Capitolo 8
Il suo riflesso nel finestrino confondeva la visuale.
Ammirava le strade ancora per poco deserte sotto la luce calda del sole: un ragazzo che correva lungo il marciapiede, un signore che portava a spasso il proprio cane, e una donna che sistemava la vetrina del suo negozio, in vista dell'apertura che sarebbe giunta a momenti. Poi totalmente sommersa da una valanga di pensieri e preoccupazioni, intravide la sua immagine e il suo viso assonato, in primo piano sul vetro, mentre la città di Santa Ana scorreva veloce nello sfondo. Sbadigliò forse un po' troppo rumorosamente, non curandosi della ragazza seduta accanto a lei, che adesso la guardava infastidita, tenendo stretta dal manico la sua valigia.
Aveva gli auricolari nelle orecchie, e una canzone dei Green Day accompagnava ad alto volume quelle immagini che veloci ammirava fuori dal bus. Sbadigliò ancora, troppo stanca perfino per portarsi una mano davanti la bocca, poi mettendo sul serio a dura prova la pazienza della sua vicina di posto, cominciò a mormorare le parole di quella canzone, in quello che sembrava potesse essere un lamento fastidiosissimo alle orecchie di chiunque, soprattutto a quell'ora del mattino.
Il bus si fermò, le porte si aprirono, e sollevata di non dover trascorrere nemmeno un minuto in più con Hazel e le sue prestazioni canore del tutto deludenti, la ragazza scese dall'autovettura insieme alla sua valigia, incamminandosi svelta verso l'entrata delle Departures.
Hazel l'accompagnò con lo sguardo fin quando non riuscì più a vederla, dietro le porte scorrevoli, poi si decise ad alzarsi, strappandosi via dalle orecchie gli auricolari ancora sonanti. Prese il suo zainetto da terra, se lo mise in spalla, e scese dal bus. Poi tentò per l'ennesima volta di annodare pressoché in maniera dignitosa il suo foulard rosa al collo, facendo attenzione a non aggrovigliare il tutto al collarino dalla quale pendeva il suo tesserino aeroportuale. Sbuffò, contenta di esser finalmente arrivata.
Non sarebbero mai passati inosservati. Sia a causa delle loro beretta 90 di un nero luminoso, che spiccavano fra tutto quel verde delle loro divise, sia perché nessuno sarebbe mai riuscito ad ignorarli del tutto, mentre sfilavano bellissimi, mantenendo un atteggiamento serio e professionale. Ispezionavano l'area esterna dell'aeroporto analizzando ogni minimo dettaglio, dai volti e i comportamenti dei passeggeri, alle dimensioni delle loro valigie.
Evan in particolare, sembrava quello più attento. Teneva sotto il suo controllo ogni cosa, scrutando la gente in ogni loro gesto, e nel caso in cui i suoi prontissimi riflessi avessero colto qualsiasi tipo di rumore o movimento sospetto, sarebbe stato pronto a scattare in un attimo. Si muoveva cauto, con una mano sulla fondina dove teneva la sua pistola, e l'altra che reggeva il pesante gilet tattico che indossava, imbottito di caricatori e altri accessori.
Peter e John invece, erano un po' il suo supporto. Era già capitato più volte d'altronde, che dovendo intervenire in una situazione d'emergenza, il primo a scattare fosse stato proprio Evan.
Era veloce, scaltro e sempre attento ai minimi dettagli.
Così mentre analizzava attentamente l'esterno della zona partenze, mai e poi mai le sarebbe sfuggita.
La notò subito, mentre scendeva da un bus intenta ad aggiustarsi il foulard. Vederla in divisa, così elegante e diversa rispetto all'ultima volta che si erano visti, lo stupì. L'aveva conosciuta così, in tenuta da hostess con un aspetto sempre impeccabile, ma doveva ammetterlo, si trovava molto più a suo agio con la ragazza semplice in jeans e maglietta, quella con cui aveva bevuto e giocato a biliardo per una serata intera. Probabilmente perché in quel contesto, anche lui non era altro che un semplice soldato in libera uscita che trascorreva una serata con i suoi amici, libero dagli obblighi della sua divisa, libero di lasciarsi andare almeno un po', ma non in quel momento. Adesso, che indossava la sua uniforme e aveva con sé la sua pistola, si sentiva in qualche modo obbligato a mantenere un atteggiamento distaccato, a metter da parte la sua amicizia con Hazel, costretto a tenere a bada il ragazzo gentile e dolce che era, e rinunciare così ad avvicinarsi a lei anche solo per salutarla, e scambiare magari qualche parola. Sospirò, adesso avanzando più lentamente, e rimanendo così indietro rispetto ai suoi compagni. Non poté fare a meno di desiderare che non lo notasse, che non si accorgesse di lui. Era da stupidi, ne era consapevole, ma non voleva che Hazel influenzasse la sua prestazione in nessun modo, non voleva permettere che quella ragazza, così solare, spontanea e bella – tutte cose che lo attraevano incredibilmente – potesse scomporre il soldato duro, freddo e serio che Evan si era tanto impegnato a diventare. Così per un attimo abbassò lo sguardo, cercando di nascondere il volto sotto l'ombra del suo berretto nero, sperando di riuscire a mimetizzarsi tra tutti quei passeggeri. Poi sollevò il capo, guardando dritto davanti a se. Cazzo.
Non riuscì a trattenersi, così cominciò a imprecare a bassa voce, mentre John e Peter, ormai lontani, stavano già di fronte ad Hazel impegnati ad intrattenere una conversazione con lei. Mollò la presa dal suo tattico, e si strofinò le mani sudate sulle cosce per asciugarle.
Sospirò ancora, poi decise di zittire quella voce che dentro la sua testa gli raccomandava di rimanere al suo posto, e avanzò a passo più veloce, raggiungendo così i suoi amici.
Sperò con ogni sua forza che né suo padre né il sergente Cooper si trovassero nelle vicinanze, perché se mai li avessero visti scherzare con una collega mentre l'area era totalmente scoperta da ogni tipo di sorveglianza, avrebbero sicuramente dato di matto davanti a tutti, per non parlare delle conseguenze che sarebbero potute esserci per i tre.
Così eccolo che si avvicinava contento, sorridendo sornione, e rilassando ogni suo muscolo. Non appena gli fu davanti, Hazel cambiò improvvisamente espressione. Gli occhi le si illuminarono come un fuoco nel buio della notte, e il sorriso, onnipresente su quel viso così gentile, sembrò diventare una prerogativa unica ed accessibile solo a quel soldato.
Rivolse il suo sguardo solo a lui, adesso che le si piazzò davanti, dimenticando per un momento gli altri due soldati ai suoi lati, ignorando completamente qualunque cosa le stesse chiedendo John, e riservando la sua attenzione solo ed esclusivamente al moro, che adesso, aveva soppresso quell'atteggiamento duro e altezzoso, facendo spazio ad un espressione più gentile e dolce. "Ciao" le disse solo stranamente timido Evan, mentre le sue guance si coloravano di rosa.
"Buongiorno soldato!" lo salutò più allegra e sicura di sé la ragazza.
Peter e John rimasero a guardarsi confusi per un paio di secondi, mentre i due ragazzi continuavano a fissarsi intensamente in silenzio. Peter si sentì ovviamente di troppo, mentre John assunse quasi un'espressione infastidita. Poi il biondo parlò, subito dopo essersi voltato a guardare un uomo che correva verso l'entrata, probabilmente in ritardo per il suo volo. "John" chiamò il suo amico, muovendosi rapidamente verso l'uomo in questione. John lo seguì, sebbene avesse sicuramente preferito rimanere lì con Hazel e Evan. Quest'ultimo, un po' in preda al panico, e un po' felice della mossa astuta del suo amico – capace di capire cosa volesse Evan, prima ancora che riuscisse a capirlo da solo - , iniziò a parlare, per niente sicuro di cosa stesse per dire. "Non è strano trovarci qui, ognuno nella propria uniforme, dopo esserci ubriacati insieme solo qualche giorno fa?" fu spontaneo e sincero.
Hazel gli sorrise, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio "Sono solo dei vestiti! Tu sei sempre il mio amico in divisa, ed io la stessa frana a biliardo dell'altro giorno" rispose sincera, sfiorandogli una spalla per indicare la giacca mimetica.
Il ragazzo le sorrise "Non eri così male" disse, poi si accorse di quanti milioni di significati avrebbe potuto dare a quella frase Hazel, e si corresse subito. "Intendo a biliardo: sei stava brava" iniziò a gesticolare innervosendosi. Hazel rise, per niente in imbarazzo, ma piuttosto divertita "Nemmeno tu eri così male" disse "Intendo senza divisa" ammise coraggiosa. Evan sollevò lo sguardo all'improvviso, puntando i suoi meravigliosi occhi azzurri dritti in quelli castani della ragazza.
Era colpito, lusingato e imbarazzato. Le sorrise, con le guance di un rosa più acceso, poi guardò più attentamente il viso della sua amica.
Ripensò a quello che gli aveva detto John il giorno in cui per la prima volta Hazel rivolse loro la parola. E gli diede ragione, anzi, pensò pure che la sua bellezza fosse proprio minimizzata dalle semplici parole molto carina. Quella di Hazel era una bellezza diversa, semplice ma per niente banale. Le lunghe onde color cioccolato dei capelli, richiamavano perfettamente il marrone più scuro dei suoi occhi, disegnati da una linea affusolata che ricordava quasi dei tratti orientali. E la bocca, quelle labbra rosee e piene erano una cornice perfetta per quel sorriso a dir poco mozzafiato. "Sei incredibile" disse stupito sorridendole "Intendo in uniforme e in jeans" ammise, dimenticando per pochi secondi che stava ancora indossando la sua divisa.
"C-cosa?" chiese incredula ridendo. "Sì, sei incredibile. Riesci sempre a trovare un modo per sorprendermi, e lasciarmi senza parole" le spiegò meglio. "Non è un male, giusto?" gli chiese confusa, per una volta più stupita di lui. "Non riusciresti mai ad essere un male, Donovan" disse piano, riuscendo probabilmente a non farsi sentire nemmeno, quando Hazel spostò lo sguardo verso il walkie-talkie che suonava nella tasca dei suoi pantaloni mimetici.
"Blake! Emergenza alle partenze, emergenza alle partenze!" sentirono urlare da una voce robotica. Evan ritornò velocemente alla realtà, cambiò improvvisamente espressione, ed estraendo il walkie-talkie dalla tasca, cominciò a correre verso la zona partenze.
Mentre Hazel, sconvolta, rimase lì in silenzio da sola. Si voltò a guardarlo confusa e preoccupata, non riuscendo a dare una spiegazione a quello che era appena successo. Poi si concesse giusto un paio di secondi per riprendersi, così chiuse gli occhi, sospirò, e iniziò ad allontanarsi, sorridendo come un'ebete non sapendo bene nemmeno perché.
Camminava a passo svelto, confuso e irritato, cercando di stare dietro al suo amico, e non preoccupandosi minimamente dell'uomo che stavano inseguendo. All'improvviso tutti i suoi sospetti si materializzarono di fronte a lui nelle vesti del suo amico Evan e della ragazza per cui si era preso una cotta. L'immagine di loro due che giocavano a biliardo avvinghiati l'uno con l'altra, il ricordo di qualche giorno prima quando seduti al tavolo per il pranzo sembravano parlare in codice, dando l'idea di voler nascondere qualcosa, e adesso quella scena fin troppo imbarazzante in cui né Evan né Hazel riuscivano a togliere lo sguardo di dosso l'uno dall'altra.
John non sapeva bene come si sentisse: probabilmente arrabbiato, anche se non capiva con chi, ma anche frustrato dall'idea di volere qualcuno che non lo considerava minimamente. Strinse i pugni, poi abbandonando i suoi mille cattivi pensieri si accorse finalmente di ciò che stava accadendo a pochi passi da lui. Peter e altri due poliziotti avevano circondato l'uomo che avevano visto correre solo qualche attimo prima: il suo amico adesso gli controllava la valigia, mentre i due agenti avevano già cominciato con le domande. Si affrettò a raggiungerli, proprio nell'istante in cui il suo walkie-talkie lanciò l'allarme. Diede un'occhiata furtiva all'uomo impegnato in una conversazione con i due agenti: aveva all'incirca una quarantina d'anni, capelli brizzolati neri, occhi azzurri infossati e un'aria spaventata, come se non sapesse bene nemmeno lui cosa ci facesse lì.
L'agente Rosewood continuava a ripetergli la stessa domanda "Qual è il suo nome?", ma l'uomo, in preda al panico non smetteva di dar voce a parole insignificanti, non riuscendo nemmeno a formulare una risposta sensata.
"Che succede?" chiese a Peter, poi fu stupito nel vedere Evan correre proprio verso di loro, più agitato che mai. "Qual è l'emergenza?" chiese anche il moro piazzandosi fra i suoi due amici.
John lo guardò con un'espressione infastidita, e Evan, da sempre capace di cogliere da un semplice sguardo l'umore e lo stato emotivo di chiunque, ne rimase pietrificato, quasi dispiaciuto. Peter poi rispose, riuscendo finalmente a forzare il lucchetto della valigia sulla quale smanettava ormai da un paio di minuti "Sembra che il signore qui abbia aggredito un agente, sia in possesso di documenti falsi, e abbia perso la facoltà della parola".
Evan e John rivolsero lo sguardo all'uomo, che finalmente sembrava essersi ricordato il suo nome, poi quasi per sbaglio, si guardarono ancora, e nuovamente John diede l'impressione di non riuscire nemmeno a sopportare la sua presenza. "Ragazzi, noi lo tratteniamo per un interrogatorio" annunciò Rosewood "Noi ci occupiamo di questo" lo seguì Evan, indicando il bagaglio davanti a lui.
"C-cosa? Ma il mio volo parte tra mezz'ora" obbiettò l'uomo "Farà meglio a cercarsene un altro se non vuole annullare la sua vacanza... a proposito, dove ha detto che è diretto?" sentirono in lontananza i tre ragazzi mentre i due agenti si allontanavano scortando l'uomo verso la centrale.
Era confusa, ma allo stesso tempo si sentiva felice.
Aver scambiato qualche parola con Evan quella mattina l'aveva decisamente messa di buon umore, oltre al fatto che adesso si sentisse sicuramente più sveglia e pimpante. Nel tragitto da casa all'aeroporto aveva rischiato di riaddormentarsi sul sedile del bus un paio di volte, ma adesso poteva anche fare a meno del suo caffè quotidiano.
Evan le aveva detto di essere incredibile, di avere la stranissima capacità di lasciarlo senza parole ogni volta che gli parlava, e doveva ammetterlo, adorava sapere di essere sempre una sorpresa per lui. Così, proprio come una bambina davanti ad una torta il giorno del suo compleanno, aveva ancora quel sorriso da ebete incollato in faccia. Gettò il suo zainetto sotto il bancone, tentò di annodare per l'ennesima volta il suo foulard, stirò con le mani le grinze della sua giacca, poi, si sedette alla sua postazione.
Avrebbe trascorso l'intera giornata dietro la scrivania del check-in, controllando passaporti e stampando carte d'imbarco senza sosta, parlando ogni volta una lingua diversa e sorridendo ad ogni passeggero anche quando la sua pazienza sarebbe arrivata al limite.
Così ecco che una coppia si fece avanti, documenti alla mano e bagaglio alle calcagna.
"Salve!" la salutò la ragazza porgendole le varie scartoffie. "Buongiorno!" rispose cordiale Hazel, prendendo le loro carte d'imbarco.
Parigi – lesse sulla ricevuta di prenotazione.
Così, fu inevitabile tornare indietro nel tempo. Le sue mani si paralizzarono per pochi attimi, ma furono abbastanza per farle riaffiorare alla mente il suo viaggio a Parigi di soli due anni prima.
Alzò lo sguardo verso i due giovani di fronte a lei, che nel frattempo si guardavano proprio come se non ci fosse nessun altro lì a parte loro. Erano belli, felici ed emozionati per la partenza.
Hazel sentì una morsa al cuore, e si immaginò proprio al posto di quella ragazza, lì con Noah, pronti per la loro vacanza in Europa.
Ed ecco che la spensieratezza e l'allegria sparirono velocemente, spazzate via in un attimo da un semplice ricordo.
Quell'aeroporto sembrava volergli ricordare Noah in qualsiasi modo: ogni volta che provava a fare un passo in avanti lasciandosi alle spalle la sua storia con lui, ecco che qualcosa d'improvviso glielo ricordava di nuovo. Hazel non poteva sopportarlo, non adesso che sembrava avere tutto in regola per iniziare un nuovo capitolo della sua vita. Aveva un lavoro, dei nuovi amici, e dei nuovi progetti.
E Noah non meritava così tanta considerazione; ricordarlo, ripensare a lui, non significava niente, non quando davanti a lei tutto sembrava andare per il meglio. Le aveva spezzato il cuore, aveva gettato via tutti quegli anni passati insieme, tutti quei momenti indimenticabili, quei segreti, quei sogni e quelle paure, tutto mandato in frantumi in un attimo.
Era bastata una notte, una ragazza che non era lei, ed ecco che tutto scomparve velocemente.
La verità era che mai e poi mai Hazel avrebbe immaginato il suo Noah come un traditore. Lo aveva sempre considerato un ragazzo fin troppo leale e sincero, incapace di mentire o ancora peggio di prendere in giro e tradire. Ecco perché per Hazel fu un colpo fin troppo duro da incassare.
Ogni giorno dall'istante in cui Noah decise di confessare il suo tradimento, fino al momento in cui finalmente Hazel troncò ogni tipo di rapporto con lui, era stato devastante. Aveva aspettato abbastanza tempo per poter dire di non volerci provare più. Lo aveva perdonato un numero sufficiente di volte per decidere di non volerlo più nemmeno vedere. Aveva provato a dimenticare quello che era successo, lo aveva fatto rientrare nella sua vita dopo una lunga pausa, aveva concesso a se stessa di amarlo di nuovo, ma poi aveva capito che certe ferite nonostante le cicatrici, saranno sempre lì a ricordarti quanto male hanno fatto, e Noah, niente e nessuno le aveva fatto più male di lui prima d'ora. Così lo aveva lasciato, esausta e sconfitta aveva deciso di riprendere nelle sue mani la sua vita, lasciarsi tutto dietro le spalle, e provare almeno a dimenticarlo.
Ma evidentemente il ricordo di Noah sarebbe stato indelebile nella sua testa e sulla sua pelle ancora a lungo.
Fece un profondo respiro, attenta a non attirare l'attenzione dei due passeggeri, per fortuna ancora troppo occupati fra loro per preoccuparsi dell'hostess con problemi di cuore. Attaccò un adesivo alla loro valigia, assegnò loro due posti nell'aereo che li avrebbe accompagnati nella città dell'amore, poi con un sorriso teatrale riconsegnò loro documenti e biglietti, salutandoli gentile.
Poi rivolse una veloce occhiata al braccialetto pieno di ciondoli che portava al polso. La Tour Eiffel in miniatura placcata in argento luccicava sotto la luce artificiale dei neon del check-in, e nonostante la nostalgia, nonostante la rabbia e la delusione, un sorriso le illuminò il volto d'improvviso. Noah era stato un grandissimo idiota: aveva lasciato che uno stupido litigio con Hazel, quel giorno, seguito dalla frustrazione e dalla rabbia del momento, lo trascinassero negli abissi ingannevoli dell'alcol, facendogli perdere la testa, la lucidità e quel minimo di dignità che gli era rimasto, portandolo a tradirla.
Ma nonostante le mille ragioni per cui Noah poteva essere considerato solo un coglione senza scrupoli, Hazel gli voleva ancora fin troppo bene.
E il fatto che tenesse ancora con sé il ciondolo simbolo della città di Parigi da lui regalatogli, o che rabbrividisse ogni qual volta che qualcuno o qualcosa le faceva riaffiorare alla mente il ricordo di lui e di tutto ciò che lo riguardava, erano la prova che almeno per ora, Hazel non avrebbe potuto dimenticare o cancellare così facilmente una parte così importante della sua vita come era stato lui.
Stavano rovistando fra la roba di Arthur Shelby – scoprirono che era quello il suo nome da un'agenda trovata in mezzo a tutte le sue cose -, così dopo un veloce test anti-droga risultato negativo, raccolsero tutto ciò che di sospettoso avevano trovato in quella valigia, pronto per esser consegnato all'agente Rosewood che avrebbe deciso cosa farne, sia di quella roba che dell'uomo. Tutto ciò che avevano tra le mani era un coltellino da collezione con inciso un particolare simbolo sul manico, un'agenda dalla quale fuoriuscivano ritagli di giornale e fotografie, e un vecchio cellulare dei primi del 2000.
Evan mise tutto in una bustina di plastica, poi decise di portarla subito in centrale, mentre Peter e John rimasero lì in attesa dei risultati degli ultimi test antidroga da parte del laboratorio.
Così Evan cominciò a ipotizzare, immaginando le spiegazioni più assurde che l'uomo avrebbe potuto dare sul perché portasse con sé in viaggio oggetti simili. Ma la figura di suo padre, il signor Blake, che aveva notato in lontananza mentre parlava con un altro agente, lo fece rallentare.
Non gli aveva più parlato, non dopo la loro discussione in centrale sul perché l'atteggiamento di Evan fosse cambiato così tanto in seguito al suo ritorno a Santa Ana. Per quei pochissimi giorni che Evan era stato a casa, non era capitato nemmeno accidentalmente che i due si fossero trovati da soli per provare a parlarne di nuovo, visti i turni di lavoro assurdi del signor Blake, e considerato che l'unico momento in cui Evan aveva trascorso del tempo a casa, era stato proprio per il pranzo con i nonni. Così adesso eccoli insieme, con la possibilità di parlarsi di nuovo, dopo l'infuriata di pochi giorni prima. Evan rivolse una veloce occhiata al sacchetto di plastica fra le sue mani, si chiese se fosse il caso di consegnarlo subito e lasciar perdere suo padre, poi vide Blake salutare il suo amico e camminare verso di lui. "Ciao" disse l'uomo piazzandosi di fronte al figlio. "Papà" rispose solo il ragazzo.
"Ieri sei andato via presto, non ti ho nemmeno visto uscire di casa" disse Colin Blake. "E' stato il nonno ad accompagnarmi, doveva andar via presto e tu non eri ancora rientrato dal lavoro" si spiegò il moro.
"Avrei potuto accompagnarti io, lo sai vero?" chiese Blake sembrando di colpo più premuroso, "Be' il nonno voleva che passassimo ancora un po' di tempo insieme, e pensavo saresti stato troppo stanco" non fece in tempo a terminare la sua frase che Colin riprese a parlare "Quello che è successo con Logan... Non ti avrei mai fatto andare da solo soltanto perché hai massacrato un mio sospettato, lo sai questo, non è vero?" disse sembrando quasi dispiaciuto per aver attaccato il figlio in malo modo, quando prese a pugni il ragazzo che aveva scoperto essere colui ad aver fatto lo stesso con suo padre. "Lo so..." rispose sorpreso Evan "Ho solo cercato di evitare quello che sta accadendo proprio adesso, ovvero la seconda parte della tua predica. So di aver sbagliato, so di aver esagerato, di aver anche rischiato, ma davvero, starmene da solo per giorni a pensarci su è servito molto più delle tue ramanzine" fu duro ma sincero il giovane.
Blake lo stava a guardare colpito dalle sue parole "In realtà anche io ho pensato molto a quello che è successo, e non intendo solo a come hai fatto nero Logan, sto parlando anche di ciò che mi è accaduto non molto tempo fa, di come possa averti fatto sentire sapere che qualcuno aveva fatto del male a tuo padre, senza essere nemmeno a conoscenza di che faccia avesse questo qualcuno... Immagino tu ti sia sentito frustrato, arrabbiato, impotente" "Avevo appena diciotto anni: ho messo sotto sopra il tuo ufficio per giorni, ho cercato indizi sul tuo cellulare, il tuo pc, un tuo collega mi ha addirittura scoperto una sera in cui ti avevo seguito fino in centrale... Avevo paura che potesse riaccadere, e ho cercato colui che adesso pare essere Logan per settimane, pedinandoti... Ho rischiato di impazzire!" spiegò ricordando ancora perfettamente come si fosse sentito all'idea che la vita di suo padre potesse essere in pericolo, gli occhi lucidi, e le vene del collo che visibilmente pulsavano, sotto la sua pelle chiara.
Suo padre lo guardava colpito, e solo adesso sembrava capire "Non ho mai saputo niente di tutto ciò, e evidentemente, troppo preso dal mio lavoro, non mi sono nemmeno mai accorto di quanto tu fossi preoccupato e terrorizzato. Evan, quello che sto cercando di dirti è che malgrado io pensi che il tuo comportamento sia stato comunque sbagliato, da agente, come padre e in veste di colui che ha vissuto tutta questa storia in prima persona, riesco anche a capire e in qualche modo a giustificare quello che hai fatto. Ci ho pensato, e sono arrivato alla conclusione che se avessi avuto davanti ai miei occhi la persona che ti ha sparato a Baghdad, probabilmente avrei fatto anche di peggio" ammise il signor Blake, indicando il petto del figlio, che sotto a quella divisa, nascondeva un'enorme cicatrice.
Evan rimase a guardare il padre profondamente stupito. Non riusciva a credere alle sue parole, era sconvolto, ma allo stesso tempo si sentiva finalmente compreso. Dopo pochi secondi, un sorriso gli illuminò il volto, così felice e soddisfatto tentò di dire qualcosa.
"Se tu sapessi chi è stato a spararmi, probabilmente sarebbe già morto, o a marcire dentro una cella" disse Evan, la mandibola serrata in un'espressione carica di rabbia.
"Se può consolarti, è proprio dove si trova adesso Logan" annunciò il signor Blake, facendo trasparire un sottilissimo velo di soddisfazione mischiato ad orgoglio dal suo volto. Evan rimase sorpreso, ma prontamente rispose ricomponendosi "Poteva andargli peggio. Se Peter e Chris non mi avessero fermato probabilmente" stava per aggiungere qualcos'altro, poi suo padre lo interruppe nuovamente.
"Devi promettermi che niente del genere capiterà di nuovo. C'è in gioco la tua carriera, oltre al fatto che la prossima volta potresti farti sul serio del male" disse, guardando la mano destra del figlio ormai cosparsa di lividi dalle tonalità violacee. Evan la sollevò ruotandola, e Blake notò le brutte ferite sulle dita ormai in via di guarigione. Reagì impressionandosi a mala pena, mentre il figlio ammirava la sua mano con accenni inquietanti di orgoglio e soddisfazione celati nel suo sguardo. "Lo prometto" disse poi semplicemente, riabbassando la mano ferita.
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