Chapitre 3

I DON'T EVEN KNOW YOUR NAME

Il nostro soggiorno in casa è difficile già dal secondo giorno: la mattina, la mia sveglia suona presto, mentre tutti ancora dormono. Peccato che io non abbia rimesso la sveglia. Sopra vi è un post-it scritto con una calligrafia ordinata:

Prepara la colazione. -S

Mi ero dimenticata che il nome di M.me Taylor fosse Sonia. Non capisco perché dovrei fare ciò che mi ha chiesto, ma quando sto per riaddormentarmi, pochi minuti dopo, suona un'altra sveglia su cui è attaccato un altro post-it.

Spero tu non voglia sperimentare le punizioni. -S

Punizioni? Quella donna è fuori di testa. Siamo sotto la sua tutela da meno di ventiquattr'ore e già si mette a parlare di punizioni come fossimo bambini piccoli. Mi rimetto a dormire, fino a quando non sento dolore alla testa.
— Ahi, ahi, ahi! — gemo quando mi accorgo che M.me Taylor mi sta trascinando nel suo ufficio dopo avermi afferrata per i capelli. — Che problemi hai?
— Hai scelto la punizione — mormora minacciosamente. Con una forza che non avrei mai attribuito a una donna così minuta, mi preme il petto sulla scrivania e mi sculaccia con non so cosa. Le lacrime mi bagnano le guance quando arriva alla quinta o sesta.
— Ti prego, basta — sussurro a causa di un nodo alla gola.
— Ai miei tempi se ne davano dieci, e dieci ne meriti.
Quando ha finito mi afferra il viso con una mano e le sue unghie mi si conficcano nelle guance. Mi intima di preparare la colazione e, di corsa, lo faccio. Quando gli altri si svegliano trovano pancake caldi con sciroppo d'acero, burro e cioccolato e bicchieri con succo di frutta all'arancia.
Mio fratello mi guarda con sospetto e mangia lentamente, osservando i miei movimenti. Nota di sicuro che non mi appoggio mai al piano cottura con il sedere e che ogni tanto mi mordo un labbro o stringo gli occhi dal bruciore. Subito dopo la colazione, mi trascina in camera e mi esamina il viso. — Qu'il t'est arrivé?
Gli dico tutto tenendo lo sguardo basso. Eric mi abbraccia, prima di cercare un po' di olio per bambini. L'intimità che c'è tra noi mentre me lo mette dolcemente sul sedere non mi è nuova: Eric mi è stato accanto durante il mio primo ciclo mestruale e, da piccoli, io lo aiutai quando cadde dalla bicicletta e si fece male alle chiappe.
Je vais lui dire un mot ou deux — borbotta alla fine.
— Eric, no.
Borbotta qualcosa di offensivo verso M.me Taylor in francese camminando avanti e indietro per tutta la camera, poi si siede a terra.
Ça ira — lo rassicuro. — Je sort! — annuncio poi. — À plus tard.
Mi metto le scarpe, afferro il mio cellulare ed esco. Cammino senza meta, fino a quando non mi trovo di fronte al salone di un parrucchiere chiamato Studio Fontana. Tengo tra le dita una ciocca di capelli e faccio una smorfia. Con la fotocamera interna del cellulare noto la ricrescita bruna, così decido di entrare. — Salve — saluto i parrucchieri che corrono da un cliente all'altro tra il profumo di shampoo e il rumore dei phon.
— Ciao! — mi accoglie con aria frizzante una ragazza dai capelli rossi fiammeggianti. — Hai un appuntamento?
— No.
— Oh, va bene lo stesso. Vieni con me, bella bionda. — Mi fa sedere su una poltroncina marrone scuro, davanti a uno specchio longilineo. Guardo il riflesso delle sue mani infilarsi tra i miei capelli per renderli voluminosi mentre mi chiede: — Cosa facciamo?
— Vorrei tingerli.
— Che colore ti piacerebbe?
Ci penso su. Voglio qualcosa di originale, che faccia gridare dallo scalpore M.me Taylor e faccia voltare i passanti. Voglio essere notata, per una volta. — Rosa — rispondo dopo un po'.
Mi mostra una scala di colori e io ne scelgo uno chiaro come lo zucchero filato. Dopo qualche ora in cui la parrucchiera mi ha fatta sembrare un barboncino infilandomi del cotone tra i capelli, ha lasciato aderire il colore alle ciocche e me le ha lavate, mi ritrovo di nuovo di fronte allo specchio.
— Ti lascio in compagnia di un esperto di taglio e asciugatura — mi assicura Debora. Mentre mi torturava il collo con il lavatesta abbiamo parlato tanto e ho scoperto che si chiama così.
Annuisco con un sorriso, prima di veder comparire alle mie spalle un uomo dall'aria simpatica. — Come li asciughiamo, bella? — mi chiede.
— Naturali — rispondo con un pizzico d'imbarazzo.
Pettina i miei capelli con le mani, poi improvvisamente prende due ciocche dai lati del viso e le unisce dietro. — Che ne dici di qualcosa del genere?
— Magari due treccine — propongo.
— E qua dietro un bel fiocco nero.
Annuisco entusiasta e passa un'altra ora buona prima che io possa finalmente uscire dopo aver pagato con la mia MasterCard. Riprendo la strada verso casa, fino a quando non vado a sbattere contro qualcuno e cado a terra.
— Oddio, scusa! — Una grande mano afferra la mia minuta e mi aiuta a rialzarmi, ma finisco premuta contro un petto muscoloso dalla forza con cui mi tira. Finisco incastonata in un paio di occhi color caramello. Analizzo velocemente i capelli bruni, la pelle abbronzata, i lineamenti decisi, l'occhio pigro e le labbra leggermente carnose schiuse del mio scontro. Un bellissimo scontro, direi. — Scusa — sussurra stavolta.
Mi allontano arrossendo e faccio un piccolo sorriso. — Non c'è problema — rispondo. Alzo leggermente lo sguardo, giocherellando con un braccialetto che porto al polso, e ammiro il metro e ottanta che mi sovrasta: alto e palestrato, il ragazzo indossa una semplice T-shirt nera e un paio di jeans neri. Noto la custodia di una chitarra sulla sua spalla e una macchia di inchiostro sull'avambraccio destro: sembra una chitarra, ma guardandolo meglio vedo che sembra una traccia audio o un paesaggio di alberi riflesso.
— Stai bene? — mi chiede.
— S-sì, abbastanza, grazie.
Mi sorride sollevato e io non posso fare a meno di trattenere il fiato, notando una fossetta. Quando sorride, il suo occhio pigro si fa più evidente, ma nessun eroe è perfetto. Ma che sto dicendo? mi chiedo. Eppure, quella piccola imperfezione, come quel piccolissimo spazio tra gli incisivi centrali, lo rendono perfetto ai miei occhi.
— Suoni la chitarra? — gli chiedo timidamente.
Annuisce con entusiasmo, prima di porgermi la mano. — Sono Shawn.
La stringo, ma la ritiro velocemente a causa di una strana sensazione che provo quando ci tocchiamo. — Cheri — rispondo.
— Be', Cheri, mi dispiace averti urtata.
— A me no — sussurro per non farmi sentire.
Purtroppo lui emette una risatina con imbarazzo e si gratta il retro della nuca, arrossendo in modo adorabile.
— Scusa — dico subito, mettendomi una mano davanti alla bocca.
— Non importa, tranquilla. Sei carina, Cheri.
Adesso è il mio turno di arrossire. Mi cade lo sguardo sul suo orologio e vengo colta dal panico. — Merde! È tardissimo, devo tornare a casa.
Lo supero mentre mi saluta: — A presto, Cheri!
— Ci conto, Shawn! — rispondo, nella speranza di rivederlo davvero presto.

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