensierosa sul viso.
«Falla stare tranquilla. Portala nel mio ufficio.»
«Posso rimanere con lei?», le chiedo a bassa voce.
«So come vi comportate di solito voi due. Ti chiedo di tranquillizzarla e non di turbarla ulteriormente», mi punta il dito contro.
«Se succederà, allora sarai liberissima di buttarmi fuori da questo posto e togliermi tutto», le dico tra i denti, poi le do le spalle e lascio cadere la tensione mentre mi avvicino a Raven.
A malapena mi guarda.
«Ti va di andare in un posto?», le chiedo mantenendo un tono neutro.
«Nell'ufficio di tua madre, immagino», risponde. In realtà avevo intenzione di portarla fuori da qui, ma potrei peggiorare la situazione, quindi annuisco e mi do del coglione mentalmente.
Gli studenti sono tutti nelle proprie stanze. Il corridoio è vuoto.
Abbasso lo sguardo sui suoi piedi. Indossa dei calzini con dei disegni strani.
«Non sono stata io», mi dice con voce rotta. Qualcosa dentro di me si spezza. Odio il modo in cui lo dice e odio ancora di più il fatto che lei cerchi di giustificarsi con me.
«Lo so», le dico.
«Si è tagliata entrambi i polsi», sussurra.
«Cristo santo, volpina... Per quanto tempo sei rimasta lì a fissarla?»
Si stringe nelle spalle e poi, con la solita freddezza, risponde: «Sto bene. Non ho bisogno di un babysitter.»
«Certo che stai bene», ribatto.
«Davvero», insiste.
«Come dici tu.»
Mi guarda, lo sguardo da dura. «Io sto bene.»
La guido verso l'ufficio di mia madre. «Non sentirti in colpa.»
Spalanca gli occhi. «Cosa?»
«So cosa volevi dire. Tu stai bene, ma lei no. Non voglio sembrarti menefreghista, né insensibile e nemmeno egoista, però non puoi sentirti in colpa per questo», apro la porta e la spingo delicatamente all'interno.
«Io-»
«Non puoi», chiudo la porta e le indico la poltrona.
Obbedisce e va a sedersi. Infila le mani tra le cosce e muove nervosamente i piedi.
Trascino l'altra poltrona davanti a lei e mi siedo a mia volta.
Ci guardiamo negli occhi per un istante.
«Raccontami, volpina. Perché tu?»
Si morde l'unghia del pollice.
Mi piego in avanti con i gomiti sulle cosce per esserle più vicino.
Si prende un secondo, poi inizia a narrare come sono andate le cose, quasi come se si fidasse davvero di me.
«C'era un foglio attaccato alla porta, il bagno era fuori servizio. Ma dovevo davvero fare la pipì urgentemente ed ero in ritardo per la lezione e io-»
Aspetto.
«E io sono entrata ugualmente, sperando che nessuno mi vedesse. E poi, appena sono entrata, ho visto un corpo. In quel momento, l'ho guardata negli occhi-», si ferma di nuovo. «E mi fissava... Lei-»
«Era ancora viva?», le chiedo dolcemente.
Scuote la testa. «No. Non era viva. L'ho capito soltanto dopo.»
«Cazzo...», mi passo le mani tra i capelli.
«Avevo lasciato la porta aperta, una ragazza è entrata dopo di me e ha gridato. È corsa via e le persone continuavano a sbirciare e-»
«Perché sei rimasta là dentro?», le chiedo e lei si morde il labbro, quasi in preda alla vergogna.
«Per mandare via gli altri. Non volevo che la guardassero.»
Voleva risparmiare loro questo incubo, eppure lei è rimasta a guardare. Immobile come una statua. Avrebbe potuto girarsi, uscire e mettersi davanti alla porta. Avrebbe potuto impedirlo in un modo diverso.
No, qualcosa non torna.
«Perché sei rimasta lì?», le chiedo di nuovo.
Lei solleva di scatto la testa. «Sei sordo per caso?»
«No, semplicemente ti conosco. Devo farti la stessa domanda un milione di volte prima di ricevere una risposta sincera da parte tua.»
Mi guarda dubbiosa. «E come fai a sapere quando sono sincera?»
Mi lascio sfuggire un mezzo sorriso. «Non posso condividere un'informazione simile con te, mi dispiace. È di vitale importanza per me», le dico e vedo le sue labbra fremere.
«Io non la conoscevo», riprende a dire, chinando la testa. «Ma è stata gentile con me e io-»
"E tu no", finisco la frase per lei nella mia mente.
Rabbrividisce.
So che l'ha pensato.
Ecco perché si sente in colpa. Ed ecco perché continua a prendere le distanze dagli altri ed è fredda con tutti.
Non posso rivelarle che per me è come un libro aperto a volte, altrimenti sarebbe in grado di evitarmi per il resto della sua vita. E al momento non è esattamente ciò che voglio.
Ma dentro di me desidero sapere cosa diamine le è successo in tutti questi anni. Cosa l'ha fatta diventare così? È merito dei suoi genitori?
«Smettila di provare a psicanalizzarmi. Non ne hai le competenze», sbuffa.
La guardo perplesso. «Scusami?»
«Fai sempre questa faccia quando pensi troppo e cerchi di mettere insieme i pezzi.»
Non so che faccia io abbia in questo momento, ma è un dettaglio che lei ha notato, quindi forse non sono l'unico a prestare attenzione alle piccole cose. O ad osservarla a lungo.
Anche io ho notato il modo in cui gonfia le guance quando vuole insultarmi.
Faccio una smorfia. È normale notare simili dettagli. Anzi, è quasi fondamentale farlo quando odi così intensamente qualcuno.
«Sei disgustato da te stesso?», mi chiede.
«No.»
Sì.
«Ti offro qualcosa», dichiaro alzandomi in piedi e andando verso la scrivania di mia madre. Apro un cassetto dopo l'altro finché non trovo un pacco di biscotti.
«Ah, non era una domanda?»
Alzo gli occhi al cielo. «No. E non puoi neanche rifiutare.»
Inarca un sopracciglio. «Sono di tua madre?», chiede.
«No», dico.
«Hai la tua scorta personale di biscotti nell’ufficio di tua madre? Che privilegiato.»
«No.»
«Allora di chi sono quei biscotti?»
«Tuoi», le lancio la confezione e l'afferra al volo.
«Perché lo fai?», mi chiede confusa.
«Perché anche il mio odio ha un limite», le dico distrattamente. «E tu devi mangiare.»
«Qual è il limite?»
«Il dolore», dico.
Il tuo. Il tuo dolore è il mio limite in questo momento, ma non te lo posso confessare perché andrebbe contro tutto ciò che penso di te.
«Una ragazza è morta e io sto qui a mangiare i biscotti che hai fregato a tua madre», scoppia a ridere, ma non è per niente una risata divertita. «Il modo in cui è avvenuto… Tutta questa situazione è… Non lo so, è come se il suo gesto non avesse importanza. E invece ne ha», le tremano le mani e la voce. Traccia con l’indice il contorno di un tatuaggio sul avambraccio e chiude gli occhi.
Ventidue tatuaggi. Ventidue sono le volte in cui lei… cosa? Cosa sta nascondendo?
«Ti assicuro che non ritornerà in vita se smetterai di mangiare», le dico con una punta di fastidio. La morte di una persona non mette in pausa la vita. Non la nostra. È egoista da parte mia pensarlo? Cadiamo come soldati in un campo di guerra, uno dopo l’altro. È soltanto questione di tempo. Non tutti vincono certe battaglie.
«Lo so.»
«Devi mandare giù qualcosa. Il nostro cervello usa il venti percento della nostra energia, ha bisogno all'incirca di quattrocento calorie al giorno per funzionare bene e la maggior parte di queste proviene dagli zuccheri. Quindi mangia quei dannati biscotti, perché prima o poi crollerai», sospiro e mi siedo di nuovo davanti a lei. Mi guarda come se volesse defenestrarmi. Mi mancava questo suo sguardo truce.
«Per favore», aggiungo.
«Adesso mi fai pure la lezioncina?», chiede mentre si infila in bocca un biscotto.
«Solo quando lo reputo necessario». Le sorrido.
I miei occhi scendono sul suo collo e analizzo la sua collana, il ciondolo a forma di volpe che le solletica la pelle.
«Carina», gliela indico.
«Grazie», infila due dita sotto la piccola striscia di tessuto nero. «È ciò che ne rimane della tua camicia», lo rivela come se fosse la cosa più normale al mondo.
Sbatto più volte le palpebre, confuso.
«Hai detto di averla bruciata», le ricordo.
«L'ho fatto, infatti.»
«La collana...»
«L'ho fatta io.»
«Con il tessuto della mia camicia», ripeto sconvolto.
«Esatto.»
«Perché?»
«Per ricordarmi che il mio nemico più grande sei tu», ammette sollevando le spalle con nonchalance.
«E hai bisogno di sentirmi addosso per ricordarti quanto mi odi?», le chiedo mentre le fisso come un maniaco il collo.
Si alza in piedi e a me si alza un'altra cosa.
Quando apre la bocca per rispondere, bussano alla porta.
Tempismo perfetto in un momento di merda.
Sto diventando pazzo.
Raven si irrigidisce e mi rivolge uno sguardo preoccupato.
Faccio un respiro profondo. «Non vado da nessuna parte.»
Mi ringrazia con una smorfia.
«Cosa c’è? Sei disgustata da te stessa?», domando mentre mi dirigo verso la porta. Ha bisogno di me e lo sa. E, proprio come me, non riesce a sopportarlo.
«Troppo», risponde, schiarendosi la voce.
«Già, anche io, da me stesso.»
«Lo so già.»
«Volevo ricordartelo.»
«Ricordarmi cosa di preciso?», si acciglia.
«Che l'odio e il disgusto non bastano a mandarmi via da qui ora.»
Mi guarda con i suoi occhioni azzurri e rimango intrappolato al loro interno per qualche secondo, incapace di comprendere se per me questo sia l'inferno o il paradiso.
Ciao raghi ❤️ alcuni di voi mi hanno chiesto se ho abbandonato la storia e la risposta è ovviamente no. È semplicemente estate anche per me e diciamo che con questo caldo a volte non ho voglia neanche di campare figuriamoci si scrivere, infatti sto leggendo pure di meno! Ma sicuramente piano piano riprenderò i miei vecchi ritmi e porterò avanti la storia.
Spero vi siano mancati :) alla prossima e grazie di avermi aspettata❤️
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