Capitolo 7
"I'm walking down the line that divides me somewhere in my mind,
On the border line of the edge
and where I walk alone.
Read between the lines what's fucked up,
and everything's all right,
Check my vital signs to know I'm still alive, and I walk alone"
Boulevard of broken dreams, Green Day
Vide il sole sorgere alle prime ore del mattino, con le luci dell'alba che filtrando attraverso le serrande della sua camera, la illuminarono in parte.
Così come se fosse quasi in un sogno, visto quanto risultasse surreale perfino ai suoi occhi, Evan si svegliò stranamente prestissimo. Considerato che fosse domenica poi, e che la sera prima era rientrato piuttosto tardi, non riusciva a credere di essere già sveglio. Per una manciata di minuti, rimase al caldo sotto le lenzuola, poi decidendo finalmente di mettere in moto il suo corpo e la sua mente, si alzò. Si vestì velocemente, indossando dei pantaloncini e una felpa, si sistemò gli auricolari nelle orecchie, e infine uscì di casa.
Non lo faceva da anni ormai. Svegliarsi all'alba e andare a correre, gli sembrava solo una vecchia abitudine della vita in caserma ai tempi del suo addestramento. Ogni mattina, alle 6 puntualissimi, il sergente Cooper aspettava lui e la sua squadra nell'area addestramento della loro base, pronto per una dura sessione di allenamento, con tanto di prove per la resistenza fisica, e simulazioni di guerra. Evan poteva sentire ancora l'adrenalina in corpo, se chiudendo gli occhi, immaginava di ritrovarsi sul campo d'addestramento, dove correva sguazzando nel fango, intento a superare quei percorsi nel minor tempo possibile. E adesso, che si trovava nel quartiere dove viveva da sempre, correva contro il vento fresco delle prime ore del mattino, con le note delle canzoni dei Bastille, ad accelerare la sua corsa.
Ripercorreva con la mente ogni ricordo, dove immaginava ancora il ragazzino che aveva lasciato in quella città qualche anno prima, sfrecciare con la sua bici tra quelle strade. Le stesse che in quel momento passava in rassegna, intento a correre il più velocemente possibile, proprio come durante i suoi allenamenti. Attraversò il parco dove era solito portare a spasso Argo, il suo labrador, poi passò davanti al cinema, chiaramente chiuso, e infine, non riuscì a non fermarsi davanti alla pasticceria, Lucy's Bakery.
Ricordava perfettamente quando era solo un bambino, e ogni domenica mattina sua madre comprava a lui e a suo fratello una scatola di ciambelle della signora Lucy, famose in tutto il quartiere per la loro inimitabile crema al cioccolato. La voglia di mangiarne di nuovo una fu irrefrenabile, così si affrettò ad entrare. La fame crebbe in un attimo quando Evan fu dentro, circondato da centinaia di prelibatezze di ogni forma, colore e gusto.
"Salve!" salutò la pasticcera dietro il bancone, bandito di ciambelle, croissant, muffin e cupcake. "Evan! Non riesco a crederci, che ci fai in città?" quasi strillò Lucy, intenta a spolverarsi le mani sporche di farina nel suo grembiule. Evan non poté fare a meno di sorriderle, felice che la signora si ricordasse ancora di lui. Poi rispose "Son tornato a casa mesi fa, il sergente voleva che rimanessi per un po' a riposo, dopo esser rimasto ferito in missione" le spiegò, mentre si passava una mano fra i capelli umidi di sudore. Lesse il dispiacere sul volto della pasticcera, che quasi stentava a credere che il ragazzino a cui regalava ciambelle, adesso si era trasformato in un affascinante soldato. "Cavolo, devi averne passate tante..." disse solo, non volendo entrare troppo nei dettagli.
"E qui le cose non sono affatto cambiate" esordì Evan guardandosi meglio attorno, dopo qualche secondo di silenzio imbarazzante. "Oh per niente! Ci sono solo io con qualche chilo in più, e un paio di nuove ricette" spiegò Lucy, che gentile come sempre, continuava a sorridergli. Evan rise, contento che le cose almeno lì non fossero cambiate più di tanto.
"Allora? Ciambelle al cioccolato e alla marmellata di ciliegie come ai vecchi tempi?" gli chiese, infilandosi i guanti per servirlo.
"Lo ricorda ancora?" chiese sorpreso il ragazzo "Come dimenticarmi del ragazzino che ogni giorno divorava tutte le mie ciambelle al cioccolato?" scherzò Lucy. Evan rise di gusto, provando a ricordare quante ciambelle fosse capace di mangiare durante il tragitto da scuola verso casa.
Nel frattempo la pasticcera preparava la sua scatola, ordinando le ciambelle in base al colore. Chiuse la confezione, poi gliela porse da sopra il bancone, mentre Evan tirava fuori il suo portafoglio.
"Oh no, no figliolo, offre la casa!" esordì, facendogli cenno con la mano di prendere la scatola e rimettere il suo portafoglio in tasca.
Così Evan sorpreso le rispose "Grazie mille Lucy!", il sorriso stampato in faccia. "Goditi questo periodo di riposo!" si affrettò ad aggiungere, mentre il ragazzo stava per uscire dalla pasticceria, con le sue ciambelle in mano.
"Lo farò!" le rispose, salutandola con una mano "Ci vediamo!".
Non riusciva a togliersi quell'immagine dalla testa. Era nitida, perfettamente incollata nella sua mente. L'avrebbe trascinata via senza problemi, se solo non avesse saputo che brutta reazione avrebbe potuto scaturire in lei un comportamento di quel genere. Casey odiava le scenate di gelosia, non le tollerava proprio, sebbene sembrasse volerne ottenere proprio una quella sera.
Peter ne era certo, lo aveva fatto di proposito.
Ma sapeva bene che era questo il gioco a cui stava giocando Casey: torturarlo fino a farlo impazzire, ignorandolo e facendosi vedere in giro ogni volta con un ragazzo diverso, per poi trattarlo come un pazzo maniaco che non la lasciava in pace un momento, se solo Peter non fosse riuscito a controllarsi scoppiando in una scenata delle sue.
Così adesso ricordando in che modo aveva toccato Ian la sera prima, ripensando a quanto gli parlasse vicino, al perché era andata via in macchina con lui, Peter si sentì morire, come se stesse per sprofondare in un abisso senza fine. Era questo l'effetto che gli faceva. Lo faceva stare bene, lo rendeva felice, lo incoraggiava in ogni suo obbiettivo, ma lo distruggeva, lo rendeva dipendente da lei, e lo faceva a pezzi.
E adesso Pet stava lì, in piedi davanti al suo sacco da boxe, che grondava gocce di sudore su tutta la superficie del suo corpo. Tirò un colpo, netto e forte, poi un calcio. Ansimava da sotto il cappuccio della sua felpa, arrabbiato e sconfitto.
Non lo sopportava, non ce la faceva più, ma per nulla al mondo sarebbe più ritornato indietro, nemmeno per Caesy, e questo lo faceva sentire ancora più in colpa. Aveva sbagliato, aveva fatto l'errore più grande della sua vita, ma non poteva, nè voleva, cambiare ciò che aveva fatto.
Il signor Johnson gli aveva offerto l'opportunità di una vita, in cambio di una semplice missione sotto copertura nello studio di un giudice.
Quale idiota avrebbe rifiutato? Non di certo lui, la cui unica ambizione era proprio riuscire ad entrare nell'esercito. E dato che studiare per i test teorici, e allenarsi per le prove fisiche, gli avrebbe soltanto rubato del tempo prezioso che avrebbe potuto impiegare per lavorare e aiutare sua madre con le spese giornaliere, Peter decise di prendere quella scorciatoia. Proprio la stessa che il signor Johnson, nonchè padre di Caesy, gli aveva servito su un piatto d'argento.
Avrebbe dovuto sporcarsi le mani per lui, avrebbe rischiato grosso per portare a termine il sabotaggio da lui commissionato, ma in cambio, sarebbe entrato nell'esercito insieme al suo migliore amico senza alcun minimo sforzo. Così ecco che arrabbiato con se stesso, con il signor Johnson, ma anche con Caesy per il comportamento immaturo che stava avendo, tirò un altro pugno, poi un altro calcio, non riuscendo più a fermarsi. Accompagnava ogni suo colpo a versi, lamenti e ringhi. Chiunque l'avesse visto lì massacrare quel sacco da boxe, non l'avrebbe mai riconosciuto. Peter, quel dolce e generoso Peter, lo stesso ragazzo che aveva perso il padre in un incidente stradale, e che da quel giorno aveva portato avanti la sua famiglia, facendo forza alla madre, e cercando di essere un punto di riferimento sempre presente per la sua sorellina.
Era soprattutto questo che aveva fatto innamorare Caesy di lui, il modo in cui si prendeva cura della sua famiglia, quel carattere protettivo e premuroso. E lei, che aveva perso il padre da poco, avrebbe desiderato con tutta se stessa un fratello come lui, pronto a farle forza quando la mancanza di suo padre sarebbe stata insopportabile. Peter la capiva, sempre, e nessuno se non lui, avrebbe saputo come farla stare meglio.
Ma nonostante Casey sapesse perfettamente tutto ciò, si ostinava ancora a tenerlo il più lontano possibile da lei e dalla sua vita. Sembrava che la perdita di suo padre le avesse fatto dimenticare che genere di uomo fosse, e così adesso, per lei l'unico colpevole era Peter.
Eppure lui sapeva benissimo di essere il principale responsabile in quella storia, ma non riusciva ad accettare che Caesy non fosse riuscita a comprendere le sue scelte. Aveva bisogno di quel posto, e entrare di nascosto nell'ufficio di un giudice per rubare dei file, e in cambio ricevere la garanzia di una carriera nell'esercito, a Peter sembrava un valido compromesso. Ma ciò che aveva trascurato il ragazzo era ben altro.
Caesy non era arrabbiata con lui per la maniera sleale in cui era riuscito a diventare un soldato, piuttosto perché si era lasciato abbindolare dallo stesso uomo doppiogiochista e adulatore che Caesy ripudiava tanto.
Amava suo padre, ma odiava quella parte di lui. E sapere che il suo ragazzo - che conosceva benissimo i motivi per cui Caesy ce l'avesse tanto con suo padre – era sceso a patti con lui, la faceva infuriare come poche cose al mondo.
A quel punto Peter riuscì a fermarsi, così si appoggiò al muro sudato fradicio, asciugandosi la fronte con il guantone da boxe. Era esausto, ma almeno riusciva a sentirsi meglio.
"Sono simpatici i tuoi amici" esordì Ian, mentre girava bistecche, salsicce e hamburger sulla griglia del barbecue.
"Mmh?" Hazel, che era sommersa nei suoi pensieri, imbottiva panini condendoli con una vasta gamma di salse.
"Ho detto" riprese il ragazzo, posando una salsiccia su un piatto "Che mi piacciono i tuoi amici". Hazel lo guardò, inarcando un sopracciglio.
"Cosa credevi? Che i miei amici fossero tutti dei fighetti figli di papà come i tuoi?" gli chiese scherzando, e ricevendo una brutta occhiataccia dal fratello. "I miei amici non sono tutti dei fighetti, Mike per esempio non lo è" precisò, poi Hazel gli sorrise, soddisfatta che le avesse dato ragione, definendo anche lui fighetti almeno una parte dei suoi amici.
"Mi fa piacere che ti piacciano. Ma vediamo... C'è qualcuno che ti è particolarmente piaciuto?" tastò il terreno la ragazza, curiosa di sapere che ne pensasse suo fratello di Caesy, visto lo strambo comportamento della sera precedente della ragazza. Adesso fu Ian a guardarla confuso.
"Che vuoi dire?" le chiese, gettando un pugnetto di sale sulla carne che stava cucinando.
"Non so... Magari qualcuno ha attirato particolarmente la tua attenzione, qualcuno con cui hai scherzato parecchio..." gli diede qualche indizio, rimanendo vaga. "Dove vuoi andare a parare?" le chiese incerto, puntandole la pinza da barbecue contro.
"Oh andiamo! Ed io che pensavo che io e te fossimo quelli più svegli in famiglia!" si esasperò per via della totale assenza di perspicacia in suo fratello. "Ti ho sentito!" strillò poi Madison, dall'altro lato della terrazza, distesa su una sdraio intenta a leggere una rivista.
"Ti voglio bene Maddie!" rispose Hazel a sua sorella minore prendendola in giro, ed Ian che continuava a ridere attento a non bruciare niente.
"Zel" richiamò di nuovo la sua attenzione "Non è che per caso stai cercando di capire che ne pensa tuo fratello maggiore della tua nuova fiamma, eh?" le chiese all'improvviso Ian. Hazel diventò rossa tutto ad un tratto, sconvolta dalla domanda che le aveva appena fatto suo fratello.
"C-cosa?" rispose poi, guardandolo più che solo confusa. Ian non riuscì a non ridere, notando quanto fosse in imbarazzo sua sorella.
"No Ian! Cosa diavolo hai capito?" gli chiese, tirandogli un limone ormai spremuto addosso. Ma Ian lo schivò, e poi le rispose continuando a ridere "Non era questo che volevi sapere?".
"No!" strillò Hazel "Quello che volevo sapere, era se avevi notato anche tu dei comportamenti strani da parte di Caesy" fu più chiara.
"Ah" cominciò il ragazzo "Be' all'inizio della serata mi è sembrata davvero simpatica, e molto carina. Poi al Jackbar ha iniziato a comportarsi in maniera piuttosto strana..." le rispose.
"Come pensavo" rifletté ad alta voce Hazel. "Perché me lo chiedi?".
Hazel sospirò "Non so se hai notato come guardava te e Casey Peter, il ragazzo biondo che non faceva altro che mandare giù birre" cominciò a spiegargli "No a dire il vero" rispose.
"Peter e Caesy stavano insieme fino a non molto tempo fa, ed è evidente che quello che cercava di fare Casey con te" continuò "Era farlo ingelosire" completò la sua frase Ian.
"Esatto" disse Hazel. "Questa cosa è piuttosto imbarazzante, oltre che divertente. Non sono mai stato usato così da una ragazza" esordì.
"Non sei interessato a Casey, non è vero?" volle capire meglio la mora.
"Pensi davvero che io possa smettere di andare dietro ad Alice così facilmente?" quasi si offese Ian. "No, a dire il vero" rispose sincera "Penso che non te ne libererai mai, in realtà".
Ian era bloccato in quella situazione da anni, ormai. Aveva conosciuto Alice al liceo e se ne era follemente innamorato, e nonostante fosse chiaro che anche lei provasse qualcosa per lui, la loro storia sembrava sul punto di finire, già prima di avere l'occasione di nascere.
Alice era fatta così, la ragazza più incerta e confusa del pianeta, l'aveva definita Hazel. Ed Ian, che ne era ormai perso, sembrava esser deciso ad aspettare che prendesse la sua decisione, a costo di rimanere bloccato in quel bivio, con lei che di tanto in tanto gli chiedeva di uscire, per poi sparire dalla circolazione per tutto il tempo che credeva esserle necessario.
Così Hazel, che aveva visto suo fratello distruggersi per lei per anni, si era ormai arresa. Aveva deciso di smetterla di provare a fargli cambiare idea, perfino di presentargli decine e decine di ragazze che credeva essere alla sua altezza. "La penso proprio come te" le rispose poi Ian scherzando.
Allora Hazel raccolse tutti i panini che aveva imbottito in una grande teglia, pronta per servirli a tavola. Adorava la grigliata della domenica.
Così, quando stava ormai entrando in veranda, attenta a non far cadere nulla dal vassoio, Ian disse ancora qualcosa "E tanto per la cronaca" cominciò, facendo voltare la sorella. "Mi piace il soldato!" esordì alla fine, ma Hazel, più imbarazzata che stupita, andò via senza rispondergli.
Sollevò l'enorme borsone da terra, gettandolo sul suo letto. Alzò lo sguardo, poi si guardò intorno.
Ogni cosa in quella stanza parlava di lui. Dai trofei sulla mensola sopra il letto, vinti giocando nella squadra di basket del suo vecchio liceo, alla collezione di plettri colorati esposti in una teca di vetro, fino ad arrivare all'uniforme mimetica che sua madre aveva lavato e stirato poco prima, e che adesso era stesa sul suo letto, pronta per essere indossata.
Sospirò, chiedendosi per la prima volta nella sua vita, se avesse davvero voglia di ritornare in caserma quella sera.
In realtà non aveva potere decisionale a riguardo, almeno non dal momento in cui aveva firmato un contratto di servizio nell'esercito della durata di 4 anni. Ma Evan sembrava non avere mai avuto problemi a rispettare quella parte del suo contratto: alloggiare in caserma non era mica un obbligo, ma prestare servizio in aeroporto, almeno fino alla fine dell'anno, malgrado per lui, era una direttiva che avrebbe dovuto rispettare senza alcuna esitazione.
Sospirò ancora, tenendo fra le mani il suo berretto, e non distogliendo lo sguardo da esso nemmeno per un attimo. Almeno fin quando qualcuno non richiamò la sua attenzione. "Figliolo, cosa fai qui? Il pranzo è quasi pronto" riconobbe subito la voce del vecchio.
Si voltò, non riuscendo a non sorridergli. "Nonno" disse, posando il berretto accanto alla divisa "Scendo in un attimo" rispose.
Ma Ben, suo nonno materno, rimase incantato a fissare il suo zaino, e la sua uniforme, e ogni cosa in quella camera che desse l'idea di appartenere a un soldato.
Poi ritornò a guardare il nipote, fiero e commosso. Evan riuscì a leggere perfino un pizzico di nostalgia nei suoi occhi, di un azzurro intenso, proprio come i suoi.
"Pronto per ritornare alla base?" gli chiese, rimanendo ancora lì sul ciglio della porta. "Credo di sì" rispose il ragazzo, chiudendo la zip del borsone, celando un velo di incertezza dietro la sua risposta.
"Sai? Ricordo ancora il giorno in cui per l'ultima volta indossai un uniforme molto simile alla tua" disse il vecchio, avvicinandosi per indicare l'oggetto in questione.
Evan gli sorrise "Anche il vostro berretto era così ridicolo?" chiese poi curioso, porgendo il cappellino nero al nonno, che ridendo rispose "Era anche peggio. Più lungo, pesante, e sicuramente con qualche decoro in più".
Il ragazzo rise più forte, guardando il nonno indossare il suo berretto e fare smorfie tenerissime. Era molto simile a lui, e questo non gli dispiaceva affatto. Nonno Benjamin era da sempre stato un uomo intelligente, forte, dolce e spiritoso, un po' come Evan, solo con i capelli bianchi e un bastone sempre a portata di mano. Lo adorava, perché era una persona buona e sincera, perché cercava di essere sempre presente nella sua vita, nonostante l'età avanzata e la vita difficile del nipote. Ma d'altronde, era proprio lui che aveva infiammato la passione per l'uniforme nel piccolo Evan. Raccontandogli episodi della sua ormai passata gioventù trascorsa in servizio, di come lo faceva sentire più forte e libero combattere in missione, e di quanto lo rendesse indispensabile fra miliardi e miliardi di uomini sulla Terra, il suo contributo nei posti in cui di gente ne era morta anche fin troppa... Così fu proprio ascoltando le tantissime storie del nonno, che Evan iniziò ad appassionarsi a quel mondo fatto di armi da fuoco, missioni, e tante anime spente, quanti cuori posti in salvo.
"Sono fiero di te e di quello che fai, te l'ho mai detto?" esordì tutto ad un tratto nonno Benjamin, posando una mano sulla spalla del nipote.
"Continuamente" rispose Evan ridendo "Ma è sempre bello sentirselo dire" continuò. Il nonno rimase lì a fissarlo per un po', con un sorriso che avrebbe fatto sciogliere il cuore di chiunque in pochi secondi.
Poi Evan lo abbracciò, stringendolo stretto "Anch'io sono fiero di te, di ciò che sei stato e che sei" gli sussurrò all'orecchio, implicando ogni sua forza nel cercare di non far uscire niente dai suoi occhi.
Ma il nonno tardò a rispondere, tanto che Evan si preoccupò perfino di aver parlato così piano da non esser riuscito a far percepire minimamente le sue parole all'orecchio anziano del nonno.
Poi capì, e quando sentì il nonno balbettare un "Ti voglio bene", lo strinse più forte di quanto avesse mai fatto.
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