Capitolo 24

Erano rimasti stretti in quell'abbraccio per una buona manciata di minuti, non muovendosi minimamente, non staccandosi nemmeno per sbaglio. Era come se niente avesse potuto rovinare quel momento, e nemmeno renderlo più bello. Tutto era semplicemente come doveva essere, niente di più o di meno. Hazel stretta contro il suo petto, e le braccia di Evan attorno al suo esile corpo pronte a proteggerla da qualunque cosa, fossero state le ridicole scenate di Noah, o le occhiatacce irritate della guardia giurata che continuava a mandare loro segnali indecifrabili, tentando di mandarli via.
Poi Evan ripensò a ciò che aveva detto poco prima Noah complimentandosi con Hazel, così parlò.
"Ehi prima Noah ha parlato di alcune tue foto che è venuto a vedere... Che intendeva?" le chiese, l'espressione confusa.
Hazel sollevò lo sguardo sul viso del ragazzo "Volevo che fosse una sorpresa, ma Noah sembra voler rovinare a tutti i costi ogni mio piano" rispose scocciata.
"Vieni" continuò, staccandosi da Evan e allungando una mano verso la sua, per poi afferrarla e stringerla forte.
Gli fece strada verso la sala dove l'intera mostra proseguiva col programma, attraversarono un lungo corridoio tappezzato di bellissimi quadri colorati, che ricordavano quasi dei disegni di fumetti, poi entrarono in una grande stanza dalle pareti color panna e il parquet lucido, attorno a loro alcune grandi fotografie in mostra sulle pareti.
Lo sguardo meravigliato sul volto di Evan che spaesato continuava a guardarsi intorno, mentre Hazel attendeva impaziente che le dicesse qualcosa.
Lo guidò verso la fotografia sistemata al centro della sala, tenendolo ancora per mano, e ammirando la foto davanti a lei con orgoglio e soddisfazione.
"Shelter, di Hazel Donovan" lesse incredulo Evan da un'etichetta in ottone, ammirando la fotografia di un vasto paesaggio ripreso da una grande balconata che poteva scorgere in primo piano, il sole al tramonto riflesso su uno specchio d'acqua immobile, e la figura di un ragazzo perfettamente in equilibrio sulla sua tavola da surf, che dava quasi l'impressione di poter camminare sull'acqua.
"L'hai fatta tu?" le chiese colpito, l'espressione affascinata. Hazel annuì mordendosi il labbro inferiore, fiera di se stessa.
"Quello è Ian" gli disse indicando il ragazzo in piedi sulla tavola "E quella è la spiaggia di fronte la casa dei miei nonni al mare, dove ho trascorso ogni estate da quando sono nata" aggiunse, lo sguardo puntato sulla sua foto.
"Per questo il titolo è Shelter, quel posto è il mio rifugio da quando ero soltanto una bambina" gli spiegò sorridente.
"Quelli invece sono i miei nonni intenti a ballare la loro canzone il giorno delle loro nozze di rubino" disse, indicando da lontano un'altra foto. "A beautiful love story" sussurrò Evan, lo sguardo meravigliato su un'altra incisione posta sopra la fotografia, il sorriso dolce sulle labbra.
"E quella" riprese a parlare Hazel "Quella è una foto scattata durante il mio viaggio a Parigi" disse, facendo voltare Evan sul posto e indicandogli una fotografia un po' più grande delle altre allungando un braccio. Il ragazzo fece per avvicinarsi, la mano stretta ancora in quella di Hazel, lo sguardo incantato.
Davanti ai suoi occhi la fotografia di uno splendido cielo notturno riflesso sulla Senna, scattata da un ponte affollato. Le centinaia di lanterne di carta che emanavano una luce dal tono caldo nel cielo, erano riprodotte sullo sfondo sfumato dell'acqua del fiume, mentre delle figure scure in primo piano accendevano altre lanterne, o scrivevano qualcosa sulla loro carta, nella speranza che ogni loro desiderio potesse realizzarsi quella notte. Era la notte dei desideri, la notte in cui migliaia di stelle cadevano mentre lo stesso numero di desideri giungeva in cielo. "City of stars, Parigi 2016" fu Hazel questa volta a leggere.
Evan nel frattempo aveva spostato lo sguardo su di lei, che orgogliosa non riusciva a smettere di ammirare la sua fotografia. Per lui però, nemmeno Parigi di notte, o un cielo stellato durante la notte dei desideri, sarebbe mai stato uno spettacolo più bello di lei.
Soltanto quando Hazel si voltò verso di lui, Evan riuscì a ricomporsi, smettendo di guardarla imbambolato, e potendo finalmente trovare le parole giuste per esprimere il suo stupore "Tutto questo è incredibile, Hazel" le disse. La mora gli sorrise emozionata, mentre lui le scostava dei capelli davanti agli occhi sistemandoglieli dietro un orecchio "Tu sei incredibile" continuò, facendola rabbrividire.
"Queste foto sono perfino più belle di quelle della signorina Reinhart!" rifletté, e non stava di certo esagerando.
"Perché sono qui nascoste dal resto della mostra?" le chiese confuso "Perché nessuno è qui a vederle?".
Hazel gli sorrise, lo sguardo intenerito "Perché io non sono una fotografa di successo, né una professoressa con un'incredibile carriera d'artista alle spalle. E se mio padre o la mia famiglia sapesse di queste foto, del fatto che io abbia acconsentito a metterle in mostra, probabilmente adesso starei qui a sentirmi dire che tutto questo è solo una grande perdita di tempo, che fare fotografie non mi porterà mai da nessuna parte, e che dovrei smetterla di giocare tanto con la mia macchina fotografica, ma piuttosto mettermi a studiare per entrare all'università di medicina prima che sia troppo tardi" rispose, gli occhi improvvisamente più tristi.
Evan continuava a guardarla, al centro di quella stanza dove nessun altro era lì con loro per apprezzare il lavoro di Hazel, e non poteva che provare una rabbia incontenibile per quello che lei aveva appena detto, per il modo in cui ormai rassegnata gli aveva spiegato cosa avrebbe potuto dire suo padre, se solo avesse visto quelle foto.
Non riusciva a capire come diavolo sarebbe mai potuto essere possibile. Chiunque davanti a quelle fotografie, davanti alla dedizione e all'impegno con cui Hazel le aveva scattate, davanti all'orgoglio con cui adesso le ammirava, avrebbe trovato tutto ciò davvero incredibile. Non poteva in alcun modo ad immaginare il padre di Hazel - qualunque aspetto avesse mai potuto avere un uomo così ingiusto -, chiamare il duro lavoro della figlia, una semplice e pura perdita di tempo. Non riusciva proprio a capire in che modo suo padre avrebbe mai potuto comportarsi in maniera totalmente indifferente, davanti alle storie affascinanti in quelle foto. Ma probabilmente non lo avrebbe mai capito, proprio come non era ancora riuscita a fare Hazel, ecco perché sembrava ormai essere rassegnata.
"Sono splendide Hazel, è davvero un peccato che nessuno adesso sia qui con noi a bere champagne e ad applaudirti" le disse, lo sguardo dispiaciuto. "Mi dispiace se la tua famiglia oggi non è qui a complimentarsi con te, ma mi dispiace più per loro, sai? È davvero un peccato che non riescano a capire quanto siano belle queste foto, non sanno proprio che spettacolo si stanno perdendo" le disse, mentre Hazel continuava a guardarlo con un sorriso tenero sulle labbra.
"Evan non m'importa" gli rispose, guardandolo fisso negli occhi.
"A me basta questo" continuò "Essere qui con te, circondati dalle mie foto, e sapere che ti piacciano, per me è già grandioso" gli spiegò, l'umiltà nelle sue parole.
"Tu ti meriti molto di più" provò a convincerla "Ma sono sicuro che un giorno in questa stanza non saremo soli. Forse i tuoi genitori continueranno a non esserci, ma la gente, quelle persone nell'altra sala, faranno cambiare idea alla tua famiglia Hazel" le disse certo delle sue parole. E fu in quel momento che Hazel si gettò fra le sue braccia, grata per le sue parole.

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"I met you in the dark, you lit me up
You made me feel as though,
I was enough
We danced the night away,
we drank too much,
I held your hair back when
you were throwing up"
Say you won't let go, James Arthur

Intento a sistemare ordinatamente i suoi vestiti nel borsone mimetico, stava cercando con tutte le sue forze di ignorare il fastidioso rumore che echeggiava in tutta la stanza dal cellulare di John, ogni volta che uno zombie finiva per staccare un arto al suo avatar in uno di quei giochi che il suo amico adorava tanto. Il moro si lasciò scappare un gridolino quando l'ennesimo zombie staccò il braccio a morsi al suo piccolo cacciatore di zombie, mentre Peter stava lì a fissarlo sconvolto con una felpa fra le mani.
"Ti rendi conto che mia sorella di 12 anni gioca a Trivial Pursuit e tu a Zombieland?" gli chiese, cercando di attirare la sua attenzione.
"Tua sorella ha il quoziente intellettivo decisamente troppo alto per la sua età" esordì John "Perciò se lei vuole diventare una piccola Einstein a soli 12 anni, non significa che io non possa divertirmi come meglio mi pare" disse in sua difesa.
"Divertirti? Permettendo a degli zombie di fare a pezzi la riproduzione virtuale di te stesso?" gli chiese ancora Peter, gettandosi di peso sul suo letto.
"Tu ti diverti a riordinare la nostra stanza, ed io a vedere degli zombie farmi a pezzi" gli rispose, lo sguardo fisso sullo schermo del suo telefono.
"Questa stanza è un porcile!" esclamò Peter, guardandosi intorno schifato.
"Forse avrebbero dovuto darti una stanza da condividere con le ragazze del dormitorio femminile" rifletté John "O forse dovrei gettare fuori dalla finestra qualunque cosa sia fuori posto! Come i tuoi vestiti lì ammassati per terra, o i tuoi anfibi sporchi di fango" cominciò Peter.
"Porterò tutto in lavanderia domani, adesso chiudi la bocca mamma, ho bisogno di concentrarmi per cercare di non farmi staccare l'unica gamba che mi è rimasta!" disse scocciato John, interrompendo le lamentele di Peter.
"Quella roba puzza John! Vai in lavanderia adesso o la getterò via sul serio, e sai benissimo che l'ultima volta che non hai messo via la tua roba sporca, non mi son fatto alcun problema a buttare tutto fra i rifiuti della mensa" provò a intimidirlo, e fu in quel preciso momento che finalmente John lo degnò della sua attenzione.
"Non ti azzarderai, non di nuovo" disse serio John, l'espressione minacciosa sul viso. "Non hai idea di quello che ho dovuto fare per togliere via la puzza di pesce morto dalla mia divisa l'ultima volta" disse John, avvertendo un conato di vomito al ricordo della puzza terribile di quella zona riservata ai rifiuti organici della loro base.
"Se non porti a lavare al più presto quei vestiti, presto sentirai la puzza di pesce anche in questa camera!" continuò con la predica Peter.
"E va bene!" esordì John, scattando improvvisamente in piedi, l'aria scocciata. "Sei peggio di mia madre!" si lamentò, avvicinandosi all'ammasso di roba sporca accanto al suo letto.
"Shhh!" lo zittì poi Peter, sentendo ad un tratto il suo telefono suonare da chissà quale angolo remoto della stanza. Quella precisa suoneria provocava da sempre quella reazione in lui, soprattutto nell'ultimo periodo della sua vita. Era la canzone che Casey aveva impostato solo ed esclusivamente per le sue chiamate nel cellulare di Peter, e le orecchie del biondino, che non erano più poi così abituate a sentire quella canzone, non poterono che drizzarsi al suono delle prime note di Say you won't let go, di James Arthur. Così non riuscendo a ricordare dove diavolo avesse lasciato il suo cellulare l'ultima volta che lo aveva utilizzato, scattò in piedi, strappò via le coperte dal suo letto, spostò qualunque cosa si trovasse sul suo comodino per poi gettare tutto fra le lenzuola, svuotò il borsone mimetico lasciando che il suo intero contenuto si riversasse per terra, controllò nelle tasche della sua divisa, per poi sollevare lo sguardo e puntarlo su John, che di fronte a lui, lo guardava scioccato.
"Adesso chi è che ha ridotto questa stanza in un vero e proprio porcile?" strillò John, guardandosi intorno sconvolto.
Peter si precipitò verso di lui, e quando capì da dove provenisse quella canzone, sollevò velocemente da terra la montagna di vestiti sporchi di John, gliela sbattè contro il petto, poi prese il suo celulare fra le mani, e quando lesse il nome di Cas sul display, i suoi occhi si illuminarono all'improvviso.
"Ehi!" la salutò, portandosi il cellulare all'orecchio.
Sentì il respiro di Casey irregolare, come se avesse corso per tutto il quartiere per chissà quanto tempo senza fermarsi un solo attimo, così inarcò un sopracciglio preoccupato, mentre sotto gli occhi curiosi del suo amico, che ancora in piedi non smetteva di fissarlo confuso, si voltava infastidito dandogli le spalle.
"Cas?" la richiamò, non preoccupandosi di dire il suo nome in presenza di John "Va tutto bene?" le chiese premuroso.
"Pet" rispose dopo pochi istanti la ragazza "E' successo di nuovo, ti prego, ho bisogno che tu venga qui" lo supplicò, il tono terrorizzato.
Peter non ci pensò un attimo, e prendendo di corsa la sua giacca ai piedi del letto le rispose "Arrivo subito, sta' tranquilla" mentre usciva di corsa fuori dalla sua camera, senza degnare della minima attenzione John, che incredulo continuava a guardarlo "Dove diavolo vai?" gli chiese, senza ottenere però alcuna risposta.

Ascoltate mentre leggete:

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L'auto del signor Blake, sebbene avesse già subito un paio di danni per colpa della guida inesperta di Evan, durante i suoi primi mesi da neopatentato, riusciva ancora a sfrecciare velocissima lungo la statale di ritorno a Santa Ana. Evan poi, non sembrava il tipo da guida tranquilla e prudente. Abituato alla sua moto d'altronde, non sembrava proprio riuscire a limitarsi a delle semplici velocità moderate. Amava correre per strada, sentire il vento fresco colpirlo dritto in faccia, e ascoltare le sue canzoni preferite a tutto volume nell'abitacolo di quella vecchia auto.
L'impianto stereo era l'unica cosa di cui sentiva la mancanza sulla sua moto, poichè niente avrebbe potuto rendere più piacevole un viaggio, che un buon repertorio di canzoni e la giusta compagnia con cui poterle cantare a squarciagola. Era proprio per questo che a parer suo, quello era esattamente ciò che amava definire uno scorcio di felicità.
Premeva forte il pedale sull'acceleratore, con la mano sinistra teneva saldo lo sterzo, mentre la destra batteva le dita a tempo dall'altro lato del volante.
Il finestrino per metà aperto permetteva al vento di volare fra i suoi capelli castani, mentre gli occhi attenti fissavano la strada davanti a lui, non poi così trafficata. Le luci del cielo notturno, e i fasci luminosi dei lampioni che costeggiavano l'autostrada, rendevano la visuale davanti a lui più chiara.
Hazel, seduta accanto a lui, con metà braccio fuori dal finestrino, e la brezza leggera fra i capelli, non smetteva di sorridere mentre entusiasta cantava a squarciagola Be calm, dei Fun. Riusciva a sentire Evan canticchiare insieme a lei le parole di quella canzone, più attento a mantere la giusta distanza di sicurezza dall'auto davanti a loro, che a non sbagliare il testo. Lo guardava con la coda dell'occhio, mentre felice scuoteva i capelli e batteva i piedi, e avrebbe giurato che quello sul volto di Evan, fosse proprio uno dei sorrisi più sinceri che mai gli avesse visto indosso.

"But I always knew you'd be the one to understand me,
I guess that's why it took so long to get things right"

Mentre cantavano quelle parole, si lanciavano occhiate furtive sorridenti.
Evan pensò che nessuna frase sarebbe stata più adatta per descrivere quello che sentiva lui adesso. Finalmente si sentiva in qualche assurda maniera che nemmeno lui sapeva spiegare, compreso. Sentiva che anche se nè il suo psicoterapeuta, nè la sua famiglia, o perfino Peter... Sebbene nessuno di loro fosse mai riuscito a capire davvero cosa gli passasse per la testa, Evan in qualche modo adesso si sentiva certo del fatto che Hazel ce l'avrebbe fatta. Lei lo aveva sempre capito. Anche quando lui non immaginava nemmeno che potesse farcela, lei stava già studiando in ogni sua singola parte, quel rompicapo impossibile che Evan custodiva nella sua testa. Così arrivò alla conclusione che era quella la ragione per cui aveva dovuto attendere così tanto tempo, prima di trovare qualcuno in grado di capirlo davvero.

"Suddenly I'm lost on my street, on my block"

Al suono di quelle parole Evan non potè che ripensare a quando, solo poche settimane prima, in seguito ad un brutto incubo che non gli aveva lasciato più alcuna possibilità di riprendere sonno, era uscito di casa a correre per le strade del suo quartiere alle prime ore del mattino. Si era sentito perso nel posto in cui era cresciuto, nella città in cui aveva vissuto fin dal giorno della sua nascita. Come se non sapesse più da dove provenisse, quale fosse la sua casa, o il suo posto in quella vita. Tutto era irriconoscibile e sconosciuto ai suoi occhi. Probabilmente avrebbe considerato un luogo più familiare, il capannone che lo aveva ospitato per settimane durante la guerra in Iraq, e tutto ciò non poteva che farlo stare peggio. Ma adesso, che guidava verso quella che sapeva bene fosse proprio la sua casa, adesso che accanto a lui c'era Hazel, in qualche modo si sentiva nel posto giusto.

"Can't you see? I'm losing my mind this time,
this time I think it's for real, I can see"

Si chiese se Hazel avesse studiato a fondo quello che c'era nella sua testa, se in qualche modo fosse giunta alla conclusione alla quale erano ormai arrivati da tempo il dottor Mavis, la sua famiglia, e Peter. Se anche lei avrebbe ritenuto come loro che il suo fosse davvero un problema così grande. Se anche lei avrebbe creduto che la terapia fosse davvero l'unica soluzione per lui.

"I think they want something,
I close my eyes, I tell myself to breathe,
and be calm"

Così fece Evan. Socchiuse gli occhi per un istante, prese un lungo respiro, e si impose di calmarsi.
All'improvviso le sue mani smisero di battere a tempo sul volante, semplicemente lo strinsero piano, muovendosi abili su di esso. Mentre le sue labbra continuavano a muoversi, cantando quelle parole.

"I know you feel like you are breaking down.
Oh, I know that it gets so hard sometimes,
be calm"

Si ripeteva di stare calmo, di lasciare che tutti i suoi problemi gli scivolassero via dalle mani con la stessa leggerezza con la quale adesso felice cantava quella canzone.
Hazel nel frattempo, che lo aveva accompagnato cantando per tutto il tempo, non potè che rimanere colpita, notando come Evan aveva preso alla lettera il consiglio in quella canzone. Lo aveva visto socchiudere gli occhi per un attimo, e adesso lo ammirava godersi quell'atmosfera spensierato e... calmo. Si sentì in qualche modo fiera di lui, oltre che felice.

"You hate your pulse because it thinks you're still alive"

Ed era proprio così. Evan odiava ricordare a se stesso di essere ancora vivo. E odiava il suo battito perchè continuava a ricordargli di avercela fatta sul serio, di esser davvero sopravvissuto a quella sparatoria. Lo odiava perché continuava a ricordargli tutti i battiti dei suoi amici che si erano spenti nell'esatto momento in cui il suo stava semplicemente rallentando. Si odiava perché lui era ancora vivo, ma i suoi amici no.
"Ehi, va tutto bene?" gli chiese poi Hazel, poggiandogli una mano sulla gamba, lo sguardo preoccupato.
Evan posò gli occhi sulla mano di Hazel sopra i suoi jeans, poi spostò lo sguardo su di lei. Lo guardava premurosa, in attesa che le parlasse, e Evan si sentì quasi grato per tutte quelle attenzioni. Non era abituato a sentirsi chiedere se davvero tutto andasse bene in lui. In realtà non credeva che qualcuno glielo avesse chiesto anche solo una volta nell'ultimo periodo. Per questo si sentì piacevolmente colpito dal modo in cui premurosa, Hazel continuava a preoccuparsi per lui.
Le sorrise dolce, "Credo di sì" rispose, ritornando a guardare la strada davanti ai suoi occhi.
"Sembri... turbato" gli disse Hazel, l'espressione confusa.
"Non lo sono" la rassicurò il moro, accennando una risatina.
Hazel inarcò un sopracciglio, non ancora convinta "A cosa stai pensando?" gli chiese curiosa. Evan le lanciò un'occhiata colpito, mentre i Fun continuavano a cantare e a suonare nella sua radio.
"A niente" le rispose vago - in realtà non sapeva bene nemmeno lui a cosa stesse pensando.
"È impossibile pensare a niente, perché è impossibile non pensare" gli disse, sicura di sè. Evan inarcò un sopracciglio, poi la guardò "E questa da dove l'hai tirata fuori?" le chiese divertito.
"Non lo so, ma è la verità!" chiarì irremovibile. Evan rise, ricominciando a battere le mani a tempo sul volante, chiaro segno di nervosismo che Hazel poté cogliere all'istante.
"Quindi? Non vuoi dirmi a cosa stai pensando?" gli chiese ancora una volta, girandosi quasi completamente verso di lui. Evan la guardò, non più così sorpreso dal suo atteggiamento testardo e determinato, poi sospirò, e infine aprì bocca "Questa canzone" disse, indicando lo stereo accanto a lui "Non mi ero mai accorto di quanto fosse significativo il testo" cominciò, così Hazel cambiò improvvisamente espressione.
"È davvero una bella canzone" gli disse, sorridendo entusiasta.
"E aiuta a rilassarsi, per quanto ritmata sia" rifletté. "Perché hai bisogno di calmarti?" gli chiese poi sfacciata Hazel, alludendo alle parole del testo.
Evan la guardò colpito, non mollando la presa sul volante, deglutì, poi le rispose "Tutti hanno bisogno di rilassarsi" le mani che continuavano a battere a tempo.
"Sì, ma tu perché?" continuò a chiedergli.
Qualche istante di silenzio, poi Evan riprese a parlare, leggermente in imbarazzo "Non c'è un solo motivo. Sono tante le ragioni per cui io abbia bisogno di restare calmo" le rispose sincero.
"Per esempio perché stai guidando, e devi essere prudente" tentò Hazel "Ma anche perché sei con me. Siamo soli nella tua auto, e non c'è alcuna ragione per cui tu debba sentirti stressato o a disagio" chiarì la mora, continuando a fissarlo seria.
Evan si voltò per qualche secondo verso di lei, colpito "Tu riesci a calmarmi" realizzò solo in quel momento incredulo.
Hazel sorrise, emozionata di sentire proprio quelle parole uscire dalla bocca di Evan. Non credeva che avrebbe potuto dirle niente di più gratificante.
"Io?" gli chiese incredula. "Sì" rispose deciso Evan ridendo.
"Ed io che credevo di starti innervosendo" disse la mora, ritornando a sedersi diritta.
Evan rise "No, non mi stai innervosendo affatto! È solo che non sono abituato a rispondere a tutte queste domande" le spiegò. In realtà, durante le sue visite col dottor Mavis, era solito ricevere valanghe continue di domande, ma le sue sembravano più delle battute di un copione alla quale doveva attenersi senza alcuna variazione. Era come se in realtà non stesse davvero a sentire che risposte gli avrebbe dato Evan. Probabilmente era il motivo per cui, nonostante i mesi, non si fosse ancora accorto di quante bugie si impegnava a raccontare Evan ad ogni seduta. Con Hazel invece, non si sentiva affatto come se fosse ad una delle sue sedute di terapia, non gli pareva nemmeno un interrogatorio. Leggeva il vero interesse nelle sue continue domande, e sebbene fosse tutto così insolito per lui, non poteva che sentirsi a suo agio, rilassato, e in qualche assurdo modo, perfino amato.
"È il motivo per cui non rispondi facilmente. Tentenni ad ogni domanda, come se non volessi esporti troppo" gli fece notare la ragazza.
Evan rimase sorpreso dalle sue parole: non aveva mai notato quanto pesante risultasse su di lui l'aggettivo riservato. Era come se non riuscisse a controllare in alcun modo il flusso di emozioni in lui. Come se qualunque cosa lui sentisse, venisse bloccata da una frontiera invalicabile, nell'esatto istante in cui sembrava volerla tirare fuori da sè. Non lo faceva di proposito, era semplicemente un atto involontario e inspiegabile.
"Non so perché lo faccio" rispose il ragazzo, rallentando dietro un auto ferma per via del traffico.
"Lo fai perché non sei abituato a esporti. Lo hai detto tu stesso" gli spiegò Hazel, abbassando il volume della radio.
Evan si voltò a guardarla, l'aria sorpresa e incredula "Non sono abituato" ripeté a bassa voce, fermando piano l'auto.
"Ma c'è sempre tempo per imparare a farlo" gli ricordò.
"Tu sai che non mi sono mai spinto così oltre, vero? Sei la prima persona che incontro, che è stata in grado di farmi ammettere il mio problema con l'apatia" le disse sorridendo.
"Non è apatia Evan" lo corresse, mentre lui inarcava un sopracciglio "E non è nemmeno un problema" lo sguardo serio sul volto di Hazel.
Gli sorrise dolce "È solo voglia di essere ascoltato" sentenziò.
Evan rimase senza parole. In ventidue anni, non ci aveva proprio mai pensato. Per tutta la vita si era sentito un apatico, introverso cuore di pietra. Non aveva dubitato un solo secondo di questo: non voleva dire ciò che sentiva. Gli avevano detto che avesse semplicemente paura di conoscere le sue emozioni. Che tutto dentro di lui lo terrorizzava, ed era per questo che si ostinava a ignorarlo, e reprimerlo. Ma in realtà lo avevano convinto della più grande e pericolosa sciocchezza alla quale avrebbero mai potuto destinarlo.
Evan Blake non aveva paura di niente, men che meno dei suoi sentimenti. Lui aveva semplicemente bisogno di esprimerli, esternandoli e comprendendoli. Aveva bisogno di parlarne, di qualcuno con cui parlarne. Lui non era apatico. Era un empatico che desiderava semplicemente essere ascoltato, e magari anche capito.
"I-io" provò a dire incredulo "Tu - fece una pausa deglutendo - Hazel se io provassi a rispondere alle tue domande, tu mi ascolteresti?" le chiese. Al suono di quelle parole Hazel sentì il suo cuore stringersi nel petto: niente e nessuno le era mai sembrato più dolce del ragazzo di fronte a lei in quel preciso momento, che con gli occhi lucidi e lo stupore sul viso, continuava a implorarle attenzioni.
"Potrei ascoltarti parlare per tutta la notte Evan Blake, potrei farlo ogni notte, qualunque cosa pur di strapparti via di dosso quell'aria misteriosa che continui a indossare, e avere l'immenso privilegio di conoscerti per quello che sei"  gli rispose entusiasta, e orgogliosa di lui.

Spazio autrice

Avete presente quando siete in macchina in autostrada, con i finestrini abbassati e la musica a tutto volume?
Non credete che quello sia un momento di libertà e pace estrema?
Uno di quei momenti da video clip, un po' come quella scena che si vede spesso nei film, in cui il protagonista mette fuori la testa dal finestrino e grida al mondo quanto è felice...
Felicità: è esattamente quello che provo io quando sono in macchina a cantare a squarciagola la mia canzone preferita, ecco perché ho pensato di parlarvi proprio dello "scorcio di felicità" che tanto fa stare bene Evan.
Ma se alla fine del capitolo, Evan ed Hazel sembrano proprio godersi quel momento insieme in completa calma, Casey invece a casa sua sta vivendo tutt'altro che un momento di calma...
Ha sognato di nuovo suo padre, e in preda al panico, cosa ha fatto? Ha chiamato Peter!
Chissà se Peter riuscirà a calmarla proprio come ha fatto Hazel e quella canzone con Evan... Lo scopriremo al prossimo capitolo!
Grazie mille per leggermi, votarmi e recensirmi, vi adoro e senza di voi non saprei proprio dove trovare quella determinazione che mi spinge a scrivere i miei capitoli a notte fonda con quel flusso di idee che non mi lascia dormire per nessuna ragione al mondo!
Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto, ma anche se vi ha fatto schifo, sono aperta a critiche di ogni genere, purché sempre costruttive e mai cattive!

Un bacio ♥️

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