When the Daylight Comes

Amarti m'affatica

mi svuota dentro

qualcosa che assomiglia

a ridere nel pianto

~CCCP- Fedeli alla Linea, Amandoti

Una sensazione viscosa di cupa, muta angoscia impregnava l'ambiente, insinuandosi subdolamente negli angoli umidi, alla stregua di un'invisibile muffa corrosiva. La luce lunare, d'un pallore quasi febbricitante, irradiava obliqua l'angusto tinello, svelando impietosamente i contorni deteriorati, lisi delle cose. Un'aura indefinibile eppure incredibilmente avvolgente di incuria e squallore permeava invariabilmente ogni singola superficie, palesandosi nella forma di uno spesso strato di polvere. Sebbene sembrasse non mancare più che una mezz'ora all'alba, come aveva constatato con suo sommo sollievo misto a una punta di pura trepidazione, l'oscurità regnava ancora, egemone incontrastata di un impero di baluginii flebili di candele e ombre tremanti. A sovrastare il titanico silenzio che altrimenti si sarebbe detto assordante, solo un gocciolìo dal ritmo inesorabile, che segnalava l'inconfutabile presenza di una perdita nel tetto deteriorato, ormai corredato da non più che un paio di tegole stinte, che in lontani tempi gloriosi dovevano essere state tinte d'un vivido scarlatto.

Se non avesse avuto l'assoluta certezza del contrario, avrebbe indubitabilmente creduto che quel luogo fosse disabitato da decenni.

Altrettanto solida si sarebbe detta la sua certezza che in nessun caso, per nessuna ragione contemplabile al mondo, l'avrebbe voluta lì, costretta ad apprendere quanto miserabile fosse l'esistenza in cui a stento si trascinava. Era indubbio che, una volta rincasato, seppur pervaso da quell'estenuazione totalizzante, primordiale, che pareva consumarlo, famelica e spietata, dall'interno sino a ridurlo a meno che un sanguinante involucro vuoto, avrebbe certamente fatto appello alle poche forze che avrebbe avuto ancora in corpo, le avrebbe concentrate sull'obiettivo che avrebbe ritenuto primario: portarla fuori da lì, preservare la sua rigogliosa vitalità dall'abiezione immonda che inevitabilmente lo accompagnava, che avrebbe in effetti potuto dirsi parte di lui in alcun modo estirpabile.

Ma Dora non se ne preoccupava. Un senso di lucida determinazione l'invadeva, ne assorbiva le membra e ne acuiva la risolutezza; la disperazione assoluta e annichilente che nei mesi precedenti pareva averla consumata, fagocitata nella sua interezza, s'era dissipata d'improvviso, sostituita in fretta da un rinnovato ardire, che pareva immune a qualsiasi prospettiva d'insuccesso. Poichè Dora ora sapeva che in alcun modo avrebbe potuto fallire, si percepiva, in una qualche indicibile maniera, pervasa dal rifulgere di una vittoria che d'improvviso le era stata promessa con assoluta, infallibile certezza.

Estrasse la bacchetta dalla tasca, con fare nervoso, di mal celata impazienza, e l'agitò in un gesto fluido: pareva sinceramente assorbita dalla naturale meccanicità con cui il tè aveva preso a sobbollire sulla sfolgorante fiamma azzurra, e solo un occhio ben ammaestrato, ormai familiarmente uso all'interpretazione di lei, avrebbe saputo affermare che in effetti contemplava la scena senza vederla.

La pervadeva un insolito senso d'apprensione quasi materno, che le si sarebbe detto in effetti estraneo: si domandava, inquieta, se lui stesse già arrancando con andatura tremante sulla via del ritorno, se non avrebbe contratto il raffreddore, un'intera notte a vagabondare in solitudine nel gelo di una tempesta che mal si accostava all'incombere di luglio. Per quanto a fondo perlustrasse i fondali della propria memoria, Dora non ricordava d'aver mai avvertito una tale impellenza, una tale urgenza quasi primaria di sapere qualcuno al sicuro.

Solo in seguito a un'autoindotta ispezione del proprio corpo, s'accorse di essere scossa da leggeri tremiti, che quasi avrebbero potuto essere circoscritti a specifiche, isolate regioni. Scelse di non indagarne più approfonditamente la natura, certa che il farlo l'avrebbe indotta a brancolare in un baratro di cupe, orride congetture, e si avvolse più stretta nel proprio mantello, portando le ginocchia al petto e cingendole con le braccia.

Un'estranea la fissava attonita dal lato opposto dell'angusta camera: i capelli ingrigiti le ricadevano sugli occhi castani solcati da profonde occhiaie violacee, le labbra, piene eppure martoriate, quasi fossero state incessantemente morsicate, parevano sul punto di sanguinare, e il viso a forma di cuore, così curiosamente simile al suo, appariva smunto, smagrito, ombra inconsistente di un'antica bellezza ormai sciupata; a Dora furono necessari alcuni secondi d'intensa valutazione affinchè realizzasse di star soppesando con fare critico nient'altro che il proprio riflesso, incastonato in un imponente, sudicio specchio.

Si portò la mano destra al viso, in un gesto irriflesso, e osservò il suo doppio ripeterlo, quasi avesse voluto accertarsi dell'effettiva veridicità di quella proiezione. Un pensiero curioso attraversò d'improvviso la sua mente: si chiese se avesse potuto esistere una più dolorosamente eppure eccezionalmente perfetta personificazione della guerra.

Le sembrò di aver finalmente compreso per quale ragione, nell'ultimo anno, l'aveva invariabilmente seguita una sequela di sguardi pregni di sgomento misto a compassione, che tanto aveva odiato e che adesso ritrovava nel proprio, osservandosi esterrefatta.

La capacità di poter mutare d'aspetto a proprio piacimento le pareva così lontana, non ne percepiva la mancanza come se le fosse stata tranciata via di netto, crudele e improvvisa mutilazione, al contrario, a stento ricordava di averla mai posseduta: le pareva sigillata in un tempo lontano, indistinto e arduo da mettere a fuoco, quasi si fosse trattato di una dimensione onirica offuscata dall'inesorabile incombere dell'alba. Con un moto di puro sconcerto, infine Dora prese atto di non avere alcuna memoria delle modalità con cui eseguire quell'operazione che da sempre le era parsa insita nella propria natura e che mai aveva tentato di trasporre in pura astrazione, in effimera teoria, poichè mai l'aveva anche solo sfiorata il pensiero che avrebbe potuto ritrovarsene improvvisamente sprovvista.

Si affannò ad aggrottare la fronte e serrare la mascella, nel tentativo di rievocare l'espressione contrita, quasi sofferente, che ricordava d'aver sempre assunto nel trasformarsi, tentando di condensare ogni fibra del proprio essere sul colore designato, del quale aveva sperato che i suoi capelli si sarebbero repentinamente tinti, tuttavia, l'inclemente specchio non le restituì altro se non la propria immagine immutata.

E sebbene Dora avvertisse con dolorosa chiarezza la necessità impellente di dar sfogo, urlando e singhiozzando, a quella rinnovata frustrazione, che, ne era certa, avrebbe portato le sue interiora all'ebollizione fin quando non si fossero liquefatte (o evaporate, non avrebbe saputo pronosticarlo con certezza), si ritrovò bruscamente a dover riscuotersi, riacquisire lucidità, piena coscienza di sè.

Il silenzio della neonata aurora, che stava apprestandosi a insorgere di roseo fulgore, fu d'improvviso squarciato da un grido tanto straziante che si sarebbe potuto affermare, in una punta d'amara certezza, che chiunque l'avesse emesso stesse egli stesso squarciandosi, lacerandosi le membra in un orrido tripudio di sofferenza. Dora sobbalzò, ma fu solo per un istante: rimase, dunque, all'erta, udendolo risuonare lungamente nell'aria brumosa.

D'improvviso, la pressante morsa gelida che l'aveva costretta nel pesante mantello pochi minuti prima, si disciolse, liquefatta, ai primi raggi solari che s'apprestavano mestamente a innestarsi attraverso gli spiragli delle imposte semichiuse, sostituita, con disarmante rapidità, da un'antitetica arsura che, ne era certa, le avrebbe consumato in meno che un istante persino le ossa.

Si divincolò in fretta dal mantello, scagliandolo lontano con malagrazia, agitandosi convulsamente, come in preda a un subitaneo stato febbrile, e la stessa sorte fece seguire all'informe maglione infeltrito che indossava, pur senza trarne particolare sollievo. Le si figurava chiaramente l'urgenza di spogliarsi, nuda, finanche a spogliarsi della sua stessa pelle, che ora le appariva come nulla più che un inservibile involucro, e neppure allora avrebbe avuto la certezza assoluta che l'agognato refrigerio l'avrebbe raggiunta.

«Che cosa stai facendo qui? » L'elastico con il quale Dora s'era apprestata a raccogliere i capelli, nel tentativo di trarne un qualche giovamento dall'afa che l'avvolgeva, prepicitò al suolo con una lentezza disarmante, come fosse stato parte di una estranea, quieta dimensione d'inerzia, interessata da peculiari leggi fisiche, altre da quelle consuete.

Nella penombra albeggiante, sulla soglia spalancata del limaccioso tugurio, si stagliava una figura esile, incurvata, dall'andatura claudicante. Per quanto svilito, logorato da un male primordiale, impossibile a celarsi agli sguardi apprensivi del mondo, nonostante si studiasse in ogni modo di riuscire nell'impresa, lo sguardo perfettamente cosciente quanto determinato di Remus non lasciava adito a dubbi. I suoi occhi, d'un azzurro tetro, a tratti più simile a una tinta d'antracite, s'erano adombrati di un sentimento che, in effetti, mal si accostava alla sua persona e difficilmente, in lui, raggiungeva la superficie fino a mostrarsi così nettamente distinguibile: ira. La fiera e composta risolutezza di Dora quasi vacillò, nel soppesarlo con scrupolosa attenzione, diligente apprendista di un'arte ignota e ardua a comprendersi. Si torse le dita in grembo, con fare nevrotico.

«Ti ho chiesto cosa cazzo ci fai qui.» Ripetè Remus, scandendo le parole affinchè le giungessero nitide, in un tono inaspettatamente quanto innegabilmente furente, gelida autorità così distante dai suoi usuali modi affabili, e seguitando a fissarla con altrettanta concentrazione. Contraeva la mascella in maniera così rigidamente serrata, che per un fugace quanto inquietante istante Dora ebbe la vivida impressione di udire, con estrema precisione, i suoi denti incrinarsi gradualmente, sino a spaccarsi.

«Sei ferito?» Chiese Dora, sostenendo impavida lo sguardo asciutto di lui, e al contempo affannandosi ad assumere un tono che le paresse quanto più vicino possibile alla fiera autorevolezza che avrebbe desiderato trasmettergli. Non che, in effetti, fosse necessario interrogarsi in merito: neppure un singolo centimetro della sua pelle lattea, d'un biancore abbacinante, pareva esimersi dal divenire parte di un intricato motivo astratto di cicatrici, il cui vibrante tono di vermiglio le ricongiungeva indubitabilmente all'immediato passato.

Agitò la bacchetta con fare pratico e attese che il tè fumante, placido e obbediente, volteggiasse sinuoso sulle loro teste e si versasse nelle tazze che s'era tempestivamente affrettata a Materializzare. Tale dimestichezza le risultò in effetti stridente con la sua innegabile ignoranza in termini di incantesimi legati all'ambito domestico: le piaceva definirsi una donna d'azione, si beava nell'immaginarsi ardimentosa e indomita, intrepida amazzone in battaglia, e non di rado si sperticava in lunghi soliloqui circa l'assoluta inutilità di sortilegi casalinghi così terribilmente limitanti.

«Non sono ferito.» Mentì Remus, avvolgendosi più stretto nel proprio mantello consunto, alla stregua di quanto Dora aveva avvertito la necessità di fare poco prima. Tremava. Pareva turbarlo non poco il pensiero di mostrarsi a lei nudo, com'era in effetti a seguito di ogni singola trasformazione; Dora lo sapeva, gliene aveva parlato tempo a dietro in un rarissimo slancio di intima confidenza: era quella la ragione per cui s'era precocemente visto costretto ad apprendere l'arte del cucito, non avrebbe potuto permettersi di acquistare nuovi abiti ogni qual volta gli fosse capitato di squarciare i propri.

«Devi andartene, Tonks.» Rettificò, abbassando lentamente le palpebre e portandosi rapidamente una mano alla tempia, un gesto che all'occhio di Dora, ben allenato a cogliere ogni sfumatura di lui, non sfuggì.
«Bevi. Devi riscaldarti, stai tremando» La voce di Dora echeggiò di una risolutezza a tratti materna, che a entrambi parve distante anni luce dalla spensierata cordialità che solitamente s'accompagnava all'immagine di lei.

Dapprima le rivolse un'occhiata circospetta, quasi fosse intento a soppesarne le intenzioni, in una muta eppure eloquente valutazione, in seguito, alquanto insperatamente, s'abbandonò sull'unica sedia ancora provvista di una seduta (quantomeno in apparenza) sufficientemente salda e trasse a sè la tazza che gli era più vicina, colma fino all'orlo. Dora lo osservò, vigile, sorseggiare il proprio tè, le labbra appena dischiuse, e affrettarsi a posare cautamente la tazza sul tavolo, appena un istante prima che una forza invisibile quanto greve gli imponesse di inclinarsi in avanti, in preda a un conato di vomito che non ebbe il tempo nè la tempra di dissimulare, nel tentativo di negarle quella vista.

Prontamente, Dora s'affrettò a raggiungerlo, sul fronte opposto del consunto tavolo a cui sedevano, e fece per tendergli la propria mano destra, tuttavia, altrettanto repentinamente Remus la allontanò, tirandosi nuovamente su a sedere, affannandosi ad assumere un'aria quanto più decisa possibile, seppur il suo incarnato cereo tradisse l'impetuosa disputa interiore che impegnava le sue viscere.

Per un istante, Dora fu assolutamente certa che avrebbe urlato, per quanto non ricordasse d'averlo mai udito alzare il proprio tono della voce (anche fosse stato di una sola ottava) con chicchessia; curiosamente, a quel pensiero la travolse un singolare moto d'orgoglio: avrebbe conseguito il primato assoluto nell'aver fatto perdere le staffe all'apparentemente imperturbabile, virtuoso conciliatore di agòni tragici, Remus Lupin.

Eppure, tale cinicamente piacevole prospettiva, non pareva fosse destinata a concretizzarsi; le rivolse, al contrario, uno sguardo svilito e trasse un respiro profondo, dilatando le narici: «Ascoltami, Tonks» esordì, in appena più che un sussurro, che pure pareva costargli estrema fatica «Ti ringrazio sinceramente per esserti preoccupata per me e mi dispiace molto di non averti accolta in maniera propriamente... ehm... cordiale. Ma devi andare via. Non voglio che tu mi veda così. Dopo una bella dormita starò meglio, te lo prometto, perciò è meglio se mi lasci riposare» Abbozzò un sorriso, più simile a una smorfia contrita, e con un cenno indicò la porta.

«Se hai bisogno dormire, puoi farlo. Io da qui non me ne vado. E ti assicuro che niente, assolutamente niente, di quello che dirai mi farà cambiare idea. E francamente, Remus, non mi pare tu abbia le forze necessarie per tentare di persuadermi con le tue proverbiali abilità retoriche. Magari me ne potrai fare sfoggio più tardi, mmh?» Per quanto, in effetti, egli la superasse di molto in altezza, in quegli istanti Dora pareva torreggiare su di lui, improvvisamente insignita di una rinnovata autorità, risoluto vigore che non ammetteva repliche di qualunque sorta.

Per la prima volta, nel sommesso chiarore che gradualmente andava propagandosi nell'angusto tinello, irraggiando di sbieco le superfici rese opache dall'impietosa usura del tempo, udendosi afferrare le redini della situazione in un moto d'inconsulta fermezza, Dora percepì sè stessa come una donna adulta. Tale conclusione, seppur inattesa e a tratti allarmante, le soggiunse tanto lampante, tanto innegabilmente veritiera, che le parve assolutamente naturale osservare con estrema premura, dettata da sincero interesse, il proprio scialbo duplicato, risiedente nell'enorme specchio, dismettere le vesti (che ora le parevano così insulse e inappropriate) dell'acerba adolescente e indossare quelle dell'adulta, che pure si sarebbero dette esattamente le stesse, ma che, al contempo, parevano calzarle alla perfezione, in una maniera che aveva poco o nulla a che fare con l'apparenza fisica.

Per un istante fu sinceramente stupita dal fatto che Remus, che pure sostava, apparentemente incapace di movimento, accanto a lei non ne avesse avuto alcuna percezione, tuttavia, non se ne rammaricò: la deliziava il pensiero che quel catartico palpito, seppur intriso di un agrodolce sapore di sogno, fosse unicamente suo, che appartenesse a una dimensione altra, impenetrabile alla più vaga comprensione di lui o di chiunque altro avesse avuto l'ardire di addentrarvisi.

Avvertiva chiaramente la tensione tra loro farsi greve, tanto spessa da apparire quasi solida, fisicamente tangibile: una cortina che lui intendeva far calare al suolo al fine di separarli, invisibile eppure perfettamente distinguibile. Seguitava a squadrarla, ancora scosso da tremiti convulsi che si studiava di reprimere, entrambe le braccia morbosamente serrate in grembo, lo sguardo attraversato da un baluginio di puro terrore, pressochè impossibile a nascondersi, tanto che non pareva neppure intenzionato a tentare l'impresa, la fronte imperlata di sudore freddo, rifulgente ai raggi del neonato sole estivo. Dora s'apprestò a raccogliere il proprio mantello dal pavimento e, con un gesto che, ancora una volta, le parve in qualche modo curiosamente materno, glielo posò sulle spalle, nella speranza che sommandosi a quello che già indossava potesse, infine, giungergli un calore tale da sciogliere quel gelo che pareva quasi sfibrargli le ossa.

«Perchè sei venuta? » Proruppe infine Remus, infrangendo d'improvviso quel silenzio che fino ad allora a entrambi era parso apparentemente incrollabile e che invece ora risuonava di un'eco dubbiosa, circospetta.

«Buffo, per qualche ragione mi ero convinta che volessi dormire» Osservò Dora, sarcastica, inarcando un sopracciglio. Seguitava, imperterrita, nel puntargli dritto il proprio sguardo, allarmata dal pronostico, più che certo, che l'avrebbe certamente ritenuta responsabile di quell'ulteriore perdita di preziose ore di sonno; l'idea le si figurava nella mente tanto realistica da fornirle la vivida impressione che stesse in effetti verificandosi in quegli istanti sul piano della realtà, sebbene egli, di fatto, stesse limitandosi a fissarla, serio e attonito, in una muta eppure eloquente esternazione di assoluta sofferenza.

«Sono venuta per te, per quale altro motivo avrei potuto desiderare di visitare questo posto? Non per offendere il tuo gusto da arredatore, ma mette i brividi» Le labbra pallide, martoriate dal recente vizio che aveva acquisito di morsicarle ogni qual volta l'angoscia l'avesse assalita, si incurvarono, esiguo tentativo di sorriso, pallida imitazione del sincero fulgore radioso d'un tempo remoto, che pareva non potesse più appartenerle.

«Non ti biasimo. Grazie per esserti disturbata ma, davvero, non ce n'era alcun bisogno, sono a posto. E poi, immagino tu abbia già abbastanza da fare per l'Ordine anche senza venire fin qui. Per di più di notte. E da sola.» Le labbra di Remus si compressero convulsamente, sino a impallidire, e sulla fronte gli si disegnò una ruga sottile. Sebbene non avesse che trentasette anni, in quegli istanti pareva portarsi addosso il peso ancestrale del mondo.

«Sorvolerò volutamente sulla ultima affermazione, in effetti alquanto sessista. Non sono indifesa, sono un Auror e un membro dell'Ordine so perfettamente...»

«Sai benissimo quello che intendevo»

«...come cavarmela. Il punto è che sei un membro dell'Ordine anche tu e mi sembra più che doveroso venire ad accertarmi che tu stia bene»
Le pareva di star esponendo, paziente, a un bambino testardo la nozione più logica, ovvia, universalmente comprensibile al mondo. Lui ebbe un sussulto, dischiuse le labbra come per parlare, tuttavia un istante dopo le richiuse. Immediatamente (Dora era certa che avrebbe dovuto stupirsene, eppure le parve più che naturale), la gratitudine incredula che rincolmava Remus, generata dal sentirsi descrivere come parte integrante di una società circoscritta e dal pensiero, che ancora pareva stupirlo, che qualcuno potesse sinceramente interessarsi alle sue condizioni, fu sua, intimamente condivisa pur senza che né l'uno né l'altra ne facesse menzione.

Dora fece una pausa. Brancolava nell'oscurità di una nebulosa incertezza: avrebbe dovuto dare ascolto al suo solito impeto analogico e dar voce a quel pensiero di cui aveva il vago sentore che stesse in qualche modo corrodendole l'anima? La reale, profonda ragione che l'aveva spinta fin lì? Trasse un respiro profondo, quasi sperasse di inspirare nuova determinazione assieme all'ossigeno:

«Ma non è solo questo. Dopo quello che ci siamo detti l'altra notte, in Infermeria... E dopo il funerale... Ecco, io pensavo che...» Si interruppe, come a voler soppesare al meglio le parole da utilizzare, e Remus prontamente raccolse quell'attimo d'esitazione, incapace di seguitare a dissimulare la propria irrequietezza.

«Pensavi che cosa, Tonks? Che cos'è che pensavi, eh? Ascoltami, volevi sapere come stessi? Ecco qui, sto favolosamente bene. E adesso, per favore, esci da qui» Quasi avvertendo un istintivo moto di pentimento per aver osato rivolgersi a lei in quel tono che tanto gli era estraneo, rivolse lo sguardo al pavimento.

«Pensavo che almeno mi avresti permesso di interessarmi a te, Remus! Pensavo che, per una volta, per una volta nella tua vita, avresti provato a fidarti!» Dora avvertì la propria voce incrinarsi, ma fu solo per un istante: avrebbe voluto mordersi la lingua sino ad avvertire il sapore metallico del sangue impregnarle la bocca e neppure in quel caso avrebbe avuto certezza di riuscire nell'impresa di arrestare quel torrente in piena, alimentato da settimane, mesi di desolanti angosce.
Proseguì, ormai incapace di trattenersi «Sei davvero un ipocrita, lo sai? Non fai altro che andartene in giro a elemosinare la fiducia degli altri, cercando di convincerli a fidarsi delle tue buone intenzioni, della tua gentilezza, che hai fatto diventare il tuo marchio di fabbrica. Ma quando tocca a te sbilanciarti, fare un solo, minuscolo passettino fuori dalla tua palizzata di diffidenza e autocommiserazione ecco che subito ti tiri indietro, ti barrichi dietro questa tua corazza di finta scortesia che, lasciatelo dire, proprio non ti viene credibile»

Dora tacque, attendendo il rivolo acre di senso di colpa che, ne era certa, di lì a poco l'avrebbe assalita, impregnandole le membra sino a corroderle, e tuttavia esso non venne. Ancora la dominava l'impeto di adrenalina generatosi, con disarmante naturalezza, da quel torrente in piena che aveva irrimediabilmente infranto qualsiasi effimero argine ancora avesse avuto l'ardire di orbitare tra loro. S'accorse in quegli istanti di aver serrato i pugni con una tale veemenza da far sbiancare le nocche. Le unghie ancora le penetravano la carne.

Remus seguitava nello scrutarla, atterrito, quasi la vedesse allora per la prima volta, boccheggiando affannosamente. Neppure nell'anfratto più remoto della propria immaginazione Dora avrebbe osato congetturare che, in quegli istanti, livida di una rabbia antica e indefinibile, egli la vedesse sfolgorare di una magnificenza che pareva espandersi all'ambiente circostante, a tutta la Gran Bretagna, all'intero pianeta.

L'uomo fece per parlare (e in seguito Dora si sarebbe più volte chiesta che cosa avrebbe replicato, se ne avesse avuto modo), tuttavia, un nuovo, irrefrenabile conato di vomito gli impose di arpionare le gambe della sedia e piegarsi in due. Per la seconda volta, quel giorno, sebbene ancora preda di un livore ardente, Dora tentò senza successo di reggergli la fronte, scostargli i folti capelli ingrigiti dagli occhi: bruscamente, si vide allontanare la mano che aveva teso. Un istante dopo, che a Dora parve insospettabilmente prolungato, Remus si rimise a sedere, il respiro corto, asciugandosi le labbra con il dorso della mano. I tremiti che l'avevano assalito non parevano accennare a dileguarsi, dunque estrasse la bacchetta dal proprio mantello e l'agitò con fare meccanico.

Immediatamente, una modesta eppure incredibilmente intensa fiamma azzurra prese a baluginare a mezz'aria tra loro; Dora riprese a osservare il volto di Remus, illuminato cupamente da quella gelida tinta acquamarina, con rinnovato interesse: sembrava che non si radesse da giorni e i suoi occhi apparivano arrossati, gonfi. Aveva, in effetti, l'inconfutabile aria d'intrinseca incuria di chi s'impone di non dormire in funzione di un dolore tanto grande, annichilente, ammorbante, da procurargli nient'altro che mostruosi incubi al solo abbassare le palpebre. Dora sapeva bene che la recente morte di Silente l'aveva segnato, come inevitabilmente era accaduto a ogni membro dell'Ordine della Fenice, che ora pareva drenato della linfa che l'aveva alimentato, eppure solo ora le pareva di percepire quanto profondamente quell'improvvisa perdita l'avesse trafitto, carica di significati d'intima gratitudine certamente non semplici a cogliersi.

Quasi ridestandosi improvvisamente da una dimensione dai tratti onirici di tetra apprensione, Dora richiamò a sé la propria borsa con un gesto di bacchetta, e si mise a sondarne il contenuto (impresa non semplice, dato l'Incantesimo Estensivo applicatole in precedenza). Estrasse, dunque, un'ampolla vitrea la cui targhetta, vergata a caratteri eleganti, recitava Essenza di Dittamo, e l'agitò davanti a Remus, sollevando le sopracciglia. Dora lo osservò, non poco sorpresa, tenderle il braccio sinistro, senza accennare a proferire verbo.

A saltarle immediatamente all'occhio non fu il sanguinante graffio, di dubbia profondità, che gli percorreva il braccio per tutta la lunghezza, dalla spalla sino al polso, sebbene si sarebbe detto certamente il dettaglio più dolorosamente manifesto; al contrario, Dora non ebbe modo di distogliere lo sguardo dalla mano, teatro di un orrore che le pareva di provare sulla propria pelle, tanto da vicino la raccapricciava: le unghie si mostravano sollevate, a brandelli, consumate sino a oltre la cuticola sanguinante. Doveva aver raspato furiosamente con gli artigli.

S'impose di non palesare quel disgusto che pareva essersi impadronito di ogni fibra di lei, assumendo un'espressione marmorea di ferma determinazione, e accingendosi, frattanto, ad applicare il Dittamo con un'accuratezza certosina che non ricordava esserle mai stata propria.

«Perchè?» La domanda di Remus risuonò di un sussurro appena udibile, mentre deglutiva forte, certamente intenzionato a ricacciare con veemenza in gola l'ennesimo spasmo. Aveva ripreso a fissare il pavimento, fingendosi sinceramente interessato alle assi di legno marcio che lo rivestivano, nei cui interstizi s'innestava un viavai di indaffarati scarafaggi.

«Perchè cosa?» Chiese Dora, osservando frattanto, circoscritto nella consunta cornice un tempo aurea del grande specchio, il proprio duplicato assurdamente adulto stringere con forza le bende attorno alla ferita appena medicata. Curiosamente, eppure con estrema chiarezza, echeggiarono dai reconditi fondali della sua memoria le nozioni apprese nel comparto di primo soccorso dell'Accademia Auror, almeno un milione di anni prima, le stesse che aveva ripetuto a menadito ogni qual volta avesse avuto anche il più fugace attimo libero, per essere certa di non fallire all'esame: per prima cosa ungere con il Dittamo, se disponibile; successivamente, assicurarsi di comprimere accuratamente con delle garze, onde evitare il dissanguamento del ferito.

«Lo sai» Remus parve quasi costringersi con un'insospettata forza a tirare fuori le parole, tanto che a Dora risultò arduo udirle «Perchè l'hai fatto, Tonks? Sai bene che cosa sono, perché sei venuta qui, con la luna piena? Se io...» S'interruppe bruscamente, chiudendo per un istante gli occhi e trattenendo il respiro, quasi l'agghiacciasse la sola idea di dar voce a quel fosco pensiero che, Dora lo sapeva, assediava la sua anima: «Se ti fosse successo qualcosa o, peggio, se ti avessi fatto qualcosa non me lo sarei mai potuto perdonare! Io... Non mi merito queste tue premure, non mi merito nemmeno la tua pietà»

E in quell'istante, per la prima e unica volta, Dora avvertì distintamente la ormai ben familiare sensazione, che ormai da mesi le era stata fedele compagna, di viscere contorte e lacrime strenuamente represse, affiorare alla superficie. Sentendosene terrorizzata, quasi temesse che l'immagine di sè adulta, che tanto l'appagava, potesse in qualche modo infrangersi, venire orribilmente mutilata dal pianto, inspirò forte e serrò la mano destra attorno alla propria bacchetta, nel tentativo d'infondersi nuova risolutezza: «La mia pietà?! Tu sei davvero convinto che io mi trovi qui perché provo pietà per te? Come se fossi chissà quale bestia in cattività? Hai davvero una considerazione così bassa di me?»

«Io sono una bestia in cattività, Tonks! Sono un lupo mannaro che cerca inutilmente di integrarsi in una società che non è fatta per quelli come me»

«Quel maledetto branco ti ha fatto il lavaggio del cervello.»

«Basta guardare dove vivo!» Indicò con un rapido gesto lo squallido, lugubre ambiente circostante «L'hai detto anche tu che questo posto mette i brividi e non posso certamente darti torto. Non ho un soldo in tasca, non esiste impiego che riesca a tenermi, nelle mie condizioni»

«A me non importa, lo sai bene.»

«Non ti importa nemmeno il pensiero di doverti continuamente trasferire? Di perdere tutti i tuoi amici? Di essere guardata con disgusto, come succedeva ai miei genitori, di diventare una reietta?»

«A me importa che tu stia bene. Mi importa che tu non sia solo, a vivere tutto questo. Sei stato solo così a lungo che hai paura a lasciarti avvicinare anche da chi ha buone intenzioni. In questo, sai, sono proprio d'accordo con te: sei davvero una bestia. Un'inerme bestiolina diffidente» Quasi vergognandosene, Dora sorrise di un sorriso che, per la prima volta da quasi un anno, pareva sfolgorare del suo antico splendore, così caratteristicamente, irresistibilmente suo, tanto che, seppure per un singolo istante, sembrò riflettersi sul viso di Remus; a Dora parve di distinguere una giovinezza, che fino ad allora le era stata celata, aleggiare sul volto segnato di lui. L'istante successivo, tuttavia, Remus tornò a rabbuiarsi:

«Ma come fai a dire questo? Dove trovi il coraggio? Come fai a esserne così certa?» Chiese in tono implorante, che pareva aver cancellato ogni traccia della passata collera.

Dora era certa che, se in lei fosse esistito uno specifico livello di saturazione, per quanto arduo potesse risultare il suo raggiungimento, Remus l'avesse appena superato. Nella sua mente si affacciò con estrema vividezza la prospettiva di come avrebbe potuto evolversi quella situazione, se fosse nata con una rara dote che non fosse l'essere una Metamorphomagus, bensì quella di incenerire il proprio interlocutore soltanto rivolgendogli un'occhiata particolarmente ostile. Non era neppure sufficientemente certa che un tale dono ingenito potesse effettivamente esistere, ragion per cui annotò mentalmente la necessità di verificarlo quanto prima.

Non comprendeva come egli potesse seguitare, con una tale ottusa inflessibilità, a non riconoscere che i suoi sentimenti potessero essere tanto sinceri, autentici, travolgenti e, più di ogni altra cosa, Dora lo sapeva, che potessero essere effettivamente riservati, in maniera così incorruttibile, proprio a lui. Dora trasse un profondo respiro e azzardò a stringergli la mano sinistra nella propria. Per qualche assurda ragione, non si stupì nel constatare che Remus a quel contatto non si fosse ritratto e che, anzi, dopo un attimo d'esitazione, quasi quel minimo gesto custodisse un intrinseco privilegio che non credeva di meritare, l'avesse stretta a sua volta. Dora sussultò: era la prima volta che le loro mani s'intrecciavano a quel modo che parve in qualche maniera inossidabile, al sicuro da ogni possibile avversità; non mancò di notare la pelle d'oca che aveva colto entrambi, a quel contatto. 

Nuovamente, la avvolse quella peculiare certezza che le cose, quel giorno, avrebbero preso una piega diversa, nuova e migliore: «Non si tratta di coraggio. Perché voi Grifondoro cercate sempre di tirare pretestuosamente in ballo il coraggio? Io ho paura. Siamo in mezzo a una guerra e io sto morendo di paura. Non ho idea di cosa succederà domani, non oso nemmeno immaginarmi se ci saremo tutti, se ci saremo noi, ed è per questo che voglio essere felice oggi. Siamo in mezzo a una guerra che ci sta portando via il domani, per questo oggi voglio poter determinare la mia felicità. E tu mi rendi felice. E anche tu meriti di esserlo.» 

Remus fece per replicare repentinamente, ma Dora proseguì, imperterrita: «Perciò, basterà che tu mi dica che puoi essere felice, qui, in questo tugurio, da solo nella tua autocommiserazione, e io uscirò da quella porta come mi chiedi di fare da quando sei arrivato. Ma se farlo significherà mentire, allora, mi dispiace, ma non andrò da nessuna parte. Perché tu, come chiunque altro e più di molti altri, meriti di essere felice, meriti...» Fece un'altra pausa, temendo di spingersi troppo oltre, e tuttavia scelse, infine, di proseguire, la voce ridotta a un sussurro: «...di essere amato».

Fu un lampo fulmineo, circoscritto al lasso di tempo che un qualunque essere umano avrebbe impiegato per alzare e abbassare le palpebre in un gesto irriflesso, eppure a Dora non sfuggì. Al contrario, se ne bevve con avidità ogni singola, fugace immagine. Remus le aveva sorriso, le aveva sorriso in una maniera tanto genuinamente sincera e autentica, stridente, in effetti, con l'argomentazione dai toni alquanto funerei che l'aveva preceduta, che quasi s'era sentito in dovere di reprimere quell'egoistico moto di pura contentezza. Le strinse con più forza la mano, quasi a voler suggellare un tacito quanto infrangibile accordo: Dora percepì con chiarezza che nulla avrebbe potuto sciogliere quell'intreccio. 

E quel sorriso, Dora lo capì immediatamente, quasi fosse stata infusa di una coscienza nuova, che la rendeva inspiegabilmente partecipe dell'emotività di lui, era insignito di un significato nuovo e più alto: assoluta, totalizzante, incondizionata, eppure, in qualche modo, pregna di vulnerabilità, fiducia. Con una nitidezza tale da risultarle difficile discernere il piano della realtà da quello dell'astrazione (come era avvenuto nello scorgersi improvvisamente adulta), Dora scorse la barriera che si ergeva, alta e apparentemente invalicabile, tra loro infrangersi al suolo, in un turbinio di vetro sgretolato. Ora, per la prima volta da che avesse memoria, lui le si stagliava di fronte, per la prima volta realmente vicino, realmente tangibile, non più solo intoccabile, pallido riflesso.  

Si sentì rincolmata di gioia e rinnovata energia, che ne risvegliarono le forze: le pareva che, nel corso di quei lunghi mesi, si fossero consumate gradualmente, che quella dolorosa, estenuante conversazione le avesse succhiato via le poche superstiti, mentre ora quel sorriso gliele aveva restituite tutte nel medesimo istante, sommandole ad altre nuove, riportandola alla vita.  

Dopo un momento di silenzio, Remus esordì: «Dora, io... cioè, volevo dire Tonks... perdonami, lo so che lo detesti...», lei lo interruppe immediatamente, rivolgendogli uno sguardo bonario «Sai, penso proprio che "Dora" non mi dispiaccia», decretò, accennando a una risata sommessa, eppure assumendo un tono assurdamente solenne.

Remus tentò di riprendere le redini dell'arringa che certamente avrebbe desiderato avviare e tuttavia ancora una volta gli fu negato: con improvvisa violenza, un nuovo spasmo lo costrinse ad afferrarsi convulsamente l'addome. Un istante dopo, si ritrovò a chinarsi in avanti, avvinghiando saldamente le gambe consunte della sedia. Per la terza volta, in un materno moto a lei ormai connaturato, Dora s'apprestò a reggergli la fronte con la mano, e per un momento si sentì quasi stupita dall'assenza del consueto tentativo di lui di allontanarla, di celarle quella vista, di proteggerla dal suo dolore.

Gli scostò i capelli che gli ricadevano sugli occhi, procurandogli certamente disagio e, dopo un attimo di esitazione, Dora si accorse che egli aveva, in effetti, schiodato le proprie mani dalla sedia, abbandonandosi languidamente alla sua presa salda, ormai certo che mai, per nessuna ragione, l'avrebbe lasciato cadere.

Dora sorrise, osservando i loro duplicati nello specchio: non avrebbero avuto più bisogno di altre conferme. 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top