1.00 What if...
Sanji never left Germa until 19? ( No pairing for now. But probably Zosan? Pt. 1 anyway)
C'erano fiamme e fumo.
Un catasto di legna lasciata sul ciglio di una strada, poco lontano dal porto, ma soprattutto, ben poco lontano dalle prime gocce di sangue che tracciavano un percorso irregolare e non del tutto definito sul marmo freddo, un percorso che sembrava non essere pronto ad interrompersi per davvero se si lasciava brevemente scorrere lo sguardo.
Un chiacchiericcio distratto permeava l'aria sporca di sale, di anidride carbonica e di sangue, persone osservavano per poi ignorare in fretta, non porgendo importanza all'evento, sicché, dopotutto, vedere barche sfasciate non era una novità in quella specifica città della Grand Line.
Erano abbastanza contrari agli sconosciuti ed alle, cosí da loro definite, figure losche, perciò era facile che un marinaio, desideroso di attraccare, di trovare rifugio e cibo, si trovasse attaccato con ferocia a palle di cannone, poco distante dal porto e che quindi gli venisse cosí affondata la barca, se non proprio che gli fosse tolta la vita.
Forse, tale sfiducia nei confronti degli stranieri, era dovuta alla varia serie di guerre svoltesi per quel territorio specifico e dunque per la durezza dei cuori degli abitanti, forse per il semplice fatto che quel posto tanto ospitale a temperatura e aspetto rurale veniva trattato come un oggetto che poteva essere posseduto da pochi, ma non aveva importanza .
Non ne aveva, poiché in questo caso, la figura che si trascinava per le stradine di quella città, sanguinando copiosamente, una scheggia di legno penetrata nelle sue magre e pallide carni, non faceva particolarmente caso ai dettagli.
Era abituata a trattamenti rudi, a parole crudeli, alle mani che stringevano il suo fragile essere spolpo e quasi morente, a sguardi velenosi, cosí velenosi che se non fosse stata appunto una sua abitudine, molto probabilmente avrebbe rabbrividito al di sotto di essi, proprio come un tempo.
La figura non si era dunque meravigliata troppo dell'improvviso assalto, schivando la propria morte per un soffio, tanto da esserne comunque ferita e, convinta di non essere desiderata... ma comunque, incapace di riprendere il proprio viaggio altrove, aveva semplicemente continuato il suo cammino verso le strade meno in vista...
Avanzava, sì, a tentoni, a tratti scivolando, ma non si fermava.
La presenza aveva un obiettivo: cercare un dottore.
Questa era difatti una delle convinzioni focali nella sua testa, se non l'unica.
E se non lo avesse trovato, bhe, avrebbe cercato ancora, ed ancora, ed ancora fino a trovarne uno.
Una simile ricerca, più disperata che determinata, era nella consapevolezza che, almeno, se proprio non avesse trovato nessuno disposto ad aiutare, almeno sarebbe morta cercando, senza il freddo causato della neve e dell'aria gelata che aveva consumato i suoi vestiti e la sua pelle sporca, graffiata, senza il desiderio di potersi soffiare alito caldo sui polpastrelli quasi blu delle mani, fallendo per colpa di quella maschera di ferro, ancora presente sulla sua testa.
Semplicemente morire chissà dove, lasciandosi scivolare nel sonno più totale, i gabbiani che stridevano al di sopra di lui, liberi come la persona purtroppo non era mai stata.
Ignorò dunque l'ovvio e fastidioso brontolare del suo stomaco, la fame che sembrava mangiarglielo lei stessa, lasciando un buco e una sensazione di sconforto, la stessa che aveva sentito al vedere quella chiave, quella stupida chiave scivolare in acqua, gettata via da quella mano, quella mano che ricordava e non poteva non ricordare, che lo volesse o meno.
Era frustrante come ciò che avrebbe dovuto essere nella persona non fosse altro che una nube scura, senza forma o contorni, mentre la presenza che il suo cuore aveva sempre, dal sempre che almeno poteva ricordare, temuto, ripudiato per il suo atteggiamento, ed invanamente cercato per motivi neppure all'essenza comprensibili, fosse incollata nei suoi pensieri ogni qualvolta che i suoi occhi si chiudevano, sperando per il vuoto.
Lo era perfino in quel momento, con le gambe dell'esistenza senza più nome che tremavano, gli arti superiori che cercavano di appendersi alle mura, la schiena che si strofinava parzialmente contro la stessa superficie di ciò che le falangi accarezzavano a stento.
Perfino in quel momento tanto disperato, la unica persona che l'essenza ricordava tornava a tormentare la sua mente a brandelli, strappando nulla di più che uno spasmo a quelle dita ossee, facendole ripiegare e chiudendole in una morsa tale da fargli sanguinare i palmi.
*
La figura era esausta, esausta come mai era stata, tale che non sapeva neppure perché fosse ancora in piedi, perché le sue gambe non fossero già cedute, perché non fosse già giunta la sua fine.
Camminava da ore.
O forse giorni?
Non ne aveva idea.
Era troppo stanca per tenerne conto.
I suoi sensi andavano e venivano, eppure non smetteva di avanzare a vuoto, tornando con le dita al di sopra del legno, desiderando di poter rimuoverlo subito da dove si trovava, ma sapendo di non dovere, seppur non afferrando il motivo.
Era il suo istinto a dirglielo: un fondo della coscienza che ancora si muoveva nell'essenza, un flebile e fragile fantasma che la comandava sottovoce tramite sussurri, sussurri che facevano pensare alla persona di essere pazza a tratti, ma neanche troppo, anche questa ormai un abitudine, una cosa che sapeva ci sarebbe sempre stata, una costante, per non dire l'unica costante che possedeva.
Zoppicava dunque senza tregua, finalmente raggiungendo la parte interna della città e non più semplicemente qualche strada desolata, sperando di vedere qualche insegna particolare... O magari sperando in principio che quelle occhiate turbate e disgustate in mezzo alla folla di chi si allontanava da la persona come se essa fosse colpita dalla peste, potessero mutare almeno di un accenno, abbastanza da aiutare almeno un po', anche solo per dare un indicazione o due, non si aspettava la fine del mondo... da permettere cosí che le cure necessarie per rimettersi in viaggio le fossero cedute.
Almeno avrebbe potuto cambiare posto, sperare in una meta più piacevole per raggiungere la tappa definitiva, che fosse a piedi o su una nuova barca sarebbe avanzata ancora.
Ma niente.
Solo le solite emozioni venivano lanciate, sempre il solito allontanarsi, inquietati forse dalla pesante maschera di ferro e dalle ossa in vista su quel corpo denutrito.
Se l'essenza trovò il giusto posto, fu solo perché, prima di perdere i sensi, visualizzò e varcò l'entrata di un ospedale, riuscendo a malapena a superare di tre passi la soglia prima di crollare al suolo, non sentendo neppure l'impatto.
*
Il primo odore che sorse era quello di acre disinfettante.
La prima sensazione, invece, di un caldo torpore e parzialmente di del ruvido, dovuta al panno disposto sulle sue gambe e sul torace, fatto di una strana fibra tessile che di certo non doveva essere né cotone né lana.
Gli occhi dell'essenza si aprirono dopo una decina di secondi, nel mentre che parzialmente si gustava quel non so che di pacifico e piacevole, trovandosi a strizzarli per via del soffitto bianco, totalmente diverso da quello scuro della prigione da cui era uscita.
La persona non era ancora abituata a tutta quella luce, a quel candore: i suoi occhi erano stati troppo immersi nella notte più nera, mai libera dalle sue ombre se non nelle sempre più scarse volte, nel passare del tempo, in cui cibo era stato posato davanti alle sbarre, neppure più dalla piccola finestrella nel muro, ma dalle sbarre, forse per dire alla esistenza che per avere nutrimento avrebbe dovuto strisciare, altrimenti non si sarebbe meritata nulla.
Ed il bianco qui, invece, in quella stanzetta chiusa di ospedale, regnava sovrano: l'unico punto in cui variava era proprio il panno, il quale era di un marrone scuro e, portandolo vicino alla maschera di ferro laddove almeno il naso sbucava, aveva un odore strano, proprio come la sua consistenza.
L'essenza dunque, dopo altro tempo indeterminato perso nel cercare di dare un nome a quel non-so-che che catturava tramite tatto ed olfatto, ancora sdraiata su quel letto, provò a tirarsi su, sentendo il fianco lanciare un bruciore che la fece boccheggiare come un pesce fuor d'acqua.
Lasciò dunque che la sua schiena ricadesse sul materasso, provocando un tonfo -un tonfo non abbastanza forte da attirare l'attenzione o comunque far entrare una qualsiasi dottoressa nella stanza- e, guardando con parecchia difficoltà il suo stesso petto, coperto da vari strati di garze.
Per una volta dopo tantissimo, troppissimo tempo, la persona poteva finalmente vedere la sua stessa pelle pulita, quasi in tono con le mura, se non per i piccoli capezzoli rosa, leggermente eretti dal frusciare del panno contro di essi.
I suoi pettorali erano abbastanza evidenti, ma ancora più visibili erano tutte le cicatrici che sorgevano laddove gli occhi della persona scivolavano, parzialmente attenti, poiché il resto della sua mente sembrava soltanto disposta a spegnersi e lasciare che il candido soffitto tornasse a mutare nel nero dell'incoscienza, dovuta ad una stanchezza che la aveva afferrata di nuovo e la stritolava nella sua morsa, come non volendo che rimanesse sveglia.
*
Il secondo momento in cui finalmente fu capace di risvegliarsi, affianco al suo letto vi era una giovane ragazza dai capelli castani legati in una coda alta e parzialmente coperto dalla buffa cuffia rosa che era posata sul suo capo, rosa come la sua tuta da lavoro.
La ragazza teneva in mano una cartellina ed un pacco di fogli che voltava e spostava ogni tre per due, lasciando che il suo sguardo - cioccolato, proprio come i capelli- cadessero sulle braccia della presenza o in generale su varie parti del suo corpo, non più coperte dal panno ma lasciate nella loro nudità imbarazzante.
Eppur, nonostante la mancanza di vestiario, non un accenno di carmino dipinse le pallide gote nascoste della persona, anche perché da come la sconosciuta osservava quel fisico tanto scarno sembrava più fattibile uno sguardo lascivo verso il materasso che in sua direzione.
Quelle gambe magre, quell'addome totalmente privo di sensualità e sessualità, quelle braccia rovinate... Sembravano più un soggetto di studio che qualsiasi altra cosa possibile.
Forse fu per questo che la persona non provò neppure a coprirsi o a muoversi in generale, preferendo rimanere zitta nella sua solita e sollecitata aria taciturna -a tratti la persona non sapeva neppure se era più capace di parlare. Aveva ancora della voce? O no? Ricordava di aver urlato, ma magari, proprio per questo motivo non era più in condizione di spiccicare parola-.
L'essenza batté le palpebre due, tre volte, sperando che la sconosciuta non toccasse nulla in ogni caso, non avendo idea di che tipo di reazione avrebbe dovuto avere in secondo caso, limitandosi ad aspettare che magari ella notasse il suo essere conscia e che comunicasse qualcosa senza aspettarsi risposte.
Non ci volle più di tanto prima che quello sguardo cioccolato viaggiasse verso il volto della persona ed una luce improvvisa di realizzazione lo imperversasse.
L'infermiera, comunque, non accennò sorrisi di alcun tipo.
-Come si sente?- chiese ella, la voce controllata e calma, nel mentre che appoggiava i documenti al tavolino bianco posto affianco al lettino.
La persona non rispose, non ci provò neppure, troppo a disagio per fare tentativi di qualsiasi tipo.
La ragazza dunque, dopo una breve attesa, si strinse nelle spalle.
-Si limiti ad annuire o negare con il capo, se ancora non riesce a parlare. D'accordo?-
Dal tono con cui aveva tirato fuori tale frase, doveva essere abituata a pazienti senza capacità di rispondere: dopotutto era in un ospedale, chissà quante persone con scomode situazioni dovevano essere passate.
La presenza di limitò ad obbedire, annuendo con lentezza.
-Bene.- prese un foglio bianco, cacciato sul fondo della cartellina con i documenti, ed una penna da una tasca della sua uniforme di lavoro -É capace di scrivere come si chiama?-
La persona fissò il pezzo di carta e la penna, poi scosse il capo a negazione.
Al gesto, la dottoressa appoggiò il foglio e la penna dove erano stati in precedenza.
-D'accordo.- una pausa -Mi dica... Ho bisogno di sapere i suoi sintomi. Le gira la testa?-
La persona tornò a scuotere il capo.
-Possibile bruciore agli occhi? Nausea?-
Due volte dei no.
-Ok. Usando le dita, in una scala da uno a dieci, quanto le fa male momentaneamente la ferita che le è stata inferta?-
La persona aggrottò la fronte, poi esibí un quattro tramite pollice, indice, medio ed anulare.
La dottoressa fece un espressione di comprensione, questo prima di riprendere a parlare.
-Molto bene. La ferita che le è stata inflitta a breve termine non mostra segni di infezione, ma ve ne sono diverse che invece soffrono già di pessime condizioni.- la ragazza sorvolò lo specificare quelle precise, cosa per cui la persona fu abbastanza grata -Perciò verrete ricoverato per le prossime due settimane... Ma questo solo col pagamento per le suddette cure. Ha la possibilità di prelevare i soldi necessari per le spese?-
La persona smise letteralmente di respirare alla domanda.
E dopo una serie di istanti in cui non riuscí neppure ad agitare il capo di poco, rispose con un no.
Non si meravigliò del fatto che fu costretto a vestirsi con i suoi abiti precedenti e fu costretta a lasciare l'edificio.
*
Lo stomaco della persona lanciò un ennesimo brontolare, introducendosi nei suoi pensieri anche più di quanto già non fosse, facendole poi percepire un capogiro.
Era nuovamente in strada, stavolta almeno non più sanguinante, ma percependo ripetutamente i morsi della fame che si approcciavano al suo stomaco, come scimmiottandolo.
Troppe volte aveva percepito il gorgogliare che lo prendeva in giro, troppe volte aveva desiderato che questo si interrompesse e non si facesse sentire per tutti i suoi restanti giorni.
Ma come zittire quel borbottare costante se non era capace di mangiare?
Non aveva soldi per comprare nulla, ma in generale non aveva neanche senso provare a rubare qualcosa.
Fino a che quel pesante fardello fosse rimasto sulla sua testa, come un serpente arrotolato sulla sua preda, non avrebbe potuto neppure provare a mettere qualcosa nella pancia in nessun modo: riusciva a malapena a bere, facendo scivolare l'acqua tramite la parte aperta e faticando a fermare le gocce prima che queste scivolassero per il suo collo, inarcato verso la piccola e bassa fontana a testa di leone, posta vicino ad una delle tante panchine nel giardino che si trovava agli argini della città dell'isola.
Era un gran bel parco, parlando del suo aspetto, come d'altronde anche la città in sé di aspetto non era stata proprio nulla di male, ma per via della bestia a digiuno che si trovava nel suo corpo malnutrito, la persona non poteva gustarselo a pieno.
Decise perciò di ignorarlo, preferendo piuttosto procedere nel viaggio, sapendo che non poteva fare altrimenti.
Aveva un posto da raggiungere... non aveva idea di quale fosse, ma doveva arrivare da qualche parte.
Per quanto volesse riposare ancora e dare alla bestia quello che essa necessitava, l'essere non poteva fare altro che continuare a muoversi, sperando di non girare in tondo idioticamente e soprattutto di non cadere ancora, perché temeva di non riuscire a mettersi più in piedi, stavolta.
Dopotutto la presenza era riuscita a farsi rimuovere la scheggia dal fianco, era almeno un piccolo intervento che suggeriva come forse, se essa avesse provato, avrebbe raggiunto qualcosa per davvero, per quanto ne dubitasse sotto sotto.
Doveva solo seguire la vocina nella sua testa, non tutte le altre che facevano presente ogni singolo lato negativo della sua esistenza sotto la roca crudeltà delle parole insistenti, sempre pronte a buttarsi sulle fragilità come un predatore con una gazzella, di lui.
*
Il cammino della persona si interruppe bruscamente.
Non capì come, né perché.
Un attimo prima si era trovata nel solito movimento: gamba destra in avanti, gamba sinistra che deve superare la precedente e così via, ancora, ancora, in un ripetersi che aveva avuto del costante; un attimo dopo invece qualcosa era saltato ed era barcollato, cadendo di nuovo, proprio ciò che aveva temuto di più, la maschera che si schiantava al suolo, provocando un eco che aveva assordato la persona e l'aveva lasciata lí, un calore intenso addosso, cosí intenso che all'essere pareva di andare a fuoco.
Il respiro usciva ed entrava nei suoi polmoni con velocità irregolare e preoccupante, siccome l'ossigeno che cercava di afferrare pareva sfuggire al di sotto dei suoi tentativi.
Ma ancora di più, non comprese perché delle mani si posarono su quel suo stesso corpo, mentre il suo udito sentiva delle parole, senza riuscire a catturarle per davvero, come bloccate, rifiutate dal suo cervello, troppo esaurito per una semplice comprensione.
Poteva dunque solo percepire le mani, posate sulle sue carni, ed il panico si accese nel suo petto, aumentando sempre più il suo respiro, già precedentemente spasmodico .
La figura avrebbe voluto dimenarsi, scappare da quel contatto fisico, ma era davvero troppo debole, troppo affamata, troppo di tutto.
Doveva aver superato i propri limiti, a quanto pareva... E probabilmente non avrebbe mai raggiunto il posto che, in fondo, nascosto dalle nubi prive di contorno, sperava di trovare.
La persona sentiva che sarebbe stata riportata a Germa, poiché l'unica persona che, agli ultimi, lo toccava per ferirlo, apparte quelle facce uguali, era lui.
Quindi, nel suo stato febbrile, l'esistenza si rassegnò all'idea di esser nuovamente rinchiuso, vedendo a malapena i contorni di quello che la circondava quando fu costretta ad alzare un poco il capo, visualizzando... Un procione? No. Aveva le corna. Non poteva essere un procione.
Una renna... Con un cappello?
Doveva stare proprio male, la sua visuale stava giocando alla persona dei brutti scherzi, ne era sicura, anche perché in nessun libro che aveva letto aveva sentito parlare di renne con un cappello e che, soprattutto, sembrava star parlando.
Si lasciò prendere dal buio ancora una volta, ben pronta a scivolarci per il resto dei suoi giorni, fremendo un poco da come l'idea di rivederlo le faceva desiderare di rigettare.
*
Risvegliarsi, trovandosi a fissare un soffitto in legno, lasciò la persona a dir poco perplessa e confusa.
Anche stavolta era su un letto, ma questo aveva delle coperte soffici, quasi come della seta e queste lo circondavano in maniera cosí affettuosa che il suo primo istinto era stato quello di rigirarsi in esse come in un involtino, ma bloccandosi dal fare qualsiasi cosa al sentire sempre delle voci in sottofondo, ancora lontane al suo udito, ma non come in precedenza, difatti iniziava ad afferrare delle parti di parole dette, anche solo a spezzoni in partenza, poi sempre di più.
-Non posso non chiedermi chi sarebbe cosí disumano dal fare una cosa del genere- fece a mezza voce uno, il cui timbro acuto sembrava palesemente da bambino.
-Se per quello, io penso invece di sì, Doctor~san- rispose invece una donna -Ma la cosa più importante, in questo momento, penso che sia un altra.-
-Già- fece una terza persona -Quando si mangia?-
-Ma tu pensi solo a mangiare? Robin parlava della maschera, della maschera!-
Un tonfo.
-Ahi! Ma Nami, io ho fame! E sono sicuro che anche lui ne ha, shishishi-
A conferma della cosa, lo stomaco della persona emise un ennesimo ed ovvio brontolare.
-Visto?- la voce continuò, allegra -Era il suo, non il mio. Ed é pure sveglio... Sveglio... É sveglio?- il tono si fece a domanda confusa - É sveglio.- continuò, non dandosi neppur tempo prima di catapultarsi letteralmente contro il letto, mozzando il fiato dalla sorpresa alla persona, la quale rimase a fissarlo con vago panico.
Agli occhi della persona apparse quello che doveva essere un ragazzino di, a malapena, diciassette anni, con i capelli neri, un sorriso smagliante ed un cappello di paglia sulla testa.
-Chopper, lui é sveglio! Shishishi- il ragazzo rise di nuovo, parlando verso il lato da cui era apparso, venendo seguito dalla stessa renna che la persona aveva già visto in precedenza, fissando prima uno e poi l'altro con l'intero corpo nuovamente paralizzato sul posto, deglutendo a vuoto.
La persona doveva essere impazzita del tutto, sul serio.
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