Capitolo 22
Camminava nella sua elegante uniforme, sfilando con quel corpo perfetto, lo sguardo serio e il passo svelto.
Casey Johnson era il frutto proibito di chiunque, con quei lunghi capelli color oro, e gli occhi blu come il mare, era riuscita a far innamorare fin troppi ragazzi all'interno di quell'aeroporto.
Il cameriere al bar continuava a sfoggiare le sue abilità nei disegni con la schiuma del suo cappuccino ogni singola mattina, nell'invano tentativo di impressionarla, e anche quando Casey senza mostrare il minimo apprezzamento, rovinava il suo lavoro gettando quantità industriali di zucchero nella sua tazza, il ragazzo da dietro al bancone continuava a penderle dalle labbra senza alcuna dignità. Per non parlare di quanto sembrasse ridicolo e seccante ai suoi occhi, il logorroico agente della zona controlli che imperterrito non la lasciva mai in pace un attimo, continuando a raccontarle la stessa identica storia della vecchietta salvata da un borseggio ogni qualvolta che Casey dovesse lavorare al suo fianco, certo che nelle vesti di eroe/salvatore di nonnine indifese, avrebbe sicuramente fatto breccia nel cuore della ragazza.
Peccato però che Casey non fosse minimamente interessata a nessuno di loro. In realtà sembrava non importarle proprio di nessuno. Negli ultimi tempi era diventata così apatica e indifferente a qualunque ragazzo le si avvicinasse, che quasi iniziava a chiedersi se davvero ci fosse ancora un cuore dentro di lei a mantenerla in vita. Si sentiva così sola e annoiata che aveva quasi dimenticato cosa si provasse ad essere felici.
Non ricordava nemmeno l'ultima volta che poteva dire di esser stata davvero felice.
Tutto questo la rattristava terribilmente, ma sebbene le numerose opportunità che le si presentavano davanti di continuo, Casey non riusciva nemmeno proprio ad essere felice. Si rifiutava perfino di tentare, preferendo la solitudine e la monotonia a qualunque forma di divertimento avrebbe potuto trovare in tutti quei ragazzi.
Si chiese se tutto questo fosse in qualche modo colpa di Peter, come sempre, e in quell'esatto momento la figura di un ragazzo alto, dalle spalle larghe e dalla testa dorata, per metà nascosta sotto un berretto nero, la fece imbambolare.
"Ehi c'è Cas, vai da lei!" esordì Evan guardando con la coda dell'occhio la ragazza seduta al bancone, e dando un colpo alla spalla del suo amico.
Peter si voltò istintivamente, e quando la riconobbe, non poté fare a meno di sorridere. Ma Casey, che era stata beccata a fissarlo, distolse lo sguardo imbarazzata, non preoccupandosi minimamente di ricambiare quel sorriso.
"Va' da lei!" insistette ancora Evan, dando una spinta al suo amico.
Così Peter si diresse verso la ragazza, non smettendo di sorridere e muovendosi sicuro di sé in quella divisa che sembrava essergli stata cucita addosso.
"Ehi!" la salutò imbarazzato, portandosi una mano dietro il capo agitato.
Casey, che stava fingendo di non averlo affatto notato, al suono della sua voce, si raddrizzò sul posto sollevando lo sguardo su di lui. "Peter" lo salutò, mentre le sue gote arrossivano.
La ragazza notò Evan a pochi passi da loro, così sorridendogli lo salutò con un cenno della mano solare come sempre.
"Crede che mi colpirai in faccia da un momento all'altro, non lo farai vero?" le chiese fingendo di essere sul serio preoccupato.
Lo guardò inarcando un sopracciglio sorpresa "Tu non darmi nessun motivo per farlo" lo avvertì.
Peter accennò una risata non poi così tranquillo "È così che tratti chi non ti ha mollato nemmeno per un attimo durante il tuo post-sbronza? È un pugno in faccia che merito?" scherzò il ragazzo.
"Mi stai davvero chiedendo cosa penso che tu meriti?" chiese Casey, guardandolo di sottecchi.
Peter aggrottò le sopracciglia sorpreso da quella risposta, mostrando un chiaro segno di delusione sul viso, sul quale improvvisamente era sparito anche l'accenno di un sorriso.
"Non ti colpirò" disse poi Casey sospirando, e guardando oltre le spalle del ragazzo, verso un gruppo di passeggeri.
"Va tutto bene?" le chiese Peter, piegandosi sul bancone, l'espressione preoccupata.
Casey fissò il suo sguardo di un freddo blu in quello del ragazzo "Va tutto bene" rispose semplicemente.
"Non è vero" disse Peter, scrutandola con lo sguardo.
"Cosa te lo fa pensare?" chiese Casey, aggrottando le sopracciglia.
"Dimmi che va tutto bene guardandomi negli occhi" al suono di quelle parole Casey si immobilizzò.
Era ciò che le diceva quando sentiva che le stava mentendo, era l'unico modo che Peter aveva per capire davvero quando Casey voleva nascondergli come stesse realmente. Così, sentendosi sotto analisi, e anche tremendamente in imbarazzo, e notando come Peter si ostinasse a comportarsi come se fra i due ogni cosa fosse al suo posto, provò a dimostrargli la veridicità delle sue parole. Così sollevò il capo, e incastrando il suo sguardo con quello di Peter, lo guardò con aria di sfida.
"Va tutto bene" disse solo irremovibile.
Peter deglutì poco convinto "Hai imparato a farlo" le disse poi.
"Cosa?" chiese confusa Casey.
"Mentire guardando negli occhi la persona che hai davanti, non riuscivi a farlo prima, capivo sempre quando si trattava di una bugia" le spiegò, la delusione nei suoi occhi.
Realizzare che qualcosa in lei fosse cambiata da quando non stavano più insieme, lo preoccupava terribilmente. Era come se ogni minimo cambiamento avesse potuto compromettere il modo in cui Casey lo avrebbe guardato, il modo in cui gli avrebbe parlato.
"Smettila di analizzare ogni mio comportamento, mi fai andare in paranoia!" lo rimproverò.
"Non ti sto analizzando, semplicemente non posso fare a meno di notare che stai cercando di nascondermi qualcosa" le rispose serio, mentre Casey impallidiva.
"Sei irritante Peter" disse Casey, mettendosi in piedi di scatto, sul punto di andare via.
"Ehi, che ti prende?" le chiese preoccupato e colpito dal suo atteggiamento, piazzandosi di fronte a lei e impedendole così di proseguire.
"Ho detto che va tutto bene, lasciami in pace!" ripeté Casey, mentre lo sguardo le accese il viso.
"Cas, non va affatto bene, non provare a nasconderlo. Se non vuoi dirmi cosa succede smetterò di chiedertelo, ma non allontanarmi, non ancora una volta" la implorò, lo sguardo ferito e stanco.
"Devo andare" disse con voce tremante, voltandosi istantaneamente per poi correre via, lasciandolo da solo ancora una volta.
Peter rimase immobile guardandola andar via, arrabbiato, deluso e preoccupato. Lo faceva andare fuori di testa, sapere che qualcosa la turbasse ma allo stesso tempo sentirsi continuamente rifiutato, come se qualunque suo tentativo di aiutarla fosse destinato a fallire già in partenza. Si sentiva impotente, inutile, e il modo in cui continuava ad allontanarlo, nonostante quello che fosse successo negli ultimi giorni fra i due, non faceva che alimentare la rabbia in lui.
Le rivolse un ultimo sguardo, mentre si accorse come orgogliosa Casey si asciugava gli occhi umidi, preoccupandosi di non farsi notare da nessuno. Trattenne un ringhio, poi sentì Evan avvicinarsi e poggiargli una mano sulle spalle, nell'invano tentativo di confortarlo.
"Cos'è successo?" gli chiese preoccupato.
Peter fissò i suoi occhi verdi colmi di lacrime in quelli di Evan, tentò di ricacciare dentro la disperazione strofinandosi il palmo della mano contro il viso, poi aprì bocca "Finirà davvero per colpirmi stavolta, ma non m'importa" esordì iniziando a muoversi verso la direzione in cui aveva visto correre via Casey.
"Dovremmo decidere qual è il premio in palio per la nostra scommessa" disse Evan, affiancandosi ad Hazel, intenta a controllare i voli in partenza per quel giorno su un foglio tappezzato di codici e sigle incomprensibili, la penna che sfiorava i nomi delle destinazioni.
Hazel, che non lo aveva affatto sentito arrivare, sussultò al suono della sua voce, così lasciandosi scivolare la penna fra le dita, scarabocchiò qualcosa sulla carta bianca. Sollevò lo sguardo, il sorriso sulle labbra "Sei così sicuro della tua vittoria?" gli chiese inarcando un sopracciglio.
Le sorrise, avvicinandosi a lei "Casey è appena scappata via mentre era sul punto di avere quella che si potrebbe definire una normalissima conversazione con Peter, non so cosa le prenda, ma Peter sembrava davvero preoccupato" le raccontò.
"Ce la farà, deve solo avere pazienza" lo rassicurò, sicura della sua teoria.
"Lascerai che ti insegni a guidare" disse poi Evan, sorridendole emozionato. "Cosa?" quasi strillò Hazel, aggrottando le sopracciglia.
"Se vincerò io, tu imparerai a guidare" fu più chiaro, guardandola con quei suoi grandi occhi blu che mettevano sempre più in soggezione la ragazza davanti a lui.
Ma Hazel deglutì, e dopo qualche istante riprese a parlare "Puoi scordartelo!" lo avvertì "Non toccherò mai un volante" mise in chiaro.
"Andiamo, non hai mai provato, potresti rivelare un'eccellente abilità alla guida, ma anche se rischiassimo di farci ammazzare, sarebbe comunque divertente" provò a convincerla.
"Tu sei completamente folle!" lo insultò irremovibile. "So che ti piacerebbe imparare, ed io sono davvero un ottimo istruttore, Abigail ha preso la sua patente solo grazie a me. Inoltre sono già riuscito ad insegnarti a giocare a biliardo dopo tutte le volte che Ian aveva fallito, sai benissimo che ce la faresti senza alcun problema" non si arrese Evan.
"E poi questo accadrebbe soltanto nel caso in cui dovessi vincere io la nostra scommessa, per caso non sei più così sicura di poter vincere?" le chiese ammiccando un sorriso.
"E va bene! Ma se invece vincerò io, cosa che accadrà senza alcun dubbio, mi farai sparare un colpo con quella!" esordì Hazel, indicando la pistola che Evan teneva nella sua fondina, l'espressione elettrizzata e lo sguardo di sfida che aveva lanciato al moro davanti a lei.
Evan sgranò gli occhi, sorpreso "V-vuoi provare a sparare?" balbettò incredulo.
"Ho sempre voluto chiederti di farmi provare" quasi lo implorò.
"Non vuoi provare a spostare un auto, ma vuoi provare a sparare?" le chiese di nuovo, ancora sotto shock.
"Se proprio dobbiamo rischiare la vita, almeno facciamo in modo che ne valga la pena!" scherzò Hazel, sorridendogli beffarda.
"E poi sarei io quello folle" disse, sorridendo incredulo.
"Cosa ti spaventa soldato? Vuoi per caso tirarti indietro?" lo sfidò, porgendogli una mano.
"Nemmeno per idea!" le rispose, stringendogliela.
Hazel gli sorrise soddisfata, poi aggiunse "Ma se non verrai con me alla mostra fotografica che non mi perderei mai per nessuna ragione al mondo, allora la nostra scommessa salterà!" lo ricattò.
"Una mostra?" le chiese sorpreso, inarcando un sopracciglio.
"Esatto! Venerdì pomeriggio, ci sarà cibo e alcol gratis, e non osare dirmi di no dopo avermi costretto a venire con te ad una partita di basket per il nostro primo appuntamento!" lo avvertì sfoggiando un sorrisetto sghembo.
"Me lo rinfaccerai ancora per molto?" le chiese divertito.
"La smetterò se accetterai di venire a questa mostra con me" rispose, sul punto di implorarlo, il sorriso ad illuminarle il volto.
"Non ho mai pensato di rifiutare" la rassicurò ricambiando quel dolce sorriso.
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"Remember those walls I built?
Well baby, they're tumblin' down,
and they didn't even put up a fight,
they didn't even make a sound.
I found a way to let you in,
but I never really had a doubt.
Standin' in the light of your halo
I got my angel now"
Halo, Beyoncé
Le correva dietro preoccupato, facendosi spazio fra le decine di passeggeri che riempivano quell'aeroporto, attento a non perderla di vista.
Varcate le porte scorrevoli dell'uscita, la cercò con lo sguardo disperato.
"Mi seguiresti perfino se salissi su uno di quegli aerei diretta chissà dove, non è vero?" gli chiese poi una voce stranamente tranquilla richiamando la sua attenzione. Si voltò istintivamente, e non appena la vide seduta su una panchina mentre continuava ad asciugarsi le lacrime, si sentì in qualche modo sollevato.
"Probabilmente" le rispose, sedendosi affianco a lei. "Adesso ti abbraccerò, ma tu non provare a prendermi a morsi il braccio, ok?" l'avvertì, posandole un braccio attorno alle sue spalle. Ma con sua grande sorpresa Casey si strinse contro di lui, poggiando il capo sulla sua spalla, e assorbendo ancora qualche lacrima con un fazzoletto.
"E' da un po' che non mi racconti come vanno le cose nella tua vita, non ti chiederò di farlo se non vuoi, promettimi solo che non ti chiuderai in te stessa come fai sempre. Parla con Hazel, o con Evan, ma non comportarti come se fossi sola al mondo, come se a nessuno importasse di te, perché non è così Cas" la rassicurò, il tono dolce e premuroso.
"Sai benissimo che è esattamente quello che farò" disse fredda, il viso contro la giacca mimetica di Peter.
"Allora non arrabbiarti se continuerò a seguirti ovunque per cercare di aiutarti" chiarì Peter.
Si staccò da lui delicatamente, poi fissando il suo sguardo sul volto del ragazzo, aprì nuovamente bocca "Come puoi aiutarmi se il motivo per cui sto così sei proprio tu?" gli chiese confusa, gli occhi lucidi e l'espressione distrutta.
Vederla così triste gli gelava il cuore, alimentando i suoi sensi di colpa, e provocandogli un magone alla gola che difficilmente gli avrebbe permeso di respirare regolarmente.
Così ancora una volta il dolore che continuava a perseguitare Casey, era riconducibile proprio a lui, che mai avrebbe voluto farla stare così male.
La guardò profondamente dispiaciuto, il volto pallido e la bocca secca "Cas" provò a dire qualcosa.
"Sembra quasi divertente, non è così? L'unica persona che riuscirebbe a farmi stare meglio è proprio la stessa che mi fa stare così. Come ci si sente ad avere tutto questo potere?" gli chiese non permettendogli di continuare a parlare, il tono sarcastico delle sue parole, e il sorriso ferito sulla sua bocca. Ma al suono di quelle parole Peter si sentì solo più impotente.
Non riusciva nemmeno a pensare al modo in cui Casey lo aveva definito l'unico capace di farla stare meglio, piuttosto non smetteva di chiedersi come potesse essere ancora proprio lui, il motivo della sua sofferenza.
"Casey, mi dispiace. Non hai idea di quanto io mi odi per averti fatto questo, non avrei mai voluto, ma non avevo scelta, ho dovuto" provò a spiegarsi, non sapendo bene quali parole usare.
"Hai dovuto" ripetè la ragazza, facendo segno di no con il capo, incapace di comprendere il gesto di Peter. Perchè mai aveva dovuto mettere al rischio la sua carriera insieme a quella di suo padre, solo per distruggere la vita di qualcun altro, e trarne così ogni benefico da essa?
"Sai Peter, ho sempre pensato che tu fossi il ragazzo più onesto e leale che conoscessi. Ti ho sempre considerato davvero una brava persona, incapace di fare del male a nessuno, un uomo con dei veri principi, con dei precisi ideali. Cresciuto troppo in fretta, sei diventato il pilastro portante della tua famiglia quando eri solo un ragazzino, e sai, lo eri anche per me fino a pochi mesi fa. Se mi avessi chiesto quali fossero le uniche certezze nella mia vita solo poco tempo fa, avrei fatto sicuramente il tuo nome. Ma adesso, sebbene sembri proprio che io continui ad avere bisogno di te – e trovo tutto questo solo un assurdo scherzo di Dio – adesso Pet, non sono più certa che tu sia ancora in grado di aiutarmi" le spiegò dura ma sincera, gli occhi colmi di lacrime.
Vederla mentre gli parlava in quel modo, utilizzando proprio quelle parole, non faceva che distruggere attimo dopo attimo Peter. Sentiva la franchezza delle parole di Casey trafiggergli il petto ripetutamente, con coltellate lente e profonde, colpi decisi e tremendamente dolorosi.
"Sono ancora quel ragazzo Casey" riuscì a dire semplicemente, dopo alcuni secondi in silenzio.
"Non lo so Pet, io non riesco più a vederlo quel ragazzo. Sto qui con te sul punto di scoppiare in lacrime, lascio che tu provi a consolarmi, che mi abbracci e mi asciughi le lacrime, ma in realtà non so più chi sei. Non so nemmeno perché te lo lascio fare, semplicemente finisco fra le tue braccia, illudendomi che tu sia ancora lo stesso Peter di cui mi sono innamorata. Ma sei ancora tu?" gli chiese, la voce tremante e lo sguardo fisso negli occhi chiari del ragazzo.
Adesso anche lui tratteneva le lacrime, profondamente ferito. Non credeva che qualcosa gli avesse mai potuto fare più male in vita sua. Le parole di Casey, il modo in cui continuava a guardarlo, sembravano essere di gran lunga più dolorose perfino del proiettile che aveva rischiato di paralizzargli una gamba per il resto della sua vita.
"Se non fossi più lo stesso Peter, credi mi ostinerei ancora a tentare di ottenere il tuo perdono, dopo tutto ciò che mi hai detto, tutte le volte che mi hai allontanato? Se c'è una cosa che non cambierà mai Casey, è proprio l'amore che provo per te, riesci a considerare almeno questo una certezza?" le chiese guardandola attentamente.
"Non lo so" rispose incerta Casey, abbassando lo sguardo confusa.
Rimase a guardarla in silenzio, aspettando di trovare le parole giuste per riuscire a convincerla. Ma dopo alcuni secondi, fu Casey che riprese la parola "Continuo a sognare mio padre ogni notte" disse, mantenendo ancora lo sguardo basso.
"Tuo padre?" chiese confuso Peter. "Proprio lui" rispose sollevando lo sguardo.
"Be' in realtà sogno di parlargli, ma non lo vedo. E' così dannatamente realistico, le cose che mi dice nei miei sogni sono esattamente quelle che mi direbbe se fosse ancora vivo" realizzò, l'espressione confusa sul volto di Peter.
"Tenta di convincermi che le cose che ha fatto, le ha fatte solo in fin di bene, per me e la mia famiglia. Giustifica ogni sua azione, difende perfino te" disse, guardando preoccupata Peter.
"Dice che dovrei perdonarti, anzi, è convinto che lo farò, prima o poi" gli raccontò.
"Non riesco più a dormire Peter. Mi sveglio nel bel mezzo della notte piangendo, spaventata a morte. La notte del compleanno di Evan, quando mi hai riportata a casa, è stata l'unica volta in cui sono riuscita a dormire, probabilmente grazie all'alcol. Finirò per ubriacarmi tutte le notti se non la smetterà di perseguitarmi" ipotizzò in preda alla disperazione, il viso stanco.
"Cas" la richiamò Peter, il tono premuroso della sua voce "Non ce la faccio più" quasi strillò terrorizzata, scoppiando in lacrime.
Preoccupato Peter le circondò istintivamente le spalle, stringendola contro il suo petto, e carezzandole i capelli tentando di rassicurarla "Va tutto bene" le disse, poggiando il mento sopra la sua testa, continuando a stringerla fra le sue braccia.
"Sono solo incubi Cas, non sono reali" le disse, mentre Casey continuava a piangere contro il suo petto.
"Non mi lasciano dormire Pet, sto impazzendo" gli spiegò, così Peter l'allontanò prendendole il viso fra le mani.
Riprese a guardarla negli occhi, carezzandole il volto, "Sta' tranquilla, ti lasceranno in pace" la rassicurò, il tono convincente.
Lo studio del dottor Mavis, con quei mobili in legno di quercia e i divanetti in pelle bordeaux, dava quasi l'idea di essere un posto accogliente, moderno ed elegante, ma ad Evan bastava guardare il fascicolo con il suo nome a caratteri cubitali scritto sopra, per spazzare via in un attimo qualunque definizione di accogliente si volesse dare a quel luogo. Nonostante i modi di fare gentili e premurosi del dottor Mavis, i deliziosi cioccolatini che offriva ai suoi pazienti, e i quadri colorati e bizzarri appesi alle pareti, Evan non riusciva proprio a non odiare dover andare alle sue sedute di terapia.
Gli ricordavano continuamente di avere un problema, più o meno serio a seconda dei punti di vista. Evan per esempio, lo definiva una scocciatura più che un vero e proprio problema.
Odiava anche solo considerare il dottor Mavis il suo medico, piuttosto preferiva chiamarlo solo Mavis, e chiacchierare con lui un po' come avrebbe fatto con suo padre, risparmiandosi però qualche dettaglio di troppo, oltre che a minimizzare qualunque sintomo riconducibile al suo problema.
"Allora Evan, come sta andando?" gli chiese il dottore seduto sulla sua poltrona rossa, le gambe accavallate e la cartella clinica di Evan fra le mani.
"Direi bene, ho solo qualche problema col mio stomaco, ha qualcosa per quello?" lo prese un po' in giro il ragazzo, massaggiandosi l'addome e provando a non ridere.
Mavis inarcò un sopracciglio, poi sorrise beffardo "Niente più cioccolatini allora!" esordì, togliendo il vassoio pieno di cioccolatini dalle mani del suo paziente, l'espressione scocciata sul volto di Evan che stava ancora masticando l'ultimo cioccolatino.
"Adesso cerca di prendere la cosa seriamente Evan, stai mostrando dei chiari segni di miglioramento, ho solo bisogno che tu mi aggiorni" gli spiegò. "Aggiornarla, certo" ripeté Evan.
In verità, quello su cui avrebbe dovuto aggiornarlo, somigliava più al profilo medico di un liceale alle prese con i classici drammi adolescenziali, che a quello di un veterano di guerra vittima di un trauma.
Ciò che raccontava al dottor Mavis, erano i suoi problemi di autostima, l'incertezza sui suoi piani per il futuro, e le classiche divergenze di opinione che lo portavano a confrontarsi continuamente con suo padre. Niente a che vedere con i ricordi della sua missione in Iraq, le pallottole che aveva preso, gli amici che aveva perso o le persone che aveva ucciso.
"Hai avuto altri attacchi recentemente?" gli chiese, pronto ad annotare un'altra bugia sul fascicolo di Evan.
Ticchettò con le dita sulla pelle lucida del divanetto sul quale era seduto, mostrando un sorriso inquietante, e ripensando al suo ultimo attacco di panico.
Risaliva a poche settimane prima, quando rivivendo ogni ricordo del suo incidente a Baghdad in un sogno, si era svegliato terrorizzato e completamente sudato, non smettendo di tremare. L'unico che era a conoscenza di quell'episodio oltre a lui, era solo Peter, che gli aveva giurato di tenere la bocca chiusa al riguardo per qualunque ragione al mondo. D'altronde, non avrebbe potuto negare l'evidenza al suo migliore amico in alcun modo, considerando fosse stato proprio Peter a soccorerlo, quando in preda al panico, aveva rischiato di non riuscire più a respirare.
"Non che io ricordi" rispose Evan non curante, fingendo sul serio di starci pensando su.
"Incubi? Come va con la tua insonnia? Prendi ancora quelle pillole che ti ho prescritto?" gli chiese non guardandolo nemmeno. Evan strinse le labbra, facendo segno di sì con il capo, certo che Mavis non lo avrebbe notato.
L'ultima volta che aveva avuto problemi di insonnia, si era alzato dal letto nel bel mezzo della notte stufo di continuare a pensare. Era uscito di casa per una corsa, nell'invano tentativo di distrarsi un po', e poi era finito per comprare le sue ciambelle preferite alle prime ore del mattino.
Quanto alle sue pillole invece, le aveva tutte buttate via, certo che avrebbero solo peggiorato la sua situazione. Credeva fosse proprio a causa di tutti quei farmaci che non riuscisse dormire, così, considerandoli del tutto inefficaci, aveva pure smesso di comprarli.
"Dormo anche più del dovuto, è il motivo per cui arrivo sempre in ritardo, Cooper può confermare. Ecco perché ho smesso di prendere le mie pillole" rispose, attento a non far trasparire alcun segno di insicurezza sul suo viso.
"Sostituirei volentieri i miei farmaci con questi cioccolatini, sono davvero buonissimi! Potrebbe prescrivermene un po', che ne dice?" propose divertito, allungandosi sul tavolino in cristallo di fronte a lui per riprendere il vassoio pieno di cioccolattini.
"Evan, capisco quanto tu consideri questa terapia una semplice perdita di tempo, ma Cooper e i tuoi genitori mi hanno assunto come tuo medico per una ragione, e se vorrai davvero ripartire in missione, avrai necessariamente bisogno del mio consenso, quindi perfavore" al suono di quelle parole un cioccolatino quasi lo fece soffocare.
"Va bene Mavis" lo interruppe serio "Continua col tuo interrogatorio, risponderò ad ogni tua domanda, e sarò completamente sincero" gli promise, mollando i suoi tanto amati cioccolattini al suo fianco.
Il dottore sospirò, poi guardandolo fisso negli occhi riprese a parlare "Hai problemi a gestire la rabbia?" gli chiese, togliendosi gli occhiali da vista e iniziando a mordicchiare l'asticina della sua montatura dall'aria costosa e antiquata. Evan si raddrizzò sul divanetto, poggiando le sue larghe spalle contro il cuscino morbido, e scrocchiandosi le dita fece rabbrividire Mavis, ancora intento ad analizzare ogni suo movimento minuziosamente.
"Sono un tipo abbastanza calmo, do' raramente di matto. Di solito quando qualcosa mi infastidisce, o mi fa arrabbiare particolarmente, cerco di rimanere indifferente, concentrandomi e cercando semplicemente di lasciar scorrere via il problema" spiegò in modo davvero convincente, probabilmente perché almeno quella volta, non stava affatto mentendo.
"Sembra che tu abbia tutte le carte in regola per ripartire!" annunciò entusiasta il dottor Mavis, poggiando la cartella clinica di Evan sul tavolino, e piegandosi in avanti con un sorriso smagliante sul volto.
Evan annuì soddisfatto, portandosi le mani dietro al capo e stendendo le gambe, riuscendo finalmente ad iniziare a rilassarsi. Era riuscito a cavarsela anche questa volta.
"Posso togliermi una curiosità, soldato?" gli chiese aggrottando la fronte l'uomo davanti a lui, che adesso era intento a scartare un cioccolatino.
"Sono tutto orecchi" rispose gentile Evan.
"Dal momento in cui hai iniziato a venire qui in cura da me, da quando mi hai spiegato quanto sia importante per te riavere la possibilità di partire in missione, non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa potesse spingere un ragazzo sveglio come te a voler ritornare di nuovo in quei posti. Insomma Evan, sei giovane, avrai avuto milioni di opportunità di realizzarti nella tua vita, ma nonostante ciò sei sempre stato così determinato e tremendamente testardo nel voler riconquistare la tua posizione nell'esercito. Ti sei sempre impegnato tanto, non saltando nemmeno una seduta - sebbene io sappia perfettamente quanto tu odi venire qui - , e abbiamo parlato tanto, ho imparato a conoscerti, ma per me risulta essere davvero un'enigma riuscire a capire come mai tu ci tenga così tanto a ripartire" gli spiegò il dottor Mavis, lo sguardo sincero e gentile.
Evan rimase quasi senza parole, lo sguardo immobile e le labbra secche. Nessuno gli aveva mai fatto quella domanda, nè il sergente Cooper, o sua madre e suo padre, nemmeno Peter. Avevano tutti sempre cercato di trattenerlo, di convincerlo a non firmare per un'altra missione, ma nessuno aveva mai provato a chiedersi come mai Evan volesse a tutti i costi rifare i bagagli e partire di nuovo.
Sospirò, bagnandosi le labbra "Fa parte del mio lavoro Mavis, è quello che sono. Mi sentirei completamente inutile se solo fossi costretto per il resto dei miei giorni, ad indossare la mia divisa semplicemente per garantire l'ordine in aeroporto. Sarebbe come dare a lei, che è uno psicologo, una laurea, uno studio elegante come questo, quei deliziosi cioccolatini, e poi privarla dei suoi pazienti. Con chi lavorerebbe, chi aiuterebbe?" lo sguardo colpito del dottore.
"Il mio compito è quello di aiutare quella gente, cercare in qualunque modo di garantire una vita dignitosa ad ognuno di loro, provare a tenere il più lontano possibile la guerra dalle loro case, dai loro figli" Mavis inghiottì un sorso d'acqua a fatica, non sapendo davvero come rispondere.
"Lì ho lasciato dei bambini orfani senza una casa, senza alcun diritto all'istruzione o alcuna possibilità di curarsi. Delle donne vedove costrette a lavorare giorno e notte mettendo continuamente a rischio la loro vita nelle fabbriche prese d'assalto dai cecchini ribelli. Degli uomini stanchi e rassegnati, a cui ho promesso di far conoscere la pace, o qualunque cosa più simile ad essa. Decine di miei compagni, di giovani ragazzi proprio come me, sono morti in quei posti sotto mano nemica, senza alcuna ragione valida. Ed io, che possiedo una divisa tale e quale alla loro, non ho nessun altro obbligo se non quello di provare a dare un senso alle loro morti, tentando, per quello che è nelle mie possibilità, di portare a compimento ciò che insieme a me loro hanno iniziato, ciò che li ha uccisi, ma anche ciò in cui perfino loro credevano fermamente" concluse il suo monologo Evan, che non credeva di aver mai detto nulla di più sensato.
Adesso, che aveva notato il modo in cui immobile continuava a fissarlo Mavis, si sentì in imbarazzo, e sperò di non aver compromesso in qualche modo l'opinione che il suo psicologo aveva sulla sua stabilità mentale.
"Evan, probabilmente basterebbe che tu dicessi le stesse identiche parole al tuo superiore, per convincerlo a permetterti di ritornare in Iraq. Non credo di aver mai ascoltato nulla di più convincente. Inoltre, la tua determinazione sarebbe un ottimo esempio per chiunque" disse Mavis, ritornando a parlare dopo soli alcuni secondi di imbarazzante silenzio fra i due. "Potresti addirittura riuscire ad aiutare ragazzi come te rimanendo qui a Santa Ana, almeno fin quando Cooper non ti dirà di rifare le tue valigie, che ne dici?" pensò, colpito improvvisamente da quella che lui considerava una brillante idea.
Evan inarcò un sopracciglio confuso "Di che sta parlando?" chiese.
"Esiste un'associazione che organizza sedute di terapia di gruppo per veterani di guerra con il tuo stesso disturbo giù in città. Si incontrano una volta a settimana, per scambiarsi opinioni, raccontarsi le proprie storie, essere da supporto gli uni per gli altri. Non credo tu abbia bisogno ancora di seguire una vera e propria terapia, ma penso che tu, la tua storia, quello che mi hai appena detto, potrebbero essere di grande aiuto a quei ragazzi. Hanno bisogno di qualcuno che dia loro speranza, qualcuno che racconti loro un altro aspetto della guerra, e tu Evan, sei il primo soldato con cui io abbia mai parlato, che non trova che ripartire per l'Iraq sia solo una missione suicida senza alcun nobile scopo" gli propose, l'espressione entusiasta.
Evan ci riflettè attentamente per un attimo, incerto se accettare o meno.
"Un aiuto in una comunità come questa aumenterebbe di certo le probabilità di ripartire. Cooper non ci penserebbe due volte, e darebbe subito il suo consenso per la tua partenza" lo fece riflettere Mavis.
In fin dei conti non aveva affatto torto. "Chiamerò il dottor Miles io stesso, gli parlerò di te e di quanto potresti essere d'aiuto per i suoi ragazzi" continuò Mavis, scrivendo velocemente qualcosa su un pezzo di carta.
"Questo è l'indirizzo!" esordì rimettendosi in piedi, e porgendo il foglietto ad Evan, che non ancora aveva proferito parola.
Si alzò confuso, mettendo quel pezzo di carta in tasca "Metterò una buona parola per te col sergente Cooper" lo rassicurò, circondandogli le spalle con un braccio e facendogli strada verso la porta.
"Potrai partire prima che tu possa renderti conto di come sia trascorsa velocemente la tua terapia" blaterò ancora Mavis, quando Evan era ormai sulla soglia della porta.
Lo guardava sempre più confuso, l'espressione spaesata sul suo volto, ma Evan non considerava affatto la proposta del suo psicologo una cattiva idea.
Avrebbe avuto l'opportunità di conoscere ragazzi che sapevano esattamente cosa significasse avere a che fare con quel genere di disturbo, e passare notti intere a fissare il soffitto, rivivendo gli orrori della guerra di cui erano stati testimoni in prima persona. Pensò che fra tutte, quella era stata l'idea più sensata che Mavis aveva avuto.
Chissà se non sarebbero stati proprio quei ragazzi ad aiutarlo, chissà se fra tutte le terapie che gli erano state imposte, quella di gruppo non sarebbe stata l'unica efficace.
"Va bene" finalmente rispose, l'accenno di un sorriso sul volto "Ma prima di andare, posso avere altri cioccolatini?" chiese sfacciato, il sorriso beffardo.
Spazio autrice
Sono le 2 di notte, io non riesco a dormire per colpa dell'insonnia pre-esami, e una di voi mi ha convinto che fosse finalmente arrivato il momento di aggiornare!
Ho notato che la storia ha dei nuovi lettori, per questo per festeggiare ho voluto regalarvi questo capitolo nonostante in questo periodo io non stia riuscendo a trovare il tempo nemmeno per scrivere o leggere un po'...
Che tristezza! Non vedo l'ora che il giorno del mio esame arrivi presto, così potrò ritornare a dedicarmi ai miei ragazzi! Sono ferma al 30esimo capitolo, e non vedo l'ora di farvi leggere i prossimi capitoli!
Dovete scoprire ancora così tante cose!
Ad ogni modo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, quindi se è così, ma anche se non lo è, scrivetemi, così potremo fangirlare insieme sugli ultimi fatti accaduti...
Un grosso abbraccio e buonanotte ♥️
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