12. Mi hai davvero scattato una foto?
Taylor Swift – The Albatross
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Seguo le lancette dell’orologio con insolito interesse; mi asciugo i palmi delle mani sul tessuto dei pantaloni e faccio un respiro profondo.
Credo di essere nella merda fino al collo.
Mi muovo in preda al nervosismo sulla sedia, mentre il continuo battere sulla tastiera della segretaria mi fa compagnia.
Ogni tanto le sue dita si fermano e lei si concede una piccola risata.
La osservo con la coda dell'occhio: il caschetto nero, abbellito da un cerchietto rosso, incornicia il suo sguardo solare. Indossa una camicetta nera a pois bianchi e dei pantaloni a sigaretta bianchi. Ogni tanto fa avanti e indietro tra la sua scrivania e il distributore automatico nel corridoio. Lo sguardo è incollato sullo schermo del cellulare e ha un sorriso disgustosamente allegro sulle labbra.
Si getta di nuovo con fare pigro sulla sedia girevole e inavvertitamente il suo sguardo si posa su di me.
E io, anziché tirare fuori una dose minima di buonsenso e girare il capo dall'altra parte per non innescare in lei un senso di disagio, continuo a fissarla come se fosse lei la causa di tutti i miei problemi e stessi per dare a fuoco questo posto.
Spegne la schermata del cellulare, lo getta tra le scartoffie, e mi fissa a sua volta, questa volta con più curiosità.
«Raven Parker, vero?», chiede con una voce così gentile da farmi rabbrividire.
Annuisco.
«Dovrai attendere un altro po'», mi informa.
«Ma dai, Sherlock», borbotto. Il mio cellulare inizia a squillare. Guardo il numero sconosciuto sullo schermo e dopo un paio di secondi decido di rispondere.
«Chi parla?», chiedo.
«Raven! Finalmente sono riuscito a contattarti. Dove sei? Dove siete tutti?», chiede papà, la voce asmatica.
Mi pietrifico.
«Raven, tesoro, devo saperlo. Siete i miei figli, ne ho tutto il diritto. Dov’è Mallory? Posso parlarle? Sta bene?», chiede.
«Siamo in quattro, cazzo. Non esiste soltanto Mallory», ribatto tra i denti.
«Certo, lo so, e voglio bene a tutti in egual misura. Ma vorrei parlarle per due secondi», insiste.
«Non c’è. Credo che dovrai cavartela da solo questa volta, papà. Buona fortuna.»
«Non riattaccare! Raven, ascolta, ci sono delle persone che-»
«Fanculo», gli dico.
«Come diavolo osi? Vi ho cresciuti, adesso mi dovete un favore. Raven, ascolta. Mi devi dei soldi. Cazzo, tutti voi mi dovete dei soldi. Mi ascolti?»
Registro mentalmente le sue parole e sorrido.
«Io non ti devo proprio un bel niente. Ciao», sto per attaccare.
«È così che saluti tuo padre?», grida.
«No, hai ragione», ridacchio. «Va’ all’inferno», faccio una breve pausa. «È così che lo saluto», chiudo la chiamata.
Batto rapidamente il piede a terra e cerco di calmarmi.
La segretaria si schiarisce la gola. La guardo di traverso.
Si sporge oltre la scrivania e mi fa una breve e lenta radiografia. «Come mai non indossi la gonna?»
Alzo gli occhi al cielo. «Il materiale mi provoca prurito. È terribile grattarsi le chiappe durante le lezioni e fare finta di niente.»
Assottiglia le labbra, sopprimendo il piccolo sorriso. «Sì, immagino di sì. Quelli sono più comodi?», indica i miei pantaloni.
«Decisamente», rispondo. «A quanto pare, in questo posto date più importanza al modo in cui decoro la mia pelle e non al materiale dell' uniforme da voi fornita che irrita la mia pelle», divarico di più le gambe e appoggio i gomiti sulle ginocchia.
La segretaria arrossisce e si fa di nuovo piccola sulla sedia. Si rifugia in un breve silenzio meditativo, poi lo sguardo le si illumina all'improvviso e si rivolge nuovamente a me: «Potrei suggerire un'altra alternativa, se me lo permetti. La preside Bailey si fida abbastanza di me e delle mie sagge proposte.»
«Per esempio?», domando.
«Non hai una gonna interamente nera e non troppo corta? Insomma, potresti indossare qualcosa di tuo.»
Il suo entusiasmo si spegne non appena dico: «Sai..», mi fermo. «Mi chiamo Sarah», dice e io riprendo la frase: «Sai, Sarah, è da quando sono arrivata in questo posto che continua a frullarmi nella testa una domanda. Posso?»
Lei mi fa cenno di andare avanti.
«L'obiettivo di questa scuola qual è? Sfornare gentiluomini che si puliscono il sedere con banconote da cento oppure dei depravati? Credo fermamente che le ragazze siano in serio pericolo in questa scuola. Ho beccato almeno dieci ragazzi diversi intenti a sbirciare sotto la mia gonna qualche giorno fa. Siete sicuri che le vostre temutissime regole vengano davvero rispettate?»
Sarah mi guarda a bocca aperta. Mi guarda con occhi velati di sorpresa ma in realtà celano anche un giudizio pungente. So cosa vorrebbe dirmi: che sono forse troppo irrispettosa e cinica, o forse una piantagrane, come mi definiscono in tanti.
Si porta una ciocca dietro l'orecchio, poi apre il cassetto della sua scrivania, estrae qualcosa e si alza in piedi.
Mi aspetto che mi rifili anche lei la solita filippica non richiesta. Alliscia con cura i suoi pantaloni e viene verso di me.
Mi si ferma davanti, gli occhi indulgenti e il sorriso appena accennato.
«Avanti, urlami contro anche tu», mormoro, spostando lo sguardo da un'altra parte.
Allunga la mano verso di me e io, noto prima le sue unghie corte e curate, e poi la cosa che stringe tra le dita.
Una barretta al cioccolato.
«Al contrario di ciò che dicono gli altri, sono fermamente convinta che quelli come te meritino un dolcetto e non un rimprovero», mi strizza l'occhio e mi incita ad accettare la barretta.
L'afferro con sguardo riluttante. «Perché? Ti faccio pena?», chiedo.
Sarah scuote energicamente il capo. «Tutt'altro, cara. Sei un po’ tesa, lo vedo. Se ti può fare stare meglio, sappi che io per calmarmi guardo di nascosto qualche episodio di 2 Broke girls. Cerca di mantenere il segreto. È vietato farlo durante l’orario lavorativo», mi fa l’occhiolino.
La guardo frastornata. «Sinceramente non capisco.»
Sarah si stringe nelle spalle. «Forse perché non c'è nulla da capire.»
Mi regala un altro gentile sorriso prima di barricarsi nuovamente dietro la sua scrivania.
«Io guardo film di guerra quando mi annoio. Almeno mi fanno provare qualcosa», ammetto un po’ timorosa. «Mi piace l’adrenalina.»
Lei mi sorride con aria comprensiva.
Guardo la barretta e sfioro con i polpastrelli l'involucro rosso che l'avvolge.
Forse davvero non c'è nulla da spiegare questa volta… ma allora perché il rimbombo di quella fastidiosa domanda risuona nella mia testa?
Come il tic tac fastidio di un orologio che scandisce i miei ultimi secondi di pace, così la domanda Perché mi accompagna fino al momento in cui la porta dell'ufficio della preside si apre e vedo uscire un ragazzo a testa bassa.
Lo sguardo di Freya passa in rassegna il corridoio e poi si ferma su di me. Istintivamente tiro indietro le spalle e sollevo il mento.
Non dice nulla, ma con un braccio mi fa cenno di entrare. Il suo gesto autoritario non accetta alcuna replica, quindi mi alzo in piedi e cerco di mantenere la calma mentre eseguo l’ordine.
«Per favore, chiudi la porta», dice con tono più gentile di quanto sperassi.
Faccio come richiesto e mi siedo sulla poltrona.
Freya puntella i gomiti sulla scrivania, intreccia le dita delle mani sotto il mento e mi studia silenziosamente.
La guardo a mia volta.
Cosa vede? La bambina che faceva i dispetti a suo figlio, la ragazza combinaguai oppure la figlia di un alcolizzato e di una madre che è scappata in un altro paese, mollandoci qui?
«Immagino tu sappia perché sei qui, giusto?», rompe finalmente il silenzio.
«Potrei tirare a indovinare», rispondo con un sorrisetto sghembo.
«Pensi che il nostro regolamento sia un gioco? Una stupida barzelletta che racconti agli altri per raccogliere consensi e sobillarli a fare lo stesso?», domanda solenne.
«Non amo raccontare barzellette», replico semplicemente, guardandola dritto negli occhi.
«Il custode ci ha riferito ciò che ha visto ieri sera, Raven», pronuncia il mio nome con troppa confidenza, quasi come se avesse smesso per pochi secondi di indossare i panni della preside Bailey e adesso fosse semplicemente Freya, la donna che a volte mi accompagnava a casa o la donna che sbuffava ogni volta che io e suo figlio ci buttavamo nell'ennesimo litigio e ci scaricava infine a casa di Caroline.
Mi schiarisco la gola. «Sì, be', chiedo scusa per quello.»
Freya scuote la testa. «Asher Cohn…», mormora con fare pensieroso.
«Sì, ero con lui.»
«Non faccio alcuna differenza tra i miei studenti, ma ti suggerisco caldamente di scegliere con cura le persone che decidi di frequentare. Per questa volta mi limiterò ad ammonirti, ma la prossima volta, perché sono certa che ce ne sarà un'altra, non sarò così clemente. Rispetta il regolamento altrimenti sarai fuori da questo posto. Sono stata chiara?», si alza in piedi e si allunga sopra la scrivania come un cobra per guardarmi meglio negli occhi.
"Perché sono sicura che ce ne sarà un'altra".
Ingoio il boccone amaro e mi stampo in faccia un sorriso finto. «Ricevuto.»
Indica la porta con un cenno della testa. «Puoi andare.»
Mi alzo, ma prima di fare anche un solo passo verso la porta, mi giro verso di lei e dico: «Posso sapere chi ha pagato la retta?»
Freya non mi degna neanche di uno sguardo.
«Sono informazioni riservate. Voglio tu sappia che so chi dei quattro fratelli è il più imprudente e inaffidabile e so anche chi è il più responsabile e studioso», finge di essere impegnata nella lettura di alcuni documenti pur di non guardarmi.
La sua frase mi colpisce come un pugno dritto nello sterno e dentro di me qualcosa si rompe.
Sentiamo bussare alla porta.
«Avanti», dice.
La porta si apre e i miei occhi incontrano quelli di Elias.
«Preside Bailey, vorrei parlarle», esclama e alzo gli occhi al cielo. Il modo in cui cerca di apparire formale davanti a sua madre mi dà il voltastomaco. È uno stronzo privilegiato e lo sanno tutti, perfino lui.
«Può andare, signorina Parker», mi liquida di nuovo con un gesto sbrigativo della mano e io non me lo faccio ripetere due volte. Passo accanto ad Elias, lui mi afferra delicatamente il gomito e io sollevo lo sguardo.
Nessuno dei due dice niente, ma i suoi occhi mi scrutano con particolare interesse.
E tu? Cosa vedi?, vorrei chiedergli.
«Dopo voglio parlarti», sussurra e lascia il mio braccio. Mi catapulto fuori dall'ufficio, chiudendo la porta alle mie spalle.
Sarah mi fissa con occhi sgranati e pieni di curiosità.
Stringo ancora tra le dita la barretta che mi ha regalato. La scarto con un movimento frenetico delle mani e poi ne do un morso generoso.
Sarah mi sorride, prende un fazzoletto e me lo porge con gentilezza.
«Regali barrette di cioccolato a tutti?», chiedo.
«La gente non è molto gentile con te, non è vero?», ribatte guardandomi con uno guardo pieno di compassione.
«La vita non lo è», affermo e me ne vado.
Cammino lungo il corridoio vuoto, la rabbia fluisce dentro di me.
Intravedo un'unica figura mingherlina trotterellare verso di me. La sua coda oscilla energicamente sulla sua schiena e colpisce l’aria carica di tensione intorno a noi.
Diana si ferma davanti a me. Spalanca le braccia e mi sorride. «Avanti, buttati», dice con una vocina squillante e carica di entusiasmo.
La squadro dalla testa ai piedi, gli occhi ridotti a due fessure. «Preferisco buttarmi dal tetto di questa scuola in questo momento.»
Ha le guance rosse e poche lentiggini le costellano il piccolo naso a punta.
«Ecco, è per questo che dovresti buttarti tra le mie braccia. Vuoi un abbraccio, lo so», insiste e fa un altro passo verso di me.
«No. Ti sbagli, non ne ho bisogno», rispondo gelida.
Diana si stringe nelle spalle, ignora le mie parole e mi si getta addosso, stringendomi a sé.
I miei muscoli si irrigidiscono. I miei arti sono paralizzati.
Diana preme la guancia sulla mia spalla, sfrega una mano sulla mia schiena per darmi conforto, ma non sa che in realtà mi sta rubando l’ossigeno.
«Mollami», ordino e la faccio staccare bruscamente dal mio corpo. «Non osare toccarmi ancora in questo modo senza il mio permesso. Non puoi semplicemente gettarti addosso alle persone. È irrispettoso.»
Lei diventa rossa in faccia e gli occhi le si riempiono di lacrime.
«Non tutti vogliono essere abbracciati. Io non voglio essere abbracciata da te, va bene? Non voglio neanche averti intorno, quindi stammi alla larga, cazzo», sbotto facendola sussultare.
Le lacrime iniziano a scivolare sulle sue guance e io sostengo il suo sguardo. Sembra smarrita in un vortice di pensieri confusi e sensi di colpa.
«Ho bisogno che tu me lo dica. Avanti. Dimmelo. "Non ti abbraccerò più". Dillo», le dico perentoria.
Diana si limita ad annuire vigorosamente.
Il suo corpo è scosso dai singhiozzi. Apre la bocca per parlare, ma non riesce a dire nulla.
Decido di lasciare perdere. In fondo, non è forse ciò che volevo?
«Ti sto facendo un favore», le dico addolcendo di poco la voce. Gira sui tacchi e scappa via, lasciandosi dietro una scia di tristezza che porta il mio nome. La percorro a testa alta, la sfioro e l’accolgo dentro di me.
So di aver fatto la cosa giusta.
Qualche ora più tardi, Mallory mi aspetta seduta sul muretto, gli occhi infiammati dalla rabbia.
«Chi ti ha fatto incazzare in questo modo, principessa?», le chiedo con un sorrisetto ironico.
«Tu», mi punta l'indice contro. «A volte sei un'insensibile del cazzo, Raven.»
«Dimmi qualcosa che non so già», mi siedo accanto a lei.
«Diana è distrutta per colpa tua, lo sai? Cosa diavolo le hai detto? E cosa ti ha detto la preside? Non dirmi che siamo fuori per colpa tua, perché potrei seriamente spaccarti la faccia in questo momento», aggrotta le sopracciglia. È davvero adirata.
«Tranquilla, è tutto a posto», la rassicuro.
«Tutto qui? Anziché prendertela con persone che non ti hanno fatto niente, perché non te la prendi con qualcuno che se lo merita davvero? Tipo quella stronza di Lucy, che ha messo in imbarazzo Peter davanti a tutti a pranzo.»
«Dov'è Peter?», chiedo.
«Dove cazzo eri tu piuttosto? Salti i pasti, fai di testa tua, sei già finita in presidenza. Ti avevo chiesto di darti una regolata almeno qui.»
«Dov'è Peter?», ripeto la domanda.
Mallory sbuffa. «Con Matteo, credo.»
«E Lucy?», indago.
«Non ne ho idea. Hai intenzione di metterti nei guai di nuovo?», solleva un sopracciglio. «Due volte nello stesso giorno? Che record», mi lancia uno sguardo ammonitore.
«Pensa a studiare, Mallory. Non è forse ciò che volevi?», le chiedo cinica.
«Non sarei così stronza con te, se non sapessi come diamine ragioni», stringe i denti e mi si avvicina.
«Allora cosa vuoi da me?», balzo giù dal muretto e incrocio le braccia al petto.
«Che tu sia un po' più prudente quando decidi di fare qualche stronzata, perché se tu sarai fuori da questo posto, allora i Parker non saranno più uniti. E sai cosa diavolo significa?»
«Che finalmente potrai fare quello che vorrai?», tiro a indovinare. «Che non ci sarò più io a romperti le palle e a rovinarti la vita?»
Mallory mi dà una spinta. «Significa che sarò costretta a chiedere aiuto alla persona che più ti odia per riportare di nuovo il tuo culo qui.»
Mallory non ama molto mostrarsi vulnerabile davanti a me, ma in questo momento lo sembra dannatamente tanto. «E poi, stupidona, non mi rovini la vita. La maggior parte delle volte me l’aggiusti», aggiunge con una smorfia.
Sorrido perché è un completo disastro quando si tratta di dimostrarmi affetto. Un po' come me.
Fermo la prima ragazza che mi passa accanto. «Lucy Howard. Sai dov'è?», le chiedo.
«Credo sia in biblioteca», risponde e la ringrazio con un cenno del capo.
Cammino spedita verso il punto in cui spero di trovarla. I miei fratelli non sono nei paraggi e neanche Elias. So che molto probabilmente le si staglierebbe davanti come i più valorosi dei guerrieri. Dopotutto, sono migliori amici.
Supero un gruppetto di studenti ed entro in biblioteca. Do un'occhiata veloce a tutti i presenti finché non vedo la coda bionda e lucente di Lucy. O almeno, mi auguro sia lei.
Infilo le mani nelle tasche dei pantaloni e cammino con aria disinvolta verso di lei. Quando le sono finalmente vicino, appoggio il palmo della mano sul tavolo e le sorrido. Chiude immediatamente il suo MacBook e mi guarda spaventata.
«Alzati e seguimi», le ordino. Lucy infila il portatile nella borsa insieme al quaderno e alle penne.
Camminiamo tra gli scaffali finché non raggiungiamo il punto più appartato.
«Allora? Che cosa vuoi?», chiede stizzita.
Sollevo lo sguardo, controllando eventuali videocamere, e poi la spingo contro lo scaffale e le premo una mano sulla gola. «Devi lasciare Peter.»
«Scusami? È il mio ragazzo», protesta mentre cerca di liberarsi dalla mia presa.
«Non più. Ti sto dando il permesso di spezzargli il cuore. Rompi con lui, Lucy, o ti prometto che finirai per odiare il giorno in cui mi hai conosciuta. Ci siamo capite?»
«E se non volessi farlo?», chiede con un sorrisetto provocatorio.
Le stringo il mento con una mano fino a strapparle una smorfia di dolore. «Te la farò venire, la voglia. Rompi con lui.»
La lascio andare, lei si massaggia la faccia. «Sei fuori di testa», mi guarda con la coda dell'occhio. «E, tanto per la cronaca, avevo comunque intenzione di farlo.»
«Sì, come no», scoppio a ridere. «A quelli come te piace nutrirsi del dolore altrui. Ma ciò non ti rende superiore agli altri, Lucy. Ti rende soltanto patetica.»
Accompagnata dal silenzio religioso degli studenti, cammino verso l'uscita, non prima di essermi beccata un'occhiata scettica da parte della bibliotecaria.
Seppellisce nuovamente la faccia tra le scartoffie che sta compilando e varco la soglia delle porte a doppio battente, immergendomi nuovamente nella folla.
Il chiacchiericcio mi avvolge come una cappa fastidiosa.
Un braccio possente mi cinge le spalle, ma non devo neanche alzare lo sguardo per vedere di chi si tratta. Non solo riconosco il suo profumo, ma la sensazione di calore che mi dona è inequivocabile.
«Eccomi, ci sono anche io, mio passerotto oscuro», la voce proviene dalla mia sinistra. Matteo si unisce al nostro scambio di sguardi.
«Scusa, non sono riuscito a liberarmi di lui», dice Azriel, indicando Matteo con un cenno del capo.
«Perché? Ti sembro uno di cui bisogna liberarsene?», ribatte lui.
«Non costringermi a risponderti», mormora Azriel.
«Mi chiedevo giusto quando avresti iniziato a rompere di nuovo le palle», gli dico assestandogli una gomitata nelle costole.
Matteo fa muovere le sopracciglia su e giù. «Ho mai smesso?», chiede strappandomi un sorriso.
Azriel si lascia andare in una serie di lamenti.
Matteo si schiarisce la voce. «Sai, uomo delle caverne, dovresti provare a sorridere un po'.»
Azriel gli scocca un'occhiata omicida. «No.»
«Sorridi con gli occhi, allora», insiste Matteo.
«Mi riesce difficile farlo con la bocca figuriamoci con gli occhi», commenta burbero Azriel.
Mi godo il loro scambio di battute, finché Azriel non mi attira un po' di più verso di lui e china il capo verso il mio orecchio. «Com'è andata con la Bailey?», mi chiede.
«Inaspettatamente bene», rispondo secca.
«Mmm», risponde.
«È andata terribilmente male, non è vero? Come lo diremo a Peter senza procurargli un attacco di panico o ancora peggio, un attacco di diarrea fulminante?», si intromette Matteo.
Azriel si sporge in avanti per osservarlo meglio. «E da quando ti preoccupi così tanto per nostro fratello?»
«Mi fa tenerezza, quel povero ragazzo. Sto imparando a conoscerlo», ribatte e mi scocca una lunga occhiata. «Imparerei a conoscere meglio anche te, ma hai duemila lucchetti e nessuna chiave. Come fanno le persone ad approcciarti?», mi chiede.
«Non mi approcciano», rispondo sinceramente, facendo ridere Azriel.
«Mio Dio, dove hanno forgiato la vostra anima, all'inferno?»
Azriel mi rivolge un sorrisetto sarcastico, poi dice: «Probabilmente in Alaska.»
«Siete tremendi, tutt'e due», scuote il capo con fare sconsolato.
«Elias ti stava cercando», mi informa Matteo.
Mi fermo in mezzo al corridoio e affondo la faccia nel petto di Azriel.
«Ti prego, penseranno tutti che siamo affettuosi. Non rovinarmi la reputazione», mi dice mentre preme una mano sulla mia nuca e me l’accarezza dolcemente.
«Mallory ce l'ha con me e ho fatto piangere Diana», confesso a bassa voce.
«Lo so, lo so. Mallory è irascibile e un po' egocentrica, Diana è troppo sensibile e non ti conosce. Non farci caso, va bene? Ma parlane con me. Non fare stupidaggini», mi dà un buffetto sul naso e indietreggia, mettendo della distanza tra di noi.
«Ecco Elias!», esclama Matteo a voce abbastanza alta da far girare verso di noi un paio di teste. Come se non bastasse, punta perfino l'indice verso di lui.
Adesso non posso più sfuggirgli; ha lo sguardo puntato su di me e dal modo in cui mi guarda capisco di non avere altra scelta se non andargli incontro e affrontarlo.
Sia Azriel sia Matteo mi danno una pacca di incoraggiamento sulla spalla, poi mi lasciano da sola. Osservo le persone intorno a me, assicurandomi che Adeline non appaia come un fantasma dietro di me.
Elias riprende a camminare. Alzo il capo e lui mi guarda con fare altezzoso, facendomi venire una tremenda voglia di tirargli una ginocchiata nelle palle, giusto per vedere sulla sua faccia un’espressione diversa.
«Che vuoi?», gli chiedo tagliente.
«Andiamo da Wes tra un'ora. Te lo sto dicendo ora così avrai tempo per prepararti psicologicamente», mi dice, increspando le labbra in un sorrisetto peccaminoso.
«Perché?»
«Perché non sai cosa ti aspetta», mi fa l'occhiolino. «Ci vediamo davanti al cancello. Ti prego, mettiti qualcosa di comodo.»
Ti prego? Sul serio mi ha appena pregata?
Mi scivola accanto, ridendo di gusto di fronte alla mia espressione allibita.
«Attenta a non gonfiare troppo le guance», dice ridendo sempre più forte.
«Cosa?», grido, girandomi verso di lui.
«Lo fai sempre quando ti sforzi di trattenere gli insulti», mi getta un’occhiata oltre la spalla.
«Come lo sai?»
«Ti osservo.»
«Mi osservi parecchio allora.»
«Nessuna bugia rilevata», ribatte sollevando le mani in aria in segno di resa.
Mi mordo il labbro con forza per non dargli la soddisfazione di vedere il mio sorriso.
Nah. Quel coglione non mi ha appena fatto sorridere.
Non è possibile.
Dopo aver indossato una comoda tuta nera e le converse, e dopo aver evitato come la morte di incrociare lo sguardo di Diana, eccomi qui mentre mi dirigo verso il cancello.
Elias sta facendo avanti e indietro, l'espressione scocciata.
«Sei in ritardo», è la prima cosa che mi dice.
«Il ritardo a volte è fondamentale», gli dico mentre infilo le mani nelle tasche della felpa.
«Scusami?», inarca un sopracciglio.
«Quando non si ha voglia di andare da qualche parte, il ritardo diventa fondamentale», specifico.
«Sei incredibile, cazzo», si ferma e mi indica la sua auto.
«Stai scherzando? Hai due gambe, prova a usarle», gli sfreccio accanto, intenta a superarlo ma lui mi afferra per il polso.
«È nuvoloso. Sicuramente pioverà più tardi. Prendiamo la macchina, è più comodo.»
«Prendi l’auto, allora. Ci vediamo lì», mi libero dalla sua stretta e mi allontano a passo svelto. Lo sento imprecare dietro di me e poi mi raggiunge a passo rapido.
«Sei fastidiosa e testarda», mi dice e inserisce le chiavi nella tasca dei pantaloni.
Gli rivolgo il mio sorriso migliore. «Lo so, stronzetto.»
Scoppia a ridere per il modo in cui l'ho chiamato e io lo guardo di sottecchi, perdendomi per pochi secondi nel suono della sua risata, così sincera e vibrante.
«Vediamo chi arriva per primo», gli dico, sentendo l'improvviso impulso di allontanarmi da lui.
«Non correre, siamo in discesa», raccomanda, ma io ormai sono già troppo lontana da lui. La mia coda ondeggia energicamente nell'aria mentre attraversiamo il prato costellato da fiori selvatici viola.
«Raven, ferma, rischi di inciampare e farti male», grida alle mie spalle.
Continuo a correre.
Mi sento viva e libera insieme alla persona che non mi sopporta.
Incredibile!
«Cerca di tenere il passo, perdente», mi volto per guardarlo ma lui sbatte contro di me e vengo sballottata con forza a terra. Rotolo giù per un paio di metri.
«Raven... Stai-», si interrompe, scoppiando in una fragorosa risata. Rimango distesa sull'erba con gli occhi puntati sullo specchio plumbeo sopra di noi.
Elias rotola accanto a me.
«Mi hai fatto male», gli dico ridendo a mia volta.
«Ti sei girata perché mi stavi cercando», mi dice, la sua risata si spegne lentamente.
«Non dire cazzate. Non mi girerei mai per cercarti», mi tolgo dei fili d'erba dai capelli, lui gira il capo verso di me.
«Mai?»
«Mai», confermo. «Perché dovrei?»
Allunga la mano verso il mio viso, ma non mi sfiora. «Hai qualcosa nei capelli», mi dice.
«Allora toglila», sussurro.
«È un ordine o un permesso?», mi chiede di nuovo con aria lievemente divertita.
Ripenso ad Adeline, al modo in cui gli ha parlato quando ero chiusa nel suo armadio, al modo in cui gli ha ordinato di scoparla.
«È un permesso, Bailey», sospiro e lui accenna un piccolo sorriso, come se fosse contento della risposta.
Le sue dita mi sfiorano la fronte, poi i capelli.
«I tuoi occhi hanno la stessa sfumatura del cielo», mi dice d'un tratto, cogliendomi di sorpresa.
«Come fai ad esserne così certo? Chi hai guardato di più? Me o il cielo?», domando con un sorriso autoironico.
«Si guarda sempre di più ciò che è proibito», risponde con fare vago e si mette a sedere. «Com'è andata con mia madre?»
«Oh, alla grande», dico, nascondendo il fatto che mi abbia fatto sentire una totale merda irresponsabile.
«Ho riferito io al custode dove fossi», confessa e tutta la pace che fino a pochi secondi fa avvolgeva il mio corpo cade in frantumi come una lastra ti vetro ai miei piedi.
Mi raddrizzo anche io, i palmi puntati a terra e lo sguardo su di lui. «Mi prendi per il culo?»
Si stringe nelle spalle. «Ci sono delle regole da seguire.»
Mi alzo in piedi, furiosa. «Vaffanculo!»
Non intende scusarsi. Guarda davanti a sé e io aspetto che dica qualcos'altro, ma dalla sua bocca non esce più nulla.
«Sei davvero uno stronzo», continuo a dire, stringendo i pugni. Riprendo a camminare, lui mi segue.
«Non fai tu le regole in questo posto, Parker», dice con freddezza.
«Perché l'hai fatto?», gli chiedo, questa volta senza girarmi verso di lui.
«Mi andava», risponde seccamente.
«Grazie per avermi ricordato il motivo per cui non ti sopporto.»
Non ci parliamo per il resto del tragitto.
Quando arriviamo a casa di quel vecchio, Wes, Elias bussa alla porta e io aspetto dietro di lui. Non so nemmeno perché sono qui.
La porta si spalanca e Wes ci accoglie con un ampio sorriso, che io sicuramente non merito di ricevere e che nemmeno ricambio.
«Ciao, Wes», dico sollevando una mano.
Wes ignora completamente Elias; anzi, lo spinge perfino via e apre le braccia per stringermi a sé mentre esclama con eccessivo entusiasmo: «Ho appena fatto la torta al cioccolato e cocco», mi fa sapere e ho subito l'acquolina in bocca.
La nostra torta.
Ma è soltanto una coincidenza.
«Sto morendo di fame», dico cercando di districarmi dal suo abbraccio soffocante. Elias percepisce il mio imbarazzo e gli dà una pacca sulla schiena.
«Ciao, vecchio», gli dice. «Siamo venuti, come volevi.»
Wes aveva richiesto la nostra presenza?
Mi fa entrare e mi guida sul retro. «Non vedevo l'ora di vedervi insieme, sai? Pensavo che non si sarebbe mai fatto vedere insieme alla ragazza che gli ha rubato il cuore», mi fa l'occhiolino.
«Mi ha rubato la sanità mentale non il cuore», borbotta con aria infastidita il mio presunto ragazzo.
«Ma sentilo, che razza di brontolone!», commenta Wes con una nota di divertimento nella voce.
Ignoro lo sguardo omicida di Elias e sposto invece l'attenzione sulla torta che Wes ha messo sul tavolo.
Elias allunga la mano per afferrare la prima fetta, ma poi si blocca. Fissa la torta e poi me.
Prende la fetta più grande, fa un lungo sospiro, e me la porge.
«Un vero gentiluomo», dice Wes dietro di me.
«Un vero idiota», ribatto a denti stretti.
Elias sorride a trentadue denti. «È pazza di me, Wes.»
Decido di affogare il mio odio e la mia rabbia nel sapore dolce della torta. Mio Dio, è persino più buona di quella della nonna di Elias, ma mi guarderò bene dal dirglielo.
Mi metto comoda sulla panchina. Lecco il cioccolato all'angolo della bocca ed Elias mi guarda esterrefatto.
«Che c'è?», gli chiedo.
Si avvicina un po' di più e allunga la mano verso il mio viso, sfiorandomi con il pollice la bocca. «Ne hai un po' qui», traccia il contorno del mio labbro inferiore. Si abbassa di più sulle ginocchia, finché i suoi occhi non sono all'altezza dei miei.
«Calmati altrimenti la mia copertura da bravo ragazzo salta e Wes mi ammazza», sussurra, poi mi pulisce il residuo di cioccolato dal labbro e si infila il pollice tra le labbra.
Spalanco gli occhi, travolta dalla sorpresa.
«Vuoi conoscere Freccia, Raven? Quel ragazzone aspetta soltanto te», dice Wes indicando il suo cavallo.
«Non sono felice che tu sia qui, sappilo. Era il mio posto sicuro, ma hai deciso di infestarlo con la tua presenza», sibila Elias al mio orecchio.
«Sono felice che tu sia venuta, Raven», esclama invece Wes.
Mi sento una pallina che rimbalza da una parte all'altra e sento il bruciante desiderio di levare le tende e andare via. Ha ragione Elias, non merito di stare qui. Non è il mio posto. Mi sono infilata in questa situazione da sola.
«Ehi, Wes, mi dispiace ma non posso restare. Sono passata soltanto per salutarti. Tra dieci minuti dovrò essere da un'altra parte. Spero non sia un problema», gli dico andandogli contro.
«Raven», mi chiama Elias con voce severa.
«No, certo che no! Ma tornerai? Magari la prossima volta ti farai una bella cavalcata al tramonto, che ne dici?», chiede, gli occhi pieni di speranza.
Iniziano a cadere le prime gocce di pioggia e io maledico la mia stupida caparbietà.
«Sarebbe grandioso», gli dico con voce priva di entusiasmo.
Lancio un ultimo sguardo ad Elias e poi corro verso la porta.
Esco in strada e metto il cappuccio. Cammino a passo svelto nel vicolo.
«Aspetta!», grida Elias. Corre dietro di me, ma io velocizzo il passo. «Cazzo, Raven, aspetta! Sta piovendo, dove pensi di andare?»
«Me ne vado! Ho sbagliato a venire qui con te. Questa cosa non funzionerà. Tu mi odi, io non ti sopporto. A breve lo capirà pure Wes», sbotto incrociando le braccia sotto il seno.
«Hai detto che non mi sopporti», la sua voce è affannata.
«È quello che ho detto, sì.»
«Non mi odi più?», chiede e allaccia le dita intorno al mio braccio, facendomi rallentare.
«In realtà ti detesto», lo guardo, ha il viso bagnato e le ciocche di capelli sono appiccicate alle tempie.
Piove sempre più forte.
Lui non dice niente, si limita a sorridere come un cretino.
«Perché diavolo sorridi in questo modo?», mi acciglio.
«Hai mai notato quanto ti rende bella l'odio che provi per me?»
Lo so che lo sta dicendo soltanto per farmi infuriare.
«Ho la faccia di una che sta per commettere un omicidio da un momento all'altro, in che modo ciò mi renderebbe bella?», gli chiedo.
«Soltanto io riesco a strapparti un'espressione così autentica», si avvicina a me e si passa la mano tra i capelli. «Non è fantastico? Potrei essere la tua prima vittima.»
«Lo sarai senza dubbio se continuerai a punzecchiarmi in questo modo», riprendo a camminare, lui mi tira indietro il cappuccio della felpa e dice: «In che modo?»
Mi giro e gli schiaffeggio il braccio. «Smettila di fare il bambino.»
«Aspetta», dice ed estrae il cellulare dalla tasca dei pantaloni.
«Che stai facendo?», gli chiedo, guardandolo con un cipiglio.
«Guarda verso l'alto un secondo.»
Non capisco cosa intende e sollevo la testa verso di lui, aggrottando le sopracciglia, mentre lui alza il cellulare e si allontana leggermente da me.
«Perfetta», sorride con aria soddisfatta.
«Cosa?»
Gira lo schermo del cellulare verso di me. Arriccio il naso. «Mi hai davvero scattato una foto?»
«Soltanto per farti vedere il colore dei tuoi occhi», ingrandisce la foto per mostrarmeli da vicino.
«So di che colore sono i miei occhi, Elias», lo guardo sempre più confusa.
«Lo so che lo sai. Ma guarda, hanno la stessa sfumatura del cielo. Sembrano grigi in questo momento», cerca di spiegarmi, ma non comprendo per niente il suo entusiasmo.
«Cosa ci trovi di così interessante nei miei occhi?», chiedo battendo i denti per il freddo.
«È come osservare una tempesta da vicino», smette lentamente di sorridere, blocca la schermata del cellulare e se lo infila di nuovo nella tasca. «La guardi affascinato e senza paura.»
«Sei tutto strano», scuoto la testa e gli do di nuovo le spalle.
«Vieni qui, sta diluviando», mi spinge delicatamente verso la tettoia di una casa e mi tira di nuovo su il cappuccio.
«Torna da Wes», inizio a tremare, ma cerco di non darlo troppo a vedere.
«No.»
«Perché? Tanto odi stare intorno a me.»
«Non posso lasciare la mia ragazza da sola», mi fa l'occhiolino e io fingo un conato di vomito.
«Posso riscaldarti?», chiede.
«Non avvicinarti a me o giuro che ti ammazzo», minaccio.
«So che hai freddo», mi fa notare.
«Sei bagnato pure tu.»
«Possiamo toglierci i vestiti e riscaldarci meglio da qualche altra parte», suggerisce lascivo.
«Sei disgustoso, smettila. Non è più divertente», gli do una spinta, ma lui ne approfitta per attirarmi a sé.
«Stammi vicino, volpina, non mordo.»
«Non posso», gli dico, allontanandomi di nuovo.
«Hai paura di me?», chiede ridacchiando. Smette non appena nota la mia espressione seria. «Chiunque potrebbe vederci in questo momento, non potrei farti del male, Raven, se è davvero ciò che temi.»
«Non sono io quella che rischia la pelle tra i due e tu lo sai», lo guardo in tralice.
Lui solleva le mani in segno di resa. «Sì, scusa, dimenticavo. Sei tu la regina indiscussa dei guai.»
«Stai al tuo posto, Elias, e non avvicinarti più.»
Lui si appoggia con la spalla al muro. «E dove sarebbe il mio posto?»
«Ovunque, a patto che sia lontano da me», alzo il mento.
«Capisco», mormora mentre scivola un po' di più verso di me. «Magari da domani», aggiunge e poi il suo braccio si posa sulle mie spalle.
«Oggi la gente invade il mio spazio personale senza il mio permesso. È orribile.»
«Volpina?»
«Cosa?»
«Quanti tatuaggi hai?»
La sua domanda è insolita.
«Ventidue.»
«Perché così tanti?»
Non rispondo.
«Hanno un significato profondo?»
«No.»
«Intendi farne altri?»
«No.»
«Perché ti sei fermata a ventidue?»
Ignoro la sua domanda.
«È un numero importante?»
«Ventidue sono le volte in cui ho-», mi blocco. Cosa diavolo sto facendo? Davvero stavo per rivelargli una cosa così intima?
«Finisci la frase», mi dice dolcemente.
«No.»
«Quanto sei misteriosa, Parker», mi dà una strizzata sulla spalla.
«E tu sei troppo ficcanaso.»
«Solo con te.»
La sua frase mi strappa un sorriso. E mentre la pioggia continua a cadere davanti a noi, io mi chiedo perché sono qui insieme a lui e perché gli sto permettendo di toccarmi in questo modo.
Il mio corpo oscilla verso il suo, come se una forza estranea mi spingesse ad annullare la distanza tra di noi.
O forse è soltanto il mondo che si inclina e mi fa precipitare per qualche ragione nel suo odio, che in questo momento è più piacevole che mai.
Mentre prego che smetta in fretta di piovere, io realizzo tre cose:
1) Elias sta muovendo distrattamente il pollice sul mio collo;
2) Sto tremando più di prima e non per colpa del freddo;
3) La foto che mi ha scattato era davvero carina.
L’avrà cancellata?
Probabilmente sì. Non avrebbe alcun motivo per conservarla.
«Volpina?», la sua voce rompe di nuovo il silenzio.
«Sì?»
«Niente, volevo assicurarmi che fossi ancora qui con me.»
Mi acciglio. «E dove altro dovrei essere?»
Fa spallucce. «Non lo so. Non conosco ancora i posti in cui ti porta la tua mente.»
«Ancora?»
«Hai posto la domanda sbagliata», risponde spingendo la sua spalla contro la mia.
Ecco il nuovo capitolo. Mi scuso per il ritardo e spero che vi sia piaciuto 💕🥺
Volevo rassicurarvi: non sono sparita e non abbandonerò la storia. In questo periodo ho soltanto delle cose a cui devo pensare. 💕
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