Capitolo 17

Rientrare in quella casa gli aveva fatto un certo effetto. Tutto era come lo aveva lasciato l'ultima volta, quando dopo il suo ritorno dalla missione a Baghdad, aveva fatto visita a Caesy nell'invano tentativo di sistemare le cose fra loro. Lei lo aveva lasciato per telefono, gli aveva urlato piangendo quanto le facesse schifo, che non avrebbe mai più voluto vederlo, poi aveva riattaccato senza nemmeno permettere a Peter di replicare. Il giorno dopo era stato colpito da un proiettile alla gamba, quello successivo i dottori gli avevano detto che rischiava di rimanere paralizzato, dopo quattro giorni riuscì a muoverla da solo. Ma ogni giorno in quell'ospedale aveva tentato di chiamarla, senza mai ottenere alcuna risposta. Si era chiesto per settimane se in un modo o nell'altro Caesy fosse venuta a conoscenza di quello che gli era successo, ma non ricevendo mai una sua chiamata o un suo messaggio, non ebbe grandi difficoltà a capire. Fu molto più difficile però accettare la sua decisione. Non riuscì mai a digerire le parole che Caesy gli aveva urlato contro quel giorno al telefono. Per questo dopo esser tornato da Baghdad, quando finalmente fu capace di mettersi in piedi e camminare, decise che presentarsi da lei nel tentativo di riuscire a parlarle e spiegarsi, rimaneva per lui l'unica carta da poter giocare. E adesso, si trovava in camera sua, Caesy sdraiata sul suo letto che dormiva ancora come una bambina, e lui seduto accanto a lei che non riusciva a smettere di guardarla. La trovava così dolce, così buffa e splendida allo stesso tempo, con i capelli arruffati e umidicci a causa del sudore, le labbra piene ancora un po' colorate di rosso, l'abito sporco e spiegazzato, e le linee sinuose del suo corpo che Peter aveva sempre considerato perfette. Si mise in piedi, finalmente deciso ad andare via. Così prima di lasciarla le sistemò la coperta sul petto, le scostò un ciuffo di capelli color oro dalla fronte, e poi le sfiorò una tempia con il tocco delicato delle sue mani.
"Peter" sussurrò poi la ragazza con gli occhi ancora chiusi e i lineamenti del viso che disegnavano una smorfia dolce e inebriata. Il ragazzo si pietrificò istantaneamente, ritraendo di scatto la sua mano, quasi spaventato. Poi notò gli occhi di Caesy tremare, fino ad aprirsi leggermente. "Sì?" si decise a rispondere coraggioso, avvicinandosi al volto di lei.
"Grazie" disse semplicemente la ragazza fissandolo con gli occhi socchiusi attraverso le sue folte ciglia, il sorriso tenero sulle sue labbra. Stupito Peter la guardò con gli occhi spalancati e la bocca serrata. Non riusciva a credere alle sue orecchie. Poi sorrise colpito, e disse piano "Buonanotte Cas" prima di guardarla per l'ultima volta e uscire dalla sua camera.

La mattina era quel momento della giornata in cui il caos prendeva il sopravvento sulla casa della famiglia Donovan. Al mattino Ian adorava fare una doccia ascoltando musica ad alto volume, Maddie invece come suo solito, trascorreva ore e ore strillando al telefono con chissà chi, mentre i loro genitori ignoravano qualunque apocalisse stesse distruggendo la loro casa al piano di sopra, troppo impegnati a seguire il telegiornale e a bere il loro caffè in cucina. Hazel invece che considerava il sonno la cosa più sacra, dopo esser tornata tardi la notte prima, adesso desiderava solo trasferire il suo letto e la sua camera in un'altra dimensione, per evitare così di dover andare dai suoi fratelli e spaccare loro la faccia. Si nascose sotto le coperte, poi strinse il cuscino contro le sue orecchie, ma quando Aaron iniziò ad abbaiare in giardino dopo l'arrivo della posta, scattò come un tornado pronto a distruggere qualunque cosa. Gettò via le coperte, scese dal letto e si precipitò fuori dalla sua stanza.
"Giuro che vi uccido!" iniziò a strillare "Perché chiedere di vivere con una famiglia normale era evidentemente troppo" disse, aprendo la porta della camera di Maddie e strappandole il cellulare dalle mani per poi chiudere la chiamata in corso. "Per non parlare di quanto sia impossibile per voi permettermi di dormire in santa pace il sabato mattina" continuò, aprendo stavolta la porta del bagno e trovandosi Ian in boxer intento a cantare a squarciagola con una spazzola in mano. "È sabato mattina cazzo! Tutto ciò che chiedo è dormire qualche ora in più!" strillò ancora, guardando furiosa e disperata suo fratello che aveva staccato la musica spaventato dal suo arrivo. La guardava sconvolto in silenzio, con i capelli ancora un po' bagnati, poi osservandola meglio non poté che trovare quella scena incredibilmente divertente, così scoppiò a ridere. Hazel lo incenerì con lo sguardo, gli tirò un asciugamano in faccia, e mentre lo guardava incazzata lui smise di ridere. "Da quanto sei fan dei Clippers?" esordì divertito, indicando con la spazzola l'enorme felpa nera con il logo di una squadra di basket sul petto. Hazel abbassò lo sguardo, e notando che indossava ancora la felpa di Evan, arrossì, ricordando cosa fosse successo la sera prima. Poi ritornò a fissare Ian, che con un sorriso sghembo sulle labbra attendeva ancora una risposta.
"Spegni quello stereo!" lo intimidì la sorella, ignorando il fatto che Ian l'avesse già scoperta. Ian rise, poi Hazel sbuffò, dandogli le spalle, e dirigendosi di nuovo verso la sua camera.
Nascose il viso sotto l'enorme felpa, e respirando profondamente sentì lo stesso profumo che aveva sentito la sera prima quando aveva baciato Evan, invaderle le narici. Sorrise, ritornando finalmente a rilassarsi.
"Se non hai più intenzione di ridargliela, sappi che quella felpa sarà mia!" sentì poi strillare suo fratello dall'altra parte del corridoio prima di buttarsi di nuovo sul letto.

Fissava incantato la televisione davanti a lui, guardando immobile le immagini mandate in onda dal telegiornale: marines che irrompevano nelle case, cecchini che sparavano dall'alto dei palazzi, uomini che trascinavano a riparo i corpi dei compagni morti. Poteva giurare di riuscire a sentire ancora i colpi di fucile, l'odore della polvere da sparo, il fumo e le urla della gente. Venne improvvisamente catapultato in quei terribili ricordi, immaginò il suo fucile fra le mani, il caschetto in testa, e la divisa mimetica che non si toglieva da giorni, incollata al suo corpo come una seconda pelle. Il forte botto delle bombe che sentì dalla tv lo fece sobbalzare sulla sedia, terrorizzandolo. Stava sorseggiando il suo caffè, ma quando vide il giornalista sullo schermo intervistare una donna col velo sul capo, che disperata piangeva e gridava vendetta per la morte del figlio, Evan fece scivolare la tazza sul tavolo sconvolto. Fu solo grazie al caffè bollente adesso versato sui suoi pantaloni, che riuscì ad abbandonare la città deserta di Baghdad per tornare così nella cucina di casa sua. "Cazzo" imprecò piano, mettendosi in piedi e guardando la macchia sui suoi pantaloni.
"Tutto bene?" intervenne Abigail, che adesso fissava stranita il cugino con un sopracciglio inarcato. Evan la guardò, ricordandosi di non essere solo in quella cucina "Sì" rispose poi tentando di ripulire i suoi pantaloni con un po' di carta.
Abigail bevve un sorso di caffè dalla sua tazza, poi notò dei marines in tv che caricavano le armi su un furgone, e ritornò a fissare confusa il cugino.
Si mise in piedi di scatto, e avvicinandosi a lui indicò la sua mano. "Evan, sei sicuro di stare bene?" gli chiese preoccupata, la mano del ragazzo che non cessava di tremare. Anche Evan la guardò, poi d'istinto la ritrasse nascondendola nella tasca anteriore dei suoi pantaloni. "Tranquilla" gli disse "Mi capita spesso, è colpa dello stress" spiegò minimizzando il problema.
Abigail lo guardava confusa, in piedi davanti a lui "Stress?".
"Ansia, per lo più" fu più preciso Evan, che adesso si era di nuovo seduto alla penisola della cucina, e agitato si passava l'altra mano fra i capelli, cercando di evitare lo sguardo attento di sua cugina.
"Ho saputo da poco di una nuova partenza" continuò.
Lui ed Abigail erano da sempre stati molto legati, erano coetanei e avevano passato così tante cose insieme che se c'era qualcuno che conosceva Evan davvero bene nella sua famiglia, allora si trattava proprio di sua cugina. Per questo Evan sapeva bene che non sarebbe mai stato capace di nascondere del tutto la verità ad Abby, così scelse di essere sincero, di raccontarle cosa davvero non andasse bene, senza però scendere troppo nei dettagli, e finire così per far preoccupare anche lei. Tutti erano ormai a conoscenza che qualcosa laggiù a Baghdad aveva cambiato Evan, ma in pochi sapevano davvero di cosa si trattasse. Non tutti erano al corrente dei suoi attacchi di panico, gli incubi, i rari ma intensi scatti d'ira, o gli sbalzi d'umore che lo colpivano di tanto in tanto. Ed Abigail faceva parte di quel gruppo di persone che Evan aveva preferito tenere all'oscuro di tutto. Ma d'altronde fosse stato per lui, non lo avrebbe mai detto a nessuno. Si sarebbe privato dell'aiuto dei dottori, del suo psicanalista, della sua famiglia e dei suoi amici. Avrebbe tenuto tutto dentro di se, e si sarebbe fatto forza da solo, sebbene sapesse benissimo pure lui che sarebbe stato difficile, se non addirittura del tutto impossibile. "Quindi... firmerai?" le chiese poi sorpresa Abigail, guardandolo con aria premurosa.
Evan fissò il suo sguardo freddo negli occhi celesti della cugina, poi scosse la testa. "Non lo so Abby" rispose sincero "Fino a ieri avrei giurato che partire fosse ciò di cui avevo più bisogno, ma adesso non ne sono più così sicuro".
"Cosa pensi ti abbia fatto cambiare idea?" indagò la ragazza guardandolo con attenzione. "Forse solo realizzare che l'arrivo di una nuova missione non è più un'idea poi così tanto lontana. O forse adesso che mi ritrovo a dover prendere una decisione, sto semplicemente capendo che è ancora presto, e che sebbene io ami il mio lavoro, partire non è più ciò che voglio" tentò di spiegare. Abby gli sorrise, intenerita da tutta quell'incertezza che leggeva fra le parole di Evan. "Sembra quasi che tu sia spaventato" provò a capire la mora "Come se anche solo l'idea di desiderare qualcosa che non avresti mai pensato di volere, ti confonda e terrorizza. Se partire non è più ciò che vuoi, se credi di avere bisogno ancora di tempo, allora non firmare. Nessuno potrà dirti che è uno sbaglio, e sai perché?" gli chiese, mentre Evan faceva spallucce, la mano che poco prima tremava adesso sul ripiano della penisola più rilassata.
"Perché sei stato tu laggiù in Iraq, hai preso tu quella pallottola nel petto, e nessuno può obbligarti a tornare di nuovo lì. È una decisione che spetta a te, quindi ascolta te stesso almeno per una volta, e fa ciò che vuoi tu" lo incoraggiò prendendogli la mano e stringendogliela forte. Lo guardava con orgoglio, determinata e premurosa, mentre Evan le sorrideva colpito e grato, e la sua mano si era immobilizzata d'un tratto nella presa rassicurante di Abigail.
"Ho bisogno di tempo per pensare" realizzò il ragazzo, fissando le loro mani serio. "Prenditi tutto il tempo che ti serve. Anche un soldato può essere insicuro" le disse, lasciando delicatamente la mano di Evan e riprendendo a bere il suo caffè.
"Siete già svegli" disse poi la madre di Evan entrando nella sua cucina con una cesta piena di panni puliti sotto un braccio.
"Qualcuno ha pensato bene che passare l'aspirapolvere al piano di sopra alle 8 del mattino di sabato, fosse proprio una grande idea, e così sono stato costretto ad alzarmi, alle 8 del mattino, di sabato" sottolineò il ragazzo, ritornando a scherzare e sorridere, mentre ignorava completamente la televisione ancora accesa.
"Si da caso che tu e i tuoi amici ieri abbiate combinato proprio un bel casino! A proposito, la spazzatura sul cortile aspetta te" lo avvertì Anne.
Evan roteò gli occhi al cielo, poi guardò Abby che rideva godendosi quella divertente scenetta fra madre e figlio, e sorridendo le disse piano "E non ha visto in che condizioni era il salotto ieri notte", Abigail rise più forte.
"Evan" lo richiamò sua madre "Che ne dici se stasera tu e Peter portate Abby a vedere un po' la città?" propose.
"Em stasera avrei-" stava per dire Evan. "Non credo che rimarrò fino a stasera" intervenne poi la ragazza.
"Pensi già di andare via?" le chiese sorpresa la donna, mentre si stringeva al petto una camicia appena presa dal cesto.
"Ho ancora un sacco di esami da preparare, per esempio quello di anatomia la prossima settimana. Devo tornare sul serio il prima possibile al campus" spiegò, lo sguardo dispiaciuto di sua zia. "Cavolo Abby, non ti facevo così secchiona" la prese in giro Evan, guardandola ridendo. "Non lo sono infatti, non ho ancora aperto nemmeno un libro per questo test, e sono ad un passo dalla disperazione!" scherzò la ragazza, mordendo poi un biscotto nervosa. Le sorrise, poi si accorse di sua madre, che con il ferro da stiro in una mano, lo stava incenerendo con lo sguardo "Fossi anche solo simile a tua cugina" gli disse, gli occhi ridotti a fessure. Non potè fare a meno di ridere notando quanto iperprotettiva fosse sua madre nei cofronti della nipote, quasi come se fosse la figlia femmina che non aveva mai avuto la fortuna di partorire.
"Ogni Blake ha un talento, e se io sono brava a dissezionare pomodori in laboratorio, Evan è un eroe nazionale con decine di medaglie sulla divisa" lo difese orgogliosa la cugina, ricevendo un dolce sorriso dal ragazzo seduto accanto a lei. "Adesso corro a preparare i bagagli" esordì poi alzandosi dal tavolo e uscendo dalla cucina.
"Devo andare anche io" la seguì Evan riponendo la sua tazza sporca dentro il lavello. Ma quando si voltò diretto verso la porta che dava sul vialetto, sua madre lo richiamò.
"Prima stavi per dire che stasera non avresti potuto far venire Abigail con te e i ragazzi, perché?" chiese Anne curiosa, da dietro l'asse da stiro.
"Perché stasera non uscirò con i ragazzi" rispose vago.
"E con chi uscirai?" "Mamma, stasera andrò alla partita dei Clippers" le spiegò. "I Clippers?" chiese Anne inarcando un sopraccigliò.
"Esatto, un amico mi ha regalato i biglietti ieri" "Oh generoso da parte sua, e chi sarebbe questo amico? Lo conosco?" rimaneva sempre più stupito di quanto fosse impicciona e protettiva sua madre.
"E' un ragazzo della caserma, si chiama... Ian! Ha degli agganci con il giro delle partite da basket" non disse una sola cosa vera Evan.
Be' forse quando diceva che era stato un amico di nome Ian a regalargli quei biglietti, non stava proprio mentendo. Perché infondo, se adesso aveva l'opportunità di andare ad una partita della sua squadra di basket preferita, era anche per merito di Ian, che aveva saputo dare a sua sorella un ottimo cosiglio per quel regalo.
"Quindi stasera cenerai fuori?" disse Anne, posando il ferro da stiro fumante sull'asse. "Credo di sì. Adesso devo andare, torno per il pranzo però" mise fine a quello che sembrava essere un interrogatorio Evan, prendendo una mela dal cesto della frutta, e schioccando un tenero bacio sulla guancia della madre.
"Non dimenticare il sacco del'immondizia!" strillò poi la donna, mentre il ragazzo scendeva le scale del vialetto di casa sorridendo, con l'enorme sacco nero già in mano.
Gettò con forza il sacco nel cassonetto, poi prese il suo cellulare dalla tasca dei pantaloni, e notando la macchia di caffè che aveva fatto poco prima, imprecò, e decise di fare quello che si era promesso di dover fare, e poi ritornare in casa a cambiarsi. Se non avesse colto quel momento, approfittandosi del coraggio che gli era improvvisamente venuto dopo il discorso d'incoraggiamento di sua cugina, ne era certo, non lo avrebbe più fatto. Così dopo aver rigirato per un paio di secondi il suo cellulare fra le mani, sbloccò lo schermo, e determinato premette il polpastrello su quel nome. Portò il cellulare all'orecchio, schiuse gli occhi, e sospirando, iniziò a battere freneticamente la mano libera su una coscia.
Pensò che se poco prima si era sentito impotente, non riuscendo a far smettere di tremare la sua mano davanti a quelle immagini, adesso che tremava per una ragione ben diversa, riusciva quasi a sentire nel petto un barlume di felicità far battere il suo cuore più forte. Non provava quel tipo di agitazione da tempo ormai, e accorgersi di riuscire ancora a sentirsi in quel modo, nervoso ed emozionato, solo perché stava chiamando la ragazza per cui credeva di aver ormai perso la testa, lo aveva fatto sentire di nuovo più umano, più simile al ragazzo dolce e spensierato che aveva lasciato a casa prima di entrare in quella caserma e arruolarsi.
Così ecco che sentì la sua voce, e ad un tratto aprì di nuovo gli occhi, mentre con la sua mano, adesso un po' più rilassata, si scompigliava i capelli agitato.

Stava dormendo ormai da circa 9 ore, e mentre si stringeva il suo cuscino al petto sotto il caldo piumone, credeva che per lei nessun numero di ore sarebbe mai stato sufficiente a far ricaricare le pile del suo cervello.
Ormai la casa era probabilmente vuota, o almeno, adesso che non riusciva più a sentire alcun rumore fastidioso, credeva fosse così.
Ma ecco che un nuovo rumore fastidioso si presentava: la vibrazione del suo cellulare che l'avvisava di una chiamata in arrivo.
Lo fece squillare per un po', poi capendo che probabilente non avrebbe smesso di vibrare così facilmente, uscì una mano da sotto il piumone, e cercando il suo cellulare sul comodino senza degnarsi di vedere dove stesse mettendo le mani, fece cadere l'abat-jour rovinosamente a terra.
E solo quando sentì il tonfo della caduta, si mise seduta sul letto. Guardò prima l'abat-jour a terra, dopo il comodino, fece spallucce, una smorfia divertente, e poi allungò un braccio per prendere finalmente il suo cellulare che ancora vibrava incessante. Lesse il nome sullo schermo: Evan.
Incredula si strofinò gli occhi ancora dormienti, li sgranò, e quando rilesse di nuovo quel nome le venne spontaeo spalancare la bocca ed emettere un gridolino isterico, lanciando poi il cellulare fra le sue coperte.
Guardò la parete decorata davanti a lei, sconvolta, poi si affrettò a cercare di nuovo il suo cellulare. Lo prese fra le mani, sorrise rileggendo ancora una volta quel nome, poi si decise finalmente a rispondere a quella chiamata.
"Pronto?" rispose, fingendo disinteresse, con una voce roca da far paura dovuta al fatto che stesse dormendo fino a pochi secondi prima.
"Hazel?" disse Evan ridendo "Stavi dormendo?" le chiese divertito dalla sua voce rauca.
Dall'altro lato del telefono la ragazza tossì, cercando di far ritornare il suo timbro di voce alla normalità, poi imbarazzata rispose "Sì, ma non preoccuparti, è già tardi, e non sei nemmno il primo che osa spezzare il mio sonno oggi" gli spiegò sincera ma per niente infastidita.
Ricevere quel tipo di trattamento ogni mattina da parte di Evan, non le sarebbe affatto dispiaciuto.
"Scusa, non volevo" stava per dire imbarazzato Evan, ma la ragazza lo bloccò subito "Non preoccuparti, non mi disturbi affatto, anzi".
Evan sorrise lusingato, poi riprese a parlare "Ti ho chiamata per chiederti se ti andasse di venire con me stasera alla partita dei Clippers. So che non segui il basket, ma ho pensato che magari dopo potremmo andare, non so" Hazel lo bloccò di nuovo "Certo che mi va!" esultò emozionata, con voce molto più stridula. Evan adesso più rilassato non potè fare a meno di sorridere anche lui emozionato, "Fantastico! Allora ci vediamo stasera, passo a prenderti io verso le 18, va bene?".
"E' perfetto" rispose la ragazza, guardando con occhi sognanti il giardino fuori dalla sua finestra.
"A stasera Zel" disse con tono dolce il ragazzo "A stasera" ripetè poi lei, gettandosi di peso nuovamente sul letto, incredula.

La mattina seguente si era svegliata con un'emicrania ed una confusione in testa così insopportabili da non riuscire nemmeno ad alzarsi dal letto fino all'ora di pranzo. Quando finalmente si era messa in piedi, dopo aver riempito un po' lo stomaco, aveva deciso che una doccia calda l'avrebbe sicuramente fatta stare meglio. Così dopo aver trascorso quasi  un'ora chiusa in bagno sotto il getto bollente d'acqua, cantando a squarciagola le sue canzoni preferite, era rientrata in camera per rivestirsi, ma quando notò qualcosa che sicuramente non le apparteneva sulla sua scrivania, alcune immagini della sera prima cominciarono a collegarsi fra loro nella sua testa. Confusa prese il berretto nero dalla scrivania, poi si sedette ai piedi del letto, e avvolta nella sua tovaglia, ripensò agli unici momenti trascorsi la notte prima che riusciva a ricordare: lei e i suoi amici seduti in cerchio attorno al tavolino colmo di alcolici, John e le sue battute irritanti, lei ed Hazel chiuse in bagno, Peter che le teneva i capelli mentre lei non smetteva di vomitare, e infine loro due seduti sul pavimento gelido del bagno, che si erano addormentati l'uno accanto all'altra. Non riusciva a ricordare nient'altro. Per fortuna aveva perfino rimosso dalla mente quanto male fosse stata in seguito alla brutta sbornia, sebbene la testa le facesse ancora tremendamente male. Ma quel berretto, non avrebbe mai dimenticato di chi fosse. Lo strinse fra le mani, e chiedendosi come fosse finito lì, cominciò a torturarsi nell'invano tentativo di ricordare cos'altro fosse potuto accadere tra lei e Peter quella notte.
Così indossò dei jeans e un largo maglione, poi ancora con i capelli un po' umidi, si precipitò al piano di sotto, il berretto stretto nella sua presa.
Confusa e anche un po' preoccupata, mandò un messaggio ad Hazel, chiedendole disperata di raccontarle cosa fosse successo e come fosse tornata a casa. L'ultima cosa che ricordava Casey di quella notte era lei che con la testa sulle gambe di Peter, si era addormentata proprio come una bambina, non preoccupandosi di nulla, nemmeno del ragazzo, così per la prima volta dopo tanto tempo, per colpa di tutta quella vodka, aveva lasciato che Peter facesse quello che voleva. Si era lasciata aiutare, gli aveva permesso di starle vicino, e non riuscire a ricordare cos'altro aveva potuto concedere a quel ragazzo, la mandava fuori di testa. Sapeva che Peter non si sarebbe mai e poi mai approfittato di lei e della sua condizione, si fidava ciecamente di lui, ma nonostante ciò, Casey aveva bisogno di sapere, di capire. Quando fu al piano di sotto, in preda alla disperazione, non si accorse nemmeno di sua madre che dalla cucina le aveva chiesto se il mal di testa fosse passato, così uscì di casa di fretta, non riflettendo nemmeno per un istante su quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
Iniziò a correre, sconvolta, senza fermarsi a pensare, o a prendere fiato.
Agì impulsivamente, spinta dal bisogno di sapere la verità.
Corse per un paio di isolati, ritrovandosi così infreddolita e con un mal di testa ancora più forte, davanti il vialetto della casa di Peter.
Arrestò la sua corsa improvvisamente, colpita dall'ondata di mille ricordi trascorsi con Peter e la famiglia Collins in quella casa. Sospirò ansiosa, e facendosi coraggio, iniziò a camminare verso il portico. Bussò alla porta, poi notando come le tremasse la mano, la nascose d'impulso dietro la schiena. Nel frattempo, il rumore della porta sul punto di aprirsi la fece sobbalzare, e quando si ritrovò la madre di Peter davanti a lei, sorpresa e imbarazzata, non riuscì a proferire parola.
"Caesy!" esordì la donna felice di vederla "Come stai tesoro? Non ci vediamo da mesi" le chiese poi.
"S-sto bene, signora Collins. Lei?" rispose, palesemente in imbarazzo.
"Anche io. Vieni dentro, con questo vento qui fuori si gela" la invitò.
"Peter è in casa?" non considerò nemmeno la sua offerta Casey.
"Oh sì, lui è sul retro, in garage. Te lo chiamo subito" "Vado io da lui, non si preoccupi" la bloccò Casey, allontanandosi velocemente dal portico, per poi dirigersi agitata verso il garage. Allungò le maniche del suo maglione nascondendo le mani gelide al loro interno, si bagnò le labbra secche, poi dopo alcuni profondi respiri, notò Peter prendere a pugni il suo sacco da boxe con una rabbia che non gli vedeva addosso da tempo.
Rimase a fissarlo senza farsi notare per un paio di secondi, guardandolo mentre tra un pugno e qualche calcio, lasciava che il suo addome si intravedesse da sotto la felpa aperta. I movimenti decisi delle sue forti braccia, le espressioni del volto sulla quale Caesy leggeva rabbia e pentimento, e l'addome perfettamente scolpito che grondava sudore.
Casey lo trovava così incredibilmente bello, che per un secondo si sentì quasi minacciata da tanta bellezza, come se davanti a quel soldato senza divisa, il ragazzo che aveva conosciuto, di cui si era innamoarata, e che ricordava ancora con tanta nostalgia, lei si sentisse fin troppo vulnerabile. Per un istante pensò addirittura di scappare via, riprendendo improvvisamente consapevolezza di ciò che stava facendo. Ma Peter per fortuna si accorse di lei, così non appena la vide sul punto di indietreggiare e andare via, la chiamò.
"Caesy?" l'espressione confusa, e il sopracciglio inarcato.
Al suono della sua voce, Casey si immobilizzò dandogli le spalle, poi alzò gli occhi al cielo, e sospirando si voltò di nuovo verso di lui.
"Ciao Peter" disse solo, abbassando lo sguardo.
"Hey, come ti senti?" le chiese premuroso avvicinandosi, il sorriso sul suo volto che paralizzò la giovane. "Meglio adesso" rispose solo imbarazzata. "Ieri stavi proprio male, sono felice che tu ti senta meglio" disse il ragazzo, e al suono di quelle parole Casey non potè che trovarle fin troppo formali. Sentirlo così distante, nonostante fosse stata proprio lei ad allontanarlo, la lasciava sempre così straniata, come se non riuscisse ancora ad abituarsi a quella situazione così insolita, sebbene ne fosse stata proprio lei l'artefice. "Grazie" riuscì a dire solo.
"Quello è mio?" le chiese poi Peter imbarazzato, indicando il berretto che Casey stringeva fra le mani. La ragazza spostò lo sguardo sull'oggetto fra le sue mani, poi invece di porgerglielo, iniziò a girarselo fra le mani nervosa "Dovresti dirmelo tu, questo" rispose tenendo ancora lo sguardo basso.
Peter inarcò un sopracciglio confuso "Sei stato a casa mia ieri notte? Mi hai accompagnato tu a casa?" gli chiese.
"Non te lo ricordi?" rispose con un'altra domanda il ragazzo. "No, l'ultima cosa che ricordo siamo io e te che dormiamo sul pavimento del bagno di Evan" rispose agitata "E' per questo che sono qui. Ho bisogno di sapere cosa è successo, se è successo qualcosa fra noi, come sono arrivata a casa, e cosa ci faceva questo in camera mia" iniziò a disperarsi Casey, che non smetteva più di parlare agitando quel berretto di fronte il viso di Peter.
"Se è successo qualcosa fra noi? E' questo che vuoi sapere?" le chiese sorpreso Peter. "Sì" disse più calma Casey.
"Vieni con me, qui fuori si gela" la invitò dentro. Dopo qualche secondo di esitazione, alla fine Casey si lasciò convincere e lo seguì nel vecchio garage di suo padre. Mentre il ragazzo si chiudeva la felpa infreddolito, e si asciugava il sudore sul viso con un asciugamano, Casey si guardava intorno sentendosi decisamente a disagio. Non metteva piede in quel posto dal giorno in cui aveva tentato di far visita a Peter dopo il suo ritorno dalla missione in Iraq, finendo poi col pentirsene sul momento e scappare via piangendo. Peter non seppe mai della sua visita, e probabilmente non glielo avrebbe nemmeno mai detto.
"Cos'è che ti preoccupa tanto Cas?" richiamò la sua attenzione il ragazzo, appoggiandosi al vecchio catorcio del padre parcheggiato da anni in quel garage. Casey sollevò lo sguardo, fissando i suoi dolci occhi azzurri in quelli verdi del ragazzo, che anche con quella tuta e la felpa sudata indosso, non avrebbe mai perso il suo fascino. Ma non rispose, così Peter riprese a parlare "Sul serio pensi che io possa essermi approfittato di te in quelle condizioni?" le chiese offeso, ma Casey lo bloccò immediatamente "No Peter, non è questo ciò che intendo. Ti conosco e so che non lo faresti mai" gli spiegò, e lo sguardo del giovane cambiò improvvisamente. Le parole di Casey lo avevano colpito, e sapere che nonostante tutto, lei avesse ancora almeno un po' di fiducia in lui, lo tranquillizzava.
"Ma conosco anche me, e so perfettamente di cosa sono capace sotto l'effetto dell'alcol. Non fraintedermi, ma l'ultima persona con cui ricordo di aver parlato ieri sera sei proprio tu, non so chi mi ha riportata a casa, e poi questo" concluse porgendo il berretto al ragazzo.
Peter lo prese, poi guardandola in preda alla disperazione, non potè che trovarla divertente e adorabile allo stesso tempo, così sorrise, e senza dire una parola, rimase lì a guardarla con quel sorriso intenerito sul volto.
Imbarazzata Casey distolse lo sguardo, sistemandosi una ciocca di capelli color oro dietro l'orecchio.
"Non è successo niente" disse poi Peter. "Cosa?" chiese Casey sollevando di colpo il volto. "Tra noi due, non è successo niente. Non ci siamo baciati, e ovviamente non abbiamo nemmeno fatto sesso. Ti ho solo riportata a casa e messa a letto, niente di più. Per questo il mio berretto era in camera tua, devo averlo dimenticato" le spiegò sincero.
Casey lo guardò attenta con gli occhi spalancati "Oh" disse imbarazzata, sedendosi sul vecchio divano in pelle di fronte a Peter. Quante volte abbiamo dormito insieme su questo divano - pensò la ragazza irrigidendosi d'un tratto.
"Grazie" disse poi, non riuscendo nemmeno a guardarlo negli occhi.
"Me lo hai già detto questo" rispose Peter ridendo, sedendosi accanto a lei. Lo guardò confusa, "Ieri notte, stavi probabilmente sognando, anche se sono sicuro di averti sentita dire proprio il mio nome" le spiegò sorridendole sornione "Però adesso, sembra quasi che stia sognando io" aggiunse, facendola ridere.
"Non ti ci abituare" disse poi Casey, accennando un sorriso.
Peter la guardava ridendo - gli era mancato terribilmente tutto questo.
"Pensavo l'avresti presa peggio" le confessò. "Chi ti dice che io l'abbia presa bene?" gli chiese ammiccando lo sguardo.
"Il sorriso sul tuo volto" le rispose non distogliendo per un istante lo sguardo da quel suo sorriso mozzafiato.
Casey arrossì, fissando gli occhi sull'auto davanti a lei, decisamente imbarazzata. Poi qualcosa le vibrò nella tasca dei suoi jeans, così quando prese in mano il suo cellulare, lesse il nome di Hazel sullo schermo. Decise di non rispondere, e di lasciare che il cellulare continuasse a vibrare fra le sue mani.
"Non rispondi?" le chiese curioso Peter.
"Non ti fai mai i fatti tuoi?" controbatté sorridendo sornione la ragazza. Peter sollevò le mani in segno di resa, ridendo "Peccato. Vorrà sicuramente raccontarti dell'appuntamento di stasera" le anticipò. Casey inarcò un sopracciglio confusa, "Che appuntamento?".
"Ti sei persa qualche scoop ieri sera, eh?" la prese in giro. "Di che stai parlando?" gli chiese ancora una volta. "Mentre tu eri impegnata a vomitare, ed io a tenerti su i capelli, deve esser sicuramente successo qualcosa tra quei due" le spiegò.
Lo sguardo di Casey si illuminò improvvisamente, "Hazel ed Evan?" Peter annuì "Ci hanno messo un po' ma alla fine ce l'hanno fatta".
"Così usciranno insieme?" chiese ancora "Avrei preferito che Evan chiedesse a me di andare con lui alla partita dei Clippers, ma capisco la situazione, e sono felice per entrambi" disse, poi si accorse della smorfia di dolore disegnata sul volto di Casey. Si massaggiava una tempia tenendo gli occhi chiusi, dando quasi l'impressione di non stare nemmeno ad ascoltare quello che Peter le stava dicendo.
"Cas? Tutto bene?" le chiese poi il giovane premuroso come sempre, poggiandole una mano sulla spalla.
Lei lo guardò con un'espressione confusa, poi facendo segno di no col capo, lasciò sprofondare la sua testa sul cuscino del divano, l'intero viso contratto in una smorfia di dolore. "Hey che succede?" le chiese ancora preoccupato Pet, avvicinandosi a lei.
"La testa mi fa ancora tremendamente male" rispose con voce pacata Casey.
"Devi stenderti, vieni in casa, qui è tutto sporco e fa così freddo" la invitò mettendosi in piedi.
"Chiudi quella bocca Peter, questo posto va benissimo" lo bloccò. Il ragazzo trattenne una risata, mentre lei teneva ancora gli occhi chiusi. "Va bene, allora ti porto qualcosa?" le chiese.
"Portami un sonnifero o un sedativo, è uguale" scherzò la biondina.
"O magari mi siedo di nuovo qui e..." disse,  mettendosi di nuovo affianco a lei, e invitandola a poggiare la testa sulle sue gambe. Cominciò a massaggiarle le tempie con le sue dolci mani, giocando con i suoi capelli e sfiorandole il resto del viso. La guardava con occhi sognanti - notare che dopo tutto conosceva ancora i suoi punti deboli lo rendeva felice.
"Puzzi da morire" gli disse poi, tenendo ancora gli occhi chiusi "Ma sei anche incredibilmente bravo, continua" gli confessò. Lo sentì ridere, mentre continuava a rilassarsi sotto il suo dolce tocco, così inarcò un sopracciglio e riprese a parlare.
"Pet?" lo chiamò "Mh?".
"Ti odio da morire" gli disse, con un tono estasiato, ricordandogli che qualche carezza non avrebbe mai potuto risolvere completamente le cose fra loro, sebbene quella sembrava fosse la prima mossa intelligente di Peter dopo tempo. Casey aveva ragione, lui la rendeva ancora così maledettamente vulnerabile che mai sarebbe riuscita a non odiarlo per ciò.

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