Capitolo 51

Quando arrivò al centro di recupero per veterani, a dispetto delle sue aspettative, Evan non si sentì neanche un po' spaesato, anzi, per qualche assurda ragione, arrivò perfino a chiedersi se quello sarebbe stato il posto in cui davvero avrebbe potuto parlare liberamente dei suoi problemi. Fino a quel momento, sebbene l'intento del suo psicoterapeuta, il dottor Mavis, fosse stato proprio far aprire Evan e portarlo ad ammettere finalmente di avere un serio problema, in realtà Mavis era stato di gran lunga più bravo a fare il lavoro opposto. Con lui infatti, durante tutta la durata della sua terapia, Evan non aveva considerato minimamente nemmeno una volta anche solo la possibilità di parlare senza filtri di ciò che lo tormentava. Aveva solo finto per tutto il tempo, fingendosi in salute e tenendo nascoste tutte quelle volte in cui il suo trauma, aveva contribuito a far aumentare i suoi attacchi di panico o i suoi scatti d'ira.
Lì invece, probabilmente a causa di tutte quelle foto di soldati appese in bella mostra sulle pareti dell'ingresso, o forse grazie alle decine di medaglie di un certo dottore e maggiore Hunt, sistemate ordinatamente in una teca di vetro a fianco al bancone dell'ingresso, Evan riusciva ad essere fiducioso e stranamente determinato a sconfiggere il suo trauma.
"Salve, sono qui per gli incontri del dottor Hunt" esordì Evan poggiandosi al bancone, e sorridendo alla donna dalla carnagione scura e i capelli ben acconciati che smanettava dietro un computer.
"Oh, ma certo, lei è?" chiese la donna gentile, prendendo in mano una lista di nomi e cominciando ad analizzarla con attenzione.
"Sono Evan Blake, mi manda il dottor Mavis" rispose il moro affacciandosi al bancone per provare a scorgere qualche nome su quella lista.
Gli sorrise "Evan William Blake, trovato!" esordì la donna, che secondo il cartellino sul suo petto, si chiamava Miranda Hopper "Metti una firma qui" chiese, porgendo al ragazzo la lista di nomi.
"L'incontro è su questo piano: stanza 6, in fondo al corridoio" gli indicò Miranda, mentre sorridendole Evan la ringraziava gentile.
Poi si allontanò dall'ingresso diretto verso il luogo dell'incontro, mentre incuriosito si guardava intorno. Quando giunse nella stanza numero 6, si fermò sulla soglia della porta imbarazzato, mentre un gruppo di ragazzi e qualche ragazza, ascoltava in silenzio uno di loro parlare, seduti su delle sedie disposte in cerchio.
"Ciao!" lo salutò poi un uomo dai capelli rossicci e la carnagione chiara, fissandolo con aria gentile.
"Salve" disse Evan muovendo qualche passo in avanti ed entrando finalmente nella stanza.
"Tu sei-" parlò ancora quell'uomo sorridendo "Evan, Evan Blake, signore" si presentò il ragazzo.
"Oh ti prego, Evan. Non esistono titoli qui, chiamami Hunt, o Owen se preferisci" gli disse l'uomo, rimanendo seduto insieme a tutti gli altri ragazzi.
Evan annuì imbarazzato, "Siediti con noi, Evan. Simon ci stava raccontando del suo primo giorno di servizio dopo il ritorno dall'Afghanistan" spiegò Hunt indicando un ragazzo probabilmente poco più grande di lui, che seduto al fianco dell'uomo, adesso si guardava intorno torturandosi le mani agitato.
"Continua Simon" lo invitò Hunt, mentre Evan prendeva posto esattamente di fronte a loro, e l'attenzione dei presenti si spostava nuovamente sul ragazzo che stava riprendendo a raccontare la sua storia.
"Dicevo: ritornare alla base è stato strano, ma non così difficile come immaginavo. I miei compagni mi hanno accolto felici di rivedermi, perfino il mio superiore sembrava preoccupato per me, ed io non ho avuto troppi problemi a riprendere il mio lavoro" spiegò colui che doveva chiamarsi Simon.
"È davvero fantastico, Simon" gli disse Hunt sorridendogli orgoglioso, poi riprese "Quanti di voi hanno già ripreso a lavorare dopo la loro missione?" chiese guardando i suoi ragazzi concentrato, il busto chino e i gomiti inchiodati sulle sue ginocchia.
Evan vide alcuni ragazzi vicino a lui alzare una mano, qualcun altro nasconderla per bene, come se non esser ancora riusciti a ritornare in servizio fosse qualcosa di cui vergognarsi. Poi anche lui lentamente sollevò un braccio, aprì la mano, e in un attimo Hunt ritornò a fissarlo.
"Avete qualche consiglio da dare al vostro amico che ha appena sperimentato il grande ritorno, ragazzi?" chiese l'uomo dai capelli rossi e lo sguardo di ghiaccio, nell'attesa che qualcuno gli rispondesse, ma suo mal grado, nessuno sembrò sentirsi all'altezza per dare alcun consiglio. Il grande ritorno era qualcosa che ancora un po' tutti loro stavano cercando di capire, di gestire.
"Evan! Da quanto tempo sei ritornato in servizio?" lo richiamò poi Hunt, prendendolo alla sprovvista.
Il moro si passò una mano fra i capelli pensieroso "Pochi mesi, sto ancora cercando di riadattarmi" rispose sinceramente, riuscendo per la prima volta ad ammettere davanti ad un medico, come ancora si sentisse confuso e impreparato per il suo grande ritorno, nonostante fosse già avvenuto da un pezzo.
"E come credi di startela cavando?" chiese ancora, mentre tutti i presenti lo ascoltavano silenziosi.
"Be' da quando sono tornato dall'Iraq, ho attraversato molti alti e bassi, più bassi probabilmente... Ma adesso, adesso sto solo cercando di fare del mio meglio per riuscire a gestire tutto questo" rispose il ragazzo strofinandosi nervoso le mani sulle cosce.
"Qual è il tuo modo di gestire la cosa, Evan?" gli chiese ancora l'uomo sembrando davvero interessato, mentre attento si strofinava i polpastrelli sul mento.
"Non ho un modo: provo a non pensarci, a ignorare il problema, ma poi lui si ripresenta, e gli incubi e gli attacchi riprendono" rispose.
Hunt accennò un sorriso intenerito, poi raddrizzando la schiena ritornò a parlare "Oh, questo non sembra affatto un buon consiglio, ragazzo mio" scherzò "Non avere una strategia per affrontare il tuo problema, non fa altro che accrescere l'impatto che ha nella tua vita" rispose saggiamente, celando dietro quel suo atteggiamento gentile e scherzoso, la preoccupazione che adesso cominciava a sentire verso quel ragazzo.
"Maggie, tu hai qualche consiglio da dare al nostro nuovo amico?" chiese Hunt rivolgendosi ad una ragazza dai capelli biondi legati in una treccia, che silenziosa stava ad ascoltare con le braccia conserte e lo sguardo assente.
Sbatté le palpebre, come se per tutto il tempo non fosse stata lì con loro ma chissà dove a pensare ai fatti suoi.
Si bagnò le labbra "Devi smetterla di ignorare i tuoi problemi. Lo hai detto tu: far finta che non esistano non lì fermerà dal continuare a ripresentarsi. Devi affrontarli" disse con tono deciso guardando dritto negli occhi Evan. La fissava sorpreso, con la schiena appoggiata allo schienale della sua sedia, e un'espressione colpita dipinta sul volto. Poi un sorrisetto sghembo apparve sul suo viso "Grazie, Maggie" disse gentile.
"Questi incontri servono per convincervi a parlare, a sfogarvi, a chiedere e dare consigli. Siamo qui per aiutarci l'uno con l'altro, anche io ho molto da imparare da voi, per questo non ho alcun farmaco da prescrivervi affinché dormiate tranquilli, o chissà quale tecnica d'analisi da attuare su di voi per scavare fra i vostri traumi. Voglio semplicemente provare ad aiutarvi a parlare, perché credo che questa sia l'unica cosa di cui abbiate bisogno" spiegò il dottor Hunt guardando i suoi ragazzi con quell'espressione ricca di affetto e orgoglio, che Evan non aveva mai visto indosso a nessun altro suo superiore prima di quel momento.
Poi l'uomo dai capelli color carota ritornò in sè, sbatté le mani sulle cosce e facendo sobbalzare qualche ragazzo, si ricompose "Va bene ragazzi, per oggi abbiamo finito, ho esaurito le belle parole e adesso ho solo bisogno di ritornare nel mio triste monolocale" annunciò mettendosi in piedi, mentre gli altri ragazzi facevano lo stesso.
"Il prossimo incontro è fissato per venerdì" ricordò, mentre Evan si guardava intorno colpito.
"È la prima volta, non è vero?" sentì parlare da dietro le sue spalle.
Si voltò, poi un ragazzo alto quasi quanto lui, coi capelli corti e lo sguardo di un blu perfino più chiaro di quello dei suoi occhi, gli si parò davanti rigirandosi una sigaretta spenta fra le dita.
Evan lo guardava con un sopracciglio inarcato "Sì" rispose.
"Sono felice di sapere che non sono più l'ultimo arrivato" disse il ragazzo sollevando le spalle "Sono Joe Cole, tu sei?" chiese porgendo una mano al moro di fronte a lui.
"Evan Blake" rispose stringendogli la mano, e continuando a fissarlo perplesso.
"Blake? Come lo sceriffo Blake?" gli chiese Joe sorpreso.
"È mio padre" rispose Evan, capendo solo adesso quanto quel ragazzo gli sembrasse familiare.
Joe lo fissava in silenzio, guardandolo con attenzione e continuando ad annuire "Tu gli credi?" chiese curioso.
Poi Evan lo riconobbe, quello sguardo così gentile che gli ricordava terribilmente Billy, il sorriso sornione e le lentiggini sulla pelle chiara. Dei brividi gli attraversarono le braccia, accorgendosi solo adesso di non aver minimamente pensato a Billy Lynn fino al momento in cui si era ritrovato a parlare con la sua copia identica.
"Se credo ad Hunt?" si chiese Evan riflettendoci su un attimo.
"Non lo so, ma nessuno nell'ultimo anno ha mai accennato ad una terapia che non includesse l'uso di alcuni farmaci. Odio quella roba, e Hunt ha già ottenuto un punto in suo favore per essersi dichiarato anche lui contrario" rispose Evan.
Joe fece spallucce, "È già la terza volta che vengo a questi incontri, sono ancora un po' scettico, ma Hunt è il primo ad essersi messo sul nostro stesso piano. Non ci guarda dall'alto verso il basso, e sa perfettamente cosa stiamo passando" disse la sua estraendo il suo accendino dalla tasca dei suoi jeans.
"Ne vuoi una?" chiese al suo nuovo amico indicando il pacco di sigarette in una mano.
Evan lo guardò fisso per un istante, mentre fremeva dalla voglia di tenere di nuovo una sigaretta fra le labbra dopo tutto quel tempo.
"Non fumo da anni ormai" rispose cercando di ignorare quel pacco di sigarette che fin troppo vicino a lui, continuava a tentarlo.
Joe accennò una risata "Come diavolo fa a tirare avanti un non fumatore con un disturbo post trauma?" chiese incredulo, accendendosi la sua sigaretta.
Anche Evan sorrise beffardo, sorpreso di notare con quanta naturalezza quel ragazzo parlasse della loro diagnosi.
"Semplice: non va affatto avanti" rispose sincero.
Joe gli sorrise amichevolmente, capendo perfettamente ciò che Evan intendesse dire.
"Dov'eri quando è successo?" gli chiese poi Joe curioso.
Evan si passò una mano fra i capelli "Iraq, in un villaggio nella città di Baghdad" rispose con non poche difficoltà.
"Mai stato in Iraq. Io ero in Libano, Damasco, gran bel posto" disse Joe sarcastico, soffiando fuori dalla sua bocca un po' di fumo grigiastro, il sorriso divertito sulle labbra di Evan.
"Voglio dire, è davvero un gran bel posto in cui farsi ammazzare, non credi?" continuò col suo pungente sarcasmo.
"Da quanto sei tornato?" fu Evan stavolta a chiedere.
"Un anno e mezzo ormai, ma credo che la vacanza qui continuerà ancora a lungo. Vogliono tenermi buono buono a sorvegliare i detenuti del Santa Ana Jail, ma non sanno che a forza di tenere legato a un palo un rottweiler, si finisce col mandarlo fuori di testa" spiegò più serio Joe, mentre Evan lo ascoltava attento e pensieroso.
"Pensi che il sevizio al carcere completerà il lavoro che la guerra e il Libano hanno già cominciato?" chiese Evan sinceramente interessato.
"Spero solo che questi incontri e il maggiore Hunt non mi faranno perdere altro tempo. Sono nell'esercito da tre anni, non voglio ancora congedarmi" rispose deciso il ragazzo.
"Vuoi tornare in missione?" gli chiese Evan cercando di respirare in mezzo a tutto quel fastidioso fumo.
Joe lo fissò inarcando un sopracciglio "Non è fra i sintomi della nostra diagnosi: l'irrazionale desiderio di ritornare a combattere?" rispose a sua volta con una domanda Joe, gesticolando con fare teatrale.
Evan gli sorrise "Lo è" ammise "Credono tutti io sia un folle a voler ritornare laggiù, ma non sanno cosa ho lasciato in quei posti" rispose serio.
"Parli degli amici che hai perso o della tua sanità mentale?" chiese Joe dopo aver aspirato ancora un tiro dalla sua sigaretta.
Evan rise, colpito dal modo così naturale con cui quel ragazzo continuava a scherzare sulla loro malattia "Entrambi" rispose abbassando lo sguardo.
"Come pensavo" disse poi Joe.
"Forse avevi ragione riguardo alla storia del non fumatore con il dpts" esordì Evan grattandosi il capo agitato.
Joe rise divertito, poi leggendo fra le righe la richiesta di Evan, tirò fuori il suo pacco di sigarette e glielo porse.
"Credo diventeremo buoni amici" gli disse ammiccando un sorriso, mentre Evan si accendeva la sua prima sigaretta dopo tutto quel tempo.

Determinata e sicura di sè Hazel camminava a passo svelto verso la caffetteria, Ian nel frattempo la fissava attento dalla sua auto, battendo le mani sul volante nervoso come probabilmente non lo era mai stato.
Giunta all'ingresso del locale, Hazel si guardò attorno per qualche istante, ma non ci volle molto prima di riconoscerlo.
Noah Keller la aspettava seduto ad un tavolino in fondo alla grande sala, impaziente e quasi sicuramente agitato per quell'imminente incontro. Era stata proprio lei a chiedergli di incontrarsi, così sebbene non potè fare a meno di chiedersi se dietro quel messaggio ci fosse stata davvero Hazel, o ancora una volta suo fratello Ian, alla fine, Noah aveva accettato di vederla senza troppe storie. Ma quando la vide entrare in quel locale, rimase sorpreso e anche un po' ammaliato dal modo in cui sicura di sè Hazel aveva attraversato la sala per raggiungerlo.
"Ciao" lo salutò la ragazza sedendosi di fronte a lui.
"C-ciao" ricambiò Noah guardandola colpito, il piede sotto il tavolo che continuava a battere nervoso contro il pavimento.
La fissò con attenzione per alcuni istanti, poi imbarazzato esordì "Ordini qualcosa?".
"No" lo troncò subito Hazel "Sono venuta qui solo per dirti una cosa, e dopo averlo fatto, non perderò un minuto di più con te a questo tavolo" chiarì guardandolo fissò negli occhi, cercando di nascondere dietro quell'atteggiamento da finta dura, la paura e il ribrezzo che da giorni ormai continuava a provare verso quel ragazzo.
"Va bene" disse Noah chiudendo il suo menù.
Si bagnò le labbra secche, poi ritornò a guardarla "Non mi aspettavo che mi chiedessi di vederci, ma lo speravo" le disse sincero.
"Io invece avrei preferito non vederti mai più dopo quello che hai fatto, ma tu sei sempre stato così bravo a rendermi la vita un vero inferno" rispose fredda e impassibile.
"Hazel" cominciò Noah poggiando una mano sulla superficie del loro tavolo "Non voglio ascoltarti" lo fermò subito lei.
Così il moro si ammutolì, poi chiuse la mano in un pugno provando a mantenere la calma "Voglio chiederti scusa" tentò comunque il ragazzo, fissando gli occhi in quelli della ragazza che sconvolta, sbuffò a ridere.
"È sempre la stessa storia con te, vero, Noah?" gli chiese fingendosi divertita "Fai lo stronzo con me e poi pretendi che io accetti le tue scuse".
"Ti prego, ascoltami" provò a parlare Noah.
"Tu non meriti nemmeno che io stia qui ad ascoltarti" gli disse con gli occhi fiammeggianti d'odio.
"Lasciami parlare" la pregò.
Così Hazel sbuffò "Va bene, Keller. Su, parla, ma assicurati che le tue siano davvero le migliori scuse che tu sia in grado di formulare, perché non starò qui a sentire le tue insulse giustificazioni del cazzo, intesi?" lo avvertì, sputando odio e ribrezzo fra ogni sua parola.
Noah sospirò "Non cerco il tuo perdono, so bene di aver perso la possibilità di ottenerlo molto tempo fa, ma io voglio comunque chiederti scusa per quello che ti ho fatto" disse.
"Tutto qui?" gli chiese poi Hazel per niente soddisfatta.
"Non so cosa mi sia preso, mi sei mancata molto negli ultimi mesi, ho passato notti insonni continuando a pensare a te. Poi tu sei corsa da me, hai provato a consolarmi, mi hai abbracciato, ed io non sono riuscito più a controllarmi" riprese a recitare le sue patetiche scuse.
"E così mi hai messo le mani addosso?" chiese arrabbiata Hazel.
"Non volevo farti del male, credevo che anche tu lo volessi, che anche io ti mancassi" si spinse decisamente oltre.
"Basta" lo fermò ancora una volta Hazel sbattendo un pugno sul tavolo e facendo vibrare i bicchieri su di esso.
Noah sobbalzò, "Non dire un'altra sola parola" gli intimò guardandolo furiosa.
"Adesso ho io delle cose da dirti, Noah" cominciò.
"Mio fratello mi ha detto cosa hai intenzione di fare: la denuncia ad Evan e il tuo ridicolo tentativo di incolpare lui per ogni cosa successa a quel dannato funerale" disse, distendendo le dita della sua mano nella speranza di riuscire a calmarsi.
"Quel ragazzo è pericoloso, Hazel" riuscì a dire senza che lei lo zittisse un'altra volta.
"Evan non è pericoloso, e per quello che mi riguarda, sei stato tu ad aggredirmi, sei stato tu a spaventarmi a morte. Sono le tue mani su di me che non riesco a dimenticare, non quella dannata pistola a salve, Keller" chiarì Hazel, il tono deciso e le parole strazianti.
"È per questo che anche io ho intenzione di denunciarti" esordì fiera e senza paura "A meno che tu non smetta di pensare di denunciare Evan, e allora anche io ti risparmierò" chiarì con tono minaccioso.
Noah la fissava sconvolto mentre tentava di elaborare per bene ogni sua parola "T-tu vuoi denunciarmi?" le chiese.
"In realtà non avevo nemmeno valutato la possibilità di farlo finché Ian non mi ha detto ciò che avevi intenzione di fare" rispose Hazel fredda.
"Io non volevo farti del male" ribadì ancora una volta.
"Ed Evan sfortunatamente, non voleva davvero farti fuori. La tua parola contro la sua, la mia parola contro la tua" sputò fuori orgogliosa.
"Non puoi far sul serio" si lasciò scappare il moro sconvolto, "Non mi dai altra scelta".
"Cosa intendi fare, proteggere quel figlio di puttana e mettere a rischio la tua vita stando con uno come lui?" le chiese.
"Sapere cosa intendo fare non rientra più nei tuoi interessi, Noah. Ti basta sapere che sono queste le mie condizioni" disse seria.
"Tu non stai pensando lucidamente. Quel ragazzo ha puntato una pistola anche contro te" le ricordò con quello sguardo patetico.
Hazel accennò un sorriso incredulo "Come puoi stare qui a parlarmi di quello che ha fatto Evan, dopo avermi quasi molestata in un cimitero?" gli chiese chinandosi sul tavolino, i denti stretti in un'inquietante sorriso, l'espressione schifata e le lacrime agli occhi.
Noah la guardò zitto e immobile per qualche istante, poi le si avvicinò guardandola intensamente negli occhi "Circa un mese fa, quando in quel parco ti ho baciata, non hai mosso un dito e mi hai lasciato fare. Quattro giorni fa mi hai rincorso senza pensarci un attimo, pronta a consolarmi. Mi hai abbracciato, io ti ho baciata, e tu non hai mostrato alcun segno di disapprovazione finché non ho allungato le mani. Se non fosse stato per la presenza di quel patetico soldato dalla mano pesante nella tua vita, sono certo che mi avresti permesso senza problemi di spingermi oltre. Tu provi ancora qualcosa per me, non puoi negarlo" concluse, con quell'espressione irritante sul volto.
Hazel lo guardava incredula, la bocca secca e gli occhi fissi su di lui, mentre a pochi centimetri dal suo volto, stava zitta e immobile. Poi la mano che poco prima aveva sbattuto contro quel tavolino, si sollevò in un istante distendendosi quanto poteva, così concentrando nel palmo di quella mano tutta quella rabbia che da giorni ormai portava dentro, con un gesto veloce e deciso, lo colpì in viso, lasciandogli il segno della sua mano sulla guancia sinistra, e facendo riaprire la ferita ormai in via di guarigione sul labbro inferiore del ragazzo.
Noah voltò la testa, con un gesto spontaneo si portò la mano sul viso, poi dopo aver realizzato ciò che Hazel aveva appena fatto, tornò a guardarla sconvolto.
"Tutto ciò che provo verso te adesso, è solo ribrezzo. Ce l'ho a morte con me stessa per esser stata così stupida e aver passato tutti quegli anni con uno stronzo come te, e mi viene solo la nausea se ripenso a tutte quelle volte che ho lasciato che le tue luride mani mi toccassero. Ma su una cosa hai ragione, da quando Evan è entrato nella mia vita qualcosa è cambiato, io sono cresciuta e finalmente ho capito chi sei realmente. Se non ti denuncerò sarà solo per lui!" sputò fuori furiosa, mentre con sguardo rabbioso si tratteneva dal colpire ancora una volta Noah.
"Sei solo frustrato all'idea di avermi persa per sempre, e per questo continui a sputare merda perfino contro l'unica persona che sostieni di amare. Questo però non è affatto amore, ma forse tu non hai nemmeno mai capito che significhi amare davvero qualcuno" gli disse, prima di prendere la sua borsa e alzarsi da quella sedia con orgoglio.
Lo lasciò lì da solo con tutti quei graffi e lividi sul viso, mentre patetico e senza parole guardava andar via da lui per sempre, l'unica persona che era mai stata in grado di amarlo.

Spazio autrice

Ciao a tutti e a tutte miei carissimi lettori!
Come state?
Eccomi di nuovo qui con un nuovo capitolo!Allora? Pareri e reazioni a caldo?
Io ho adorato scriverlo, soprattutto l'ultima parte.
Hazel è riuscita a trasmettermi la sua rabbia e la sua sicurezza durante la stesura, e anche adesso rileggendolo per l'ultima correzione, non ho potuto fare a meno di sentirmi quasi come se volessi prendere a schiaffi Noah con le mie stesse mani per quello che le ha fatto.
Non sarà stato difficile per voi capire quanto io sia irritata da questo personaggio.
Ma comunque!
Volevo farvi sapere che ho deciso di riscrivere anche quest'anno la mia storia ai Wattys, per questo ci tenevo a sapere se secondo voi, che siete i principali giudici e recensori, "What do I stand for?" potrebbe mai avere qualche chance di essere quanto meno apprezzata da qualcuno ai vertici della piattaforma.
So bene che saremo a centinaia ad iscrivere una storia, ma tentare non nuoce, ecco perché ho voluto rimettermi in gioco anche quest'anno.
Come sempre spero che il capitolo vi sia piaciuto, così vi mando un grosso bacio,
a presto,

Hazel Evans

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