Warum kannst du mich nicht lieben?

Carl Thomas Mozart ha quasi sette anni e, oggi, a Vienna, in questo 26 luglio 1791, accoglie festoso un nuovo membro della sua famiglia. Un fratellino.

Franz Xaver Wolfgang Mozart.

Ci sono stati altri fratellini e sorelline prima di lui, fagottini inermi, esili, dai vagiti flebili, e, prima di Carl, un fratello maggiore che non ha mai conosciuto, un tale Raimund. Erano tutti pallidini e nessuno aveva varcato l'anno. Franz Xaver, al contrario, ostenta un colorito rubizzo e gote paffutelle, sprizzando promesse di salute e lunga vita e prosperità. Questo fratellino vivrà. Carl n'è felice.

Suo padre, Wolfgang Amadeus Mozart, che di mestiere fa il musicista, ma un musicista di quelli bravi bravi - sublime, dichiarano i grandi ai concerti e alle sedute al clavicembalo di papà - conia un soprannome per l'ultimo arrivato.

Wowi.

«Wowi, Wowi.» cantilena Carl, coccolando il bebè lagnante per il latte. Gli assomiglia.

Sia lui che Franz sfoggiano i fini capelli corvini di mamma Costanze, non la chioma folta e bionda di papà. I loro occhi baluginano di marrone e venature mogano, più scuri rispetto all'azzurro slavato, un ceruleo sbiadito, di Amadeus.

Non vede l'ora che Wowi cresca! Così giocheranno insieme!


«In una bella giornata d'autunno, Costanza lo condusse con sé al Prater, per distrarlo un po', e mentre sedevano insieme, soli, Mozart cominciò a parlare della morte ed affermò che il Requiem se lo scriveva per sé. Nel dir questo gli si riempirono gli occhi di lacrime, e mentre la moglie cercava di distoglierlo dai pensieri neri, disse: - No, no, lo sento bene. Non ce n'ho più per molto. Certamente mi hanno avvelenato! Non posso liberarmi da questo pensiero».


L'unico compleanno celebrato come una famiglia, tutti insieme e vivi e vegeti e sorridenti, è quello dei suoi sette anni. Li compie il 21 settembre di quel 1791.

Carl soffia sulle candeline. Mamma culla Wowi, che è contraddistinto dalla stessa malformazione congenita all'orecchio sinistro di papà. E papà gli applaudisce, fiero.

Ha espresso il suo desiderio: che le cose vadano per il verso giusto. Non se la stanno passando bene. Papà guadagna a stento, magre entrate, e si massacra a comporre tutta la notte, ingollando bottiglie su bottiglie di vino. L'appartamento in cui alloggiano ora andrebbe ristrutturato, la finestra sfasciata riparata. Andrebbero confezionati abiti nuovi, giacché quelli che indossano adesso sono rattoppati, colmi di buchi e lisi. Arrancano. Ma papà non si demoralizza.

Carl ammira tanto il suo papà.

È un burlone, canzona chiunque, le sue imitazioni sono magistrali e adora imparare a suonare il clavicembalo assieme a lui. Assiso sulle ginocchia di papà apprende i rudimenti musicali. Wolfgang pigia un tasto e Carl deve associarci la nota premuta. Do, re, mi. Divertente!

La parte più emozionante consiste nei lazzi buffi. Le composizioni dalle strofe goliardiche e indecorose di papà, aventi per soggetti chiappe, scorregge, boccacce, linguacce, smorfie, e, regina incontrastata, la pupù.

La merda, la chiamano gli adulti, e mamma gli ha proibito di adoperare quel termine deprecabile. Deprecabile significa che è una parolaccia, un sostantivo osceno, denigratorio e infame. Una parola che insulta.

Ma papà - letterariamente parlando - spalma di merda le sue missive.

Giocose, spiritose. Scrive chiaro, disordinato, ritto e storto, in garbuglio d'inchiostro, nelle sue vecchie lettere indirizzate alla cugina.

Ormai non rappresentano più un tabù. Persino mamma ne ride!

«Ora devo raccontarle una triste storia che è accaduta in questo momento. Mentre sono tutto intento a scriverle la lettera, sento qualcosa fuori in strada. Smetto di scrivere - mi alzo, vado alla finestra - e - non sento più niente - mi risiedo, ricomincio a scrivere - non ho scritto neanche 10 parole che sento di nuovo qualcosa - mi rialzo - come mi alzo sento ancora qualcosa, ma molto debole - però c'è odor di bruciaticcio - puzza, ovunque mi sposti. Se guardo fuori dalla finestra l'odore scompare, come guardo dentro, rieccolo - finalmente la mamma mi dice: scommettiamo che ne hai mollato uno? -  non credo, mamma. Sì, sì, è proprio così. Faccio la prova, mi infilo il primo dito nel culo, poi annuso e - ecce provatum est: la mamma aveva ragione.»

Ma il più brano più sporcaccione di papà, e il preferito di Carl, è quello del culetto. Leck mich im Arsch. Leccami il culo. In Si bemolle, a sei voci. A Carl piace duettare con papà, lui alla tastiera e Carl reggente il manoscritto. L'ispirazione l'ha baciato a seguito alla cantonata rifilata dalla zia Aloysia, sua prima, e rilevante, cotta, qualche annetto prima che sbocciasse l'amore tra lui e la mamma.

Leck mich im Arsch,
Laßt uns froh sein!
Murren ist vergebens!
Knurren, brummen ist vergebens,
ist das wahre Kreuz des Lebens,
das Brummen ist vergebens,
Knurren, brummen ist vergebens,vergebens!
Drum laßt uns froh und fröhlich, froh sein!

Carl deve lottare contro l'impeto di ridere ogni volta che lo canta.

Leccami il culo
Gioiamo!
Brontolare è inutile!
Ringhiare, ronzare è inutile
è la vera disgrazia della vita,
Ronzare è inutile,
Ringhiare, ronzare è inutile!
Perciò siamo felici e contenti, felici!

Sì! Gaudenti e liberi! Evviva! Il pomeriggio del suo compleanno, assieme ai genitori e al piccolo Wowi nella carrozzina tripudiante di pizzi e merletti e fiocchi blu, passeggiano tra i viali di tigli del Prater, il parco pubblico di Vienna, ricco di chioschi e caffetterie e negozi dalle vetrine esponenti ogni mercanzia. Carl saltella, euforico come un leprotto marzolino, canticchia un'aria del Don Giovanni e tiene per mano il papà, il quale si presta volentieri al suo gioco di filastrocche e nenie.

«Ho la musica trapiantata nel cervello.» inizia Amadeus.

Carl raccoglie il passaggio di consegne. «Ho le mascelle polifoniche.»

«E dopo che ho mangiato...»

«... faccio le scorregge armoniche!» concludono in sintonia.

Mamma spinge la carrozzella di Franz, abbigliata in nastri e gonne lievitate e piume. Carl la paragona a una caramella zuccherina gigantesca. Ride sommessamente, un chiocciolio. «Siete due matti da strapazzo.»

«I tuoi matti!» rimarca doverosamente papà, rubandole un bacio a stampo sulla guancia velata di cipria. «Mia Stanzi Manzi Marini Bini Gini!»

I soprannomi assegnati dal papà sono roba da matti!


«Si sa che Mozart mise spesso a repentaglio la sua salute, che certe mattine tracannava champagne con Schikaneder, che certe notti beveva il punch e dopo mezzanotte tornava al lavoro, senza accordare il minimo riposo al suo corpo.» riporterà una breve biografia di una dozzina d'anni - 1803 di preciso -  successiva alla dipartita in quel dicembre nuvoloso. «Le sue forze erano logorate.»

Stendhal riporterà che «...fu sempre incostante nel modo di lavorare. Quando era ispirato, nessuno sarebbe riuscito a strapparlo alla sua creazione. Se lo distoglievano dal pianoforte, componeva in mezzo agli amici, e finiva per passare notti intere con la penna in mano. In altri periodi, la sua anima era così ribelle all'applicazione che Mozart non riusciva a ultimare un pezzo se non nel momento stesso in cui era costretto a eseguirlo.»


Carl Thomas dorme nella stessa camera nuziale con mamma e papà, in un lettino appostato sotto la finestra, la culla di Franz Xaver accanto. Bisogna economizzare gli spazi, ricavare il meglio da quanto si possiede. Spesso mamma dorme sola nell'enorme lettone. Certe sere la sente piangere. Un pianto roco, smorzato dai cuscini e dai voluminosi piumoni. Piange perché papà non la raggiunge, non si stende al suo fianco e la tempesta di baci, attenzioni e sdolcinatezze come un tempo.

Papà sembra non dormire mai.

Trascorre tutta la notte nella sala del biliardo - è un patito del biliardo - oppure in salotto, ingobbito a comporre, a travasare musica in sgorbi e note sul pentagramma. Papà lavora, lavora a ritmi disumani, folli. Non ha più neanche il tempo per accompagnare lui e Wowi al Prater o per concentrarsi sulla solitudine della mamma.

Sfida il tempo e le sue energie mortali.

Perché?

Questa notte, diversamente dalle altre, la mamma si alza, si dirige verso il salotto. Carl ode un parlottio. Voci che si assommano, cozzano le une contro le altre, litigiose, irritate. Che succede? Cos'è questo pandemonio? Incuriosito, Carl smonta dal letto e si acquatta davanti alla serratura, sbirciando dallo spioncino.

Il salotto fiocamente illuminato da sparuti candelabri, mucchi di spartiti. Papà, in vestaglia, mamma, riparata solo dalla camicia da notte, e...

... ma quello è Schikaneder!

L'impresario teatrale di un palcoscenico di periferia, amico di bisboccia di papà, collaborante con lui alla messinscena di una nuova e sensazionale opera.

È quell'opera misteriosa che lo tiene occupato così tanto?

Herr Schikaneder, solitamente tanto gioviale, stanotte non lo è affatto. In mantello e guanti, contrae i pugni, stizzito. Carl si allarma. Sta forse minacciando papà?

«Uomini in nero? Che corbellerie racconti?»

«Ti giuro c-che era reale!»

«Be', io ne scorgo altri, di uomini in nero, che si profilano all'orizzonte, se non ultimiamo questo benedetto Singspiel. Creditori. Ho gente da pagare, Wolfgang!»

La mamma s'infila. «E lui? Quando intendi pagarlo?»

«Stanzi...» Papà sbuffa, si massaggia la radice del naso.

«Quando mi consegnerà quanto pattuito, madame.» Schikaneder non si lascia intimidire, la scansa con delicatezza. «Avevamo un accordo.» Fulmina papino in cagnesco. «E non prevedeva insulse messe funebri!»

«Emanuel, devo finire quel Requiem. Ne dipende la mia... la mia vita.»

«E la mia dipende dal debutto del Flauto Magico!» ringhia il librettista. Si guarda intorno, esamina un paio di fogli abbandonati sul tavolo ingombro di bottiglie e fiale e macchie d'inchiostro. «L'hai finita?

Papà è confuso. O finge di non sapere. «Cosa, di preciso?»

«L'operetta.» puntualizza Schikaneder, il tono di un maestro che detesta ribadire i concetti due volte. «Cosa credevi?»

Papà abbassa lo sguardo, si ritorce la cinta della vestaglia.

«Sì...» borbotta sottovoce.

«Posso vederla?»

«No.»

«Perché no?»

«Perché non c'è niente da vedere.» ride, la sua distintiva risatina, un trillo acuto.

Mamma non ride. Herr Schikaneder non ride. Il silenzio è imbarazzante.

«Ascolta.» scandisce chiaramente l'amico, inspirando a raccolta la pazienza di cui dispone. «Io ti ho chiesto se potevamo iniziare le prove la settimana prossima e tu hai detto di sì, che non c'erano problemi e che mi avresti presentato l'opera completa.»

«Sì.» Papà annuisce. «Si può infatti. È pronta.»

«E dov'è? Avanti, mostramela!»

«Qui.» Papà si picchietta la testa, i biondi boccoli arruffati, un luccichio invasato nello sguardo. «È tutta nella mia zucca. Il resto sono solo scarabocchi ... Scarabocchi finocchi ranocchi dei pidocchi scrocchi e merde di mosca. Ronzano sopra e sotto le righe...» Scoppietta a ridacchiare, porgendo un calice. «Vuoi bere qualcosa?»

Schikaneder si avventa in avanti, agguanta il papà per il colletto della camicia da notte. Carl reprime un gemito impaurito. Papà! Cos'ha intenzione di fargli? Lui pare inerme, uno smidollato, lo sguardo perso, abbattuto. Mamma si interpone.

«Mollalo! Mollalo subito!»

«Razza di idiota, Wolfgang! Ti sei rincretinito?! Sai a quanta gente dovrò rimborsare se non allestisco questa cazzo di opera?! Lo sai?! Sto rischiando la pellaccia per te e tu come mi ripaghi? Con messe funerarie del cazzo?»

«Mollalo!» intima la mamma, riuscendo finalmente a separarli. Il papà corre a rifugiarsi dietro di lei, un cucciolo indifeso, bistrattato. «Lo sai che cosa è idiota? Il tuo libretto, ecco che cosa è idiota, dannazione!»

«Cosa?!»

«Chiedere a Wolfie di lavorare su quello schifo: serpenti scivolosi, flauti magici, preti pagani e uccelli canterini!»

«Il Flauto Magico si rivelerà un'opera densa di sorprese!»

«Ah, davvero?»

Un gorgoglio distrae Carl. Franz, dalla sua culla, agita il sonaglio in argento. Il suo fratellino è sveglio. Non è ideale che ascolti questi strilli. Carl gli appone i palmi sulle orecchie, mormorando i versi sconci della canzoncina sul culetto.

«Sssh, Wowi. Ti proteggo io. Andrà tutto bene.»



L'indomani, a colazione, papà è cadaverico e lontano.

Assorto su un punto indefinito, non tocca cibo. Il latte si raffredda e il caffè è da buttare. Pallido e trasandato, le occhiaie scure, pare aver visto un fantasma.

O dialogato con la Morte in persona.

«Tutto bene papà?» Carl ha paura che si possa ammalare se procede con questi ritmi allucinanti. Trova la sua mano, la stringe.

Amadeus non ricambia il gesto, pietrificato.

«Mh?» Notifica la sua presenza. «Oh. Sì, piccolino.»

Papà sta accampando una bugia. Carl non è un fesso.

«Più tardi giochiamo con Wowi?»

Avrà del tempo da ritagliarsi per loro, dai! Gli mancano tanto i pomeriggi all'aperto e le lezioni al clavicembalo e le smorfie incresciose!

«Scusa, Carl.» Papà si alza, la colazione intatta. Gli imprime un veloce bacio in fronte, scompigliandogli i capelli. «Ho del lavoro da sbrigare.»

Sempre così ultimamente, che ingiustizia! Imbronciato, Carl si impone di non piangere. Gli infanti frignano e Carl è cresciuto. Un ometto di sette anni conclamati. Cattivo papà, però! Indaffarato fino al collo! Dovrebbe costituire un bene. Se papà lavora significa che lo pagheranno e se lo pagheranno emergeranno da questo periodaccio di stenti. Il problema è che si affanna come uno schiavo...

Levate le tende papà, mamma, dall'alto capo del tavolo, si copre la bocca. Singhiozza. Mamma piange? Non è contenta della fortuna benevola?

«Mammina, non piangere!»

Wowi, al seggiolone, si sbrodola in un pasticcio di latte e pappe.



Papà lo porta nei retroscena del Flauto Magico.

Uccellatori, principi, principesse, regine infuriate e maghi sapienti. Soli e lune che si contendono il predominio in una landa fuori da ogni tempo e spazio. Amadeus dirige, suona il Glockenspiel, gli scampanellanti sistri di Papageno.

Una magia scintillante agli occhi di Carl.

Mai, finché vivrà, scorderà questa giornata.



«Il povero Mozart.» racconterà Stendhal. «Si mise in testa che quello sconosciuto non fosse un essere normale; che dovesse avere a che fare con l'altro mondo, e che gli fosse stato inviato per annunciargli la sua prossima fine. Reagì applicandosi con moltiplicato ardore al suo Requiem, che considerava il monumento più durevole del suo genio. Durante il lavoro, fu spesso vittima di allarmanti svenimenti. Infine, prima delle quattro settimane previste, l'opera fu terminata. Lo sconosciuto tornò al termine convenuto: Mozart era morto.»


Mamma e papà continuano a battibeccare a porte chiuse, di notte. Papà continua a bere. Vino, punch, caffè. È un macchinetta dagli ingranaggi usurati rigurgitante musica. Beve mentre scrive e a letto non ci dorme più. Crolla tra gli spartiti, esausto, e la mattina Carl si diverte a pitturargli la faccia con l'inchiostro e svegliarlo con un bacino sulla punta del naso. Nonno Leopold si lasciava baciare sul naso dal papà quando lui era piccino. Recitavano una sciocca filastrocca.

Papà ha tagliato i rapporti con la famiglia d'origine e il nonno è morto da cinque anni.

Carl crede di averlo incontrato una sola volta. Un severo vecchio dal cipiglio arcigno, giudicante, abbigliato in nero come un sacerdote. Ricorda poco, sgradevolmente. Non deve avergli lasciato una buona impressione.

«Wolfie, ti stai ammazzando di lavoro!»

La mezzanotte rimbomba, rintocchi lenti e cadenzati. Carl si rannicchia davanti al buco della serratura e spia l'alterco in salotto.

Mamma, un fazzoletto stritolato alla bocca, piagnucola. Papà, come al solito, compone, ridotto in uno stato pietoso, miserabile. Si scola l'ennesimo bicchiere di punch, quasi un anatema alle lamentele - legittime - della mamma.

«Stanzi, basta.»

«Tutto il santo giorno non fai altro che impazzire su quel Requiem!»

«È per me.»

«Smettila

«Quando sarò morto e putrefatto.»

«Wolfie...»

«La Morte me l'ha commissionato per il mio funerale, come fai a non crederci?»

Mamma gli strappa il calice di mano, liquido rossastro sgocciola, bagnando la vestaglia sgualcita di papà. «Credo che tu sia ubriaco. Di nuovo.»

«Non sono mai stato così sobrio.»

«Un sobrio non si metterebbe a vagheggiare di messi lugubri!»

«Era reale! Mi ha dato quei cinquecento ducati!»

«Sono al limite.» Mamma, sopraffatta, piomba su una poltrona, stropicciandoci gli occhi, strofinandosi le tempie. «Mi inquieti, davvero. Mi impaurisci. Stai perdendo qualche rotella? Dimmelo!» Gli scuote il braccio, invogliandolo a fissarla, a focalizzarsi su di lei. Non su quel maledetto Requiem. «Ti posso aiutare. Ci siamo qui noi. Io, Carl, il piccolo Franz. Non abbandonarci, Wolfie.»

Papà abbassa le palpebre, si azzanna le labbra, in preda ai brividi.

Sta sforzandosi di tenere tutto dentro.

Fallisce.

«Mi sta uccidendo, Stanzi, lo avverto nelle ossa.»

«Wolfie...» Mamma poggia la fronte contro la sua, i respiri mescolati, dita e mani intersacate. Papà si sorregge a lei, capisce Carl. È il suo pilastro, la sua roccia.

«La mia Stanzi Manzi Stanzerl Marini Bini Gini gattina micina. La mia Pa-Pa-Papagena.» Wolfgang le carezza i riccioli d'onice, si avvince una ciocca insubordinata intorno all'indice con tenerezza.

«Il mio Wolfie maritino amorino Pa-Pa-Papageno.»

«Ti amo.»

«Anch'io.»

Quando gli adulti si baciano Carl è disgustato. Non stavolta.

Il trasporto, la passione, l'amore, lo mantengono incollato alla serratura.



Papà sta male.

Gli è venuta la febbre alta e, nonostante ciò, si ostina a voler rimanere alzato fino a tardi. Vomita. Tossisce. Dopo l'ennesimo e preoccupante svenimento mamma lo obbliga al letto. Amadeus tenta di terminare la commissione anche da infermo.

«Stanzi... passami il R-Requiem...»

«Te lo scordi.»

«D-Devo...» Un colpo di tosse. «Devo u-ultimarlo... l'uomo ne-nero...»

«È la febbre, Wolfie, stai delirando.»

A Carl è stato comandato tassativamente di non disturbarlo. Deve riposare.

Cerca di alliettare quei giorni bui di dicembre almeno per Franz. Gioca con lui, lo spupazza, gli fa il solletico e le pernacchie sul pancino. Lo incoraggia a gattonare. È presto, dice la mamma, ma Carl crede in lui.

E crede che il papà si riprenderà.

Si è sempre rialzato.



Nel 1825, più di trent'anni dopo la morte di Mozart, la cognata Sophie Haibel scrisse un resoconto dei suoi ultimi giorni di vita:

"Quando era malato andavo tutti i giorni in città a trovarlo e un sabato, appena entrai da lui, Mozart mi disse: «Ora, cara Sophie, di' alla mamma che sto benissimo.» Il giorno successivo dissi alla nostra buona madre: «Cara mamma, oggi non andrò da Mozart. Stava così bene ieri che starà ancora meglio oggi, e un giorno in più o in meno non farà differenza.» Così andai in cucina per prepararle una tazza di caffè. Il fuoco si era spento; dovetti accendere una candela e riattizzare il fuoco. Ma avevo sempre la mente fissa su Mozart. Il caffè era pronto e la candela era ancora accesa.

A quel punto mi resi conto di che sprecona fossi stata a lasciarla consumare così tanto. Mentre continuava ad ardere vivida, la fissai pensando: «Chissà come sta Mozart.», e nel momento stesso in cui guardandola formulai il pensiero, la candela si spense, si spense come se non fosse mai stata accesa.

Sul grande stoppino non rimase nemmeno una scintilla, senza che ci fosse stata la minima corrente d'aria, lo posso giurare; ebbi un brivido.

Corsi da nostra madre e glielo dissi. Lei rispose: «Va', sbrigati, vai a vederlo. Non tardare.» Mi affrettai il più possibile. Mio Dio! Quanto mi spaventai quando mia sorella, quasi impazzita anche se cercava di controllarsi, mi venne incontro e mi disse: «Grazie a Dio sei venuta, cara Sophie; ieri sera è stato così male che non avrei mai pensato che sarebbe sopravvissuto fino a oggi. Resta con me, perché se oggi si ammala di nuovo, stanotte morirà. Va' di là da lui e vedi come sta.»

Cercai di farmi forza e mi avvicinai al suo letto, quando all'improvviso lui mi chiamò: «Ah, cara Sophie, è bello che tu sia venuta. Devi restare qui stanotte, devi vedermi morire.» Cercai di essere forte e di rincuorarlo, ma lui replicò a tutti i miei tentativi:

«Sento già in bocca il sapore della morte.»

Süssmayr, il suo allievo, era lì al capezzale di Mozart, il famoso Requiem giaceva sul copriletto e Mozart gli stava spiegando come pensava che avrebbe dovuto finirlo dopo la sua morte. Si cercò a lungo il dottor Clossett, che fu rintracciato in teatro ma dovette fermarsi fino alla fine dello spettacolo; quando arrivò, gli prescrisse impacchi freddi sulla testa in fiamme, e questi gli procurarono un tale shock che morì senza aver ripreso conoscenza.

L'ultima cosa che fece fu cercare di riprodurre con la bocca il suono dei timpani nel suo Requiem. Lo sento ancora oggi."



C'è silenzio in casa, oggi, nella mattina del 5 dicembre 1791. Un silenzio innevato e anormale. Carl osserva i fiocchi cadere fuori dalla finestra, la brina arabescare i vetri e si domanda perché non provenga un ansimo dalla camera da letto.

Il dottore se n'è andato poco fa, dopo l'ennesimo salasso.

«I reni funzionavano male.» ha sentenziato o qualche diagnosi iperbolica del genere. «La febbre gli stava arrostendo il cervello.»

Funzionavano e stava. Al passato.

Wowi piange nella culla in salotto, il visetto imporporato, aggrottato. Carl lo estrae, lo ninna, un involto indifeso di copertine e cuffiette.

«Ci sono io, Wowi, stai tranquillo. Finché papà non si rimette faccio io le veci dell'uomo di casa. E ci sarò sempre per te.»

Papà, magari, dorme ancora?




A dicembre andrebbe celebrata la nascita di un santo bambino.

Non compianta la morte nell'indigenza di un santo genio, un tempo formidabile bambino incantante le corti d'Europa.

I fiocchi di neve, secondo Carl, una neve mite, leggiadra, sono lacrime di cristallo per il papà. A lui, la mamma, Franz in braccio e i pochi convenuti alle esequie, tra cui il Maestro Salieri e Schikaneder, non è concesso di seguire il feretro - prestato dalla parrocchia - mentre svolta sull'acciottolato nella nebbia decembrina. È consuetudine che i parenti lo scortino solo fino alla porta d'ingresso della città.

Solo un cane segue il carro, l'unico a veder calare la spoglia nella fossa.

Sono a corto di denari persino per pagarsi una sepoltura degna.




Quando Costanze, pochi giorni dopo, si reca a pregare sulla tomba del marito, nessuno le riesce a indicare il luogo preciso.

Wolfgang Amadeus Mozart è stato scaraventato a decomporsi in una fossa comune. Una badilata di calce a prevenire epidemie e contaminazioni del terreno e delle falde acquifere, una benedizione impartita in fretta e furia e via.

Tra i poveri, nella melma, nel nevischio fangoso.

Nell'anonimato.




C'erano stati bisticci, come in ogni matrimonio. E gioia. Sei bambini in totale, quattro maschi e due femmine, nell'arco di nove anni. Appena due maschietti raggiunsero l'età adulta. Momenti di difficoltà e acque incerte e inesplorate. Momenti lieti e idilliaci, barlumi di letizia tra marito e moglie. Stanzi si inalberava, ma Wolfie si faceva perdonare. Bastava intravedere quelle spalle minute sotto la giacca, le dita affusolate e tozze, l'inchiostro incarnito in scaglie sotto le unghie e i polpastrelli spellati dal lavoro. Quel visetto angelico sotto la parrucca incipriata, preservante dei tratti infantili, delle rotondità e delle espressioni di una peste di sei anni. Gli occhioni di quella sfumatura indefinita tra il grigio e l'azzurro. Un ceruleo smorto, offuscato da mille pensieri.

Come sgobbava, certosino nel lavoro, ossessivo, tra le partiture rilegate e gli spartiti, l'inchiostro e il calamaio, fino a notte fonda, fino al culmine della luna. Luna, regina della notte. Quando lo spicchio opalino sbiadiva nei vapori rosei dell'alba e Stanzi beccava Wolfie ancora sveglio, indaffarato, aggiogato alla sua musica.

Già in piedi? No, non era mai andato a letto.

Lui morì giovane e indebitato, ridotto in miseria. Aveva trentacinque anni. Lei appena ventinove quando lo perse. Di rientro dal funerale si buttò sul letto e lì pensò di lasciarsi deperire. Supplicò, in lacrime, Dio, di contrarre lo stesso misterioso e mai del tutto acclarato morbo che aveva privato la vita al suo maritino.

Il pensiero di due bambini da sfamare la fece desistere e risollevare con risolutezza.

Costanze si risposò diciotto anni dopo con un borioso diplomatico danese. Georg Nikolaus Nissen. Un uomo buono, lontano un miglio dalla verve frizzante di Wolfie, estimatore del defunto marito.

Collaborarono insieme per tutelarne la memoria. Stilando biografie, organizzando concerti, raccogliendo fondi, fondando comitati, presiedendo a repliche delle opere del compositore. Crescendo Carl Thomas e Franz Xaver nella sua ombra.

Amara ironia: un marito morto rimpingua più le casse di un marito vivo.




Riaprirà certi cassetti della memoria, ne chiuderà altri, santificando il defunto marito, anestetizzandone la figura da sgarri e intoppi che un musicista leggendario non si può permettere. Un maestro d'altissimo livello, un genio, non è pazzo, non costella le sue missive di allusioni a feci, peti, deretani. Non imita il suono delle scoregge e non si rotola in giro, stiracchiandosi e miagolando come un gatto.

Un genio è posato, erudito, integerrimo.

Imperturbabile come un'effige di marmo.

Wolfgang, nella prima biografia rilasciata da Costanze e Nissen nel 1829, autorizzata anche da una vecchia, cieca Nannerl consumata dall'artrosi, crebbe come non era mai cresciuto in vita. Divenne adulto. Serio. Sofisticato. Omologato all'idea generale che il pubblico gradiva del genio. Quando ricercò sempre, invece, smanioso, ardente, quell'infanzia mai vissuta. Il gioco. La spensieratezza.

La libertà.

Il dubbio attanaglierà Costanze: chi ha amato di più? Il marito ritoccato, quella dolce finzione da lei alterata e romanzata, o il musicista reale, vivo, malandato come un randagio, esuberante e fanciullesco?

C'erano state tribolazioni, sì, debiti, contratti scaduti, orde di creditori alle calcagna, quel Requiem dalla funesta, misteriosa, committenza. La dipendenza per la bottiglia di Wolfie. Il suo stile di vita sregolato. Gli amici della loggia massonica e del teatro popolare, dove Costanze era un'ombra defilata. La follia del genio. Ma anche letizia, amore, il loro nido, i loro pulcini. Quei pochi, effimeri, brandelli di paradiso.

Carl e Franz.

Franz cercherà suo padre dovunque, il suo fantasma. Ne ricomporrà un mosaico da frammenti raccolti tramite aneddoti, testimonianze, racconti. Distorti, magari, manipolati, abbelliti, filtrati attraverso la lente della fama postuma. E di sua madre.

Un padre onnipresente, di cui non conserverà neppure un esiguo ricordo.

Chiederà a chiunque, appena cresciuto, esigerà la verità.

«Maestro Salieri, raccontatemi di mio padre. Eravate suo amico.»

«Mamma, dimmi di papà.»

«Carl, cosa rammenti di papà?»

Franz Xaver Wolfgang. Un padre che lo pedina persino nell'onomastica. Un'eredità che lo schiaccerà, gravando su di lui, catene a un passato mai pienamente illuminato. Il figlio di Mozart. Un promettente pianista, un professionista in carriera.

Dimostrati all'altezza di tuo padre, rendigli onore.

Franz vorrà semplicemente delle risposte.

Risposte sincere.

Carl consisterà nell'unico suo ponte tra realtà sepolte e presente, l'unico testimone di cui si fiderà ciecamente. Suo fratello. In prossimità dell'anniversario di morte del papà, Wowi svilupperà l'abitudine di sgattaiolare nel letto del fratello maggiore.

«Raccontami di lui.»

E Carl... Carl dirà il vero. Sfiorando l'orecchio malformato, accartocciato, del fratellino, reminiscenza del padre. Un filo che si dipana tra generazioni. Non tralascerà un dettaglio, nemmeno quelli scomodi, le scabrosità asportate dall'agiografia mistificante Amadeus. Le burle, le facezie, l'indole irriverente e scanzonata, i motteggi, la fissa per gli scherzi sulla cacca e sulle flatulenze.

L'emissario in nero, il Requiem drenante le forze dal corpo debilitato di papà. L'ossessione per il lavoro, le notti di fatica e quelle brave, l'alcol, gli incubi, i legami famigliari tranciati con la zia Nannerl e il nonno, i litigi tra i genitori.

Wowi non si merita una verità stucchevole.

«Ci hai mentito.» accuserà, cresciuto, Franz Xaver, la madre, in lacrime. «Mi hai mentito. Hai eretto un castello di menzogne sulla memoria di nostro padre. Sulla sua eredità! Tutti questi anni a dipingerlo come un genio perfetto quando...»

Quando era uno svitato, amabile, prodigio.

«L'eredità di vostro padre è stata una marea di debiti!» si difenderà Costanze, sopravvissuta anche al secondo marito. «Dovevo salvarvi dal marciapiede.»

«Ma non hai salvato lui. O questa famiglia.»

Omissioni, bugie, un'immagine manomessa. Un edificio che mai crollerà.

Ma chi sa veramente cosa si sviluppa tra marito e moglie? Amore, certo. Più dell'amore non è dato chiedere su questa terra.

Stanzi attenderà, attenderà, malgrado la collera bruciante del figlio, di riabbracciare Wolfie per cinquanta lunghi anni. Si è rimboccata le maniche e ha sfruttato il materiale a disposizione, revisionando, tagliando, modificando. Ma per i suoi figli.

Per sfamare i suoi bambini.

Per amore, il carburante di un genio.

Wolfie l'avrebbe capito.

Ma Franz Xaver Wolfgang, oppresso da quel padre restituito a spizzichi e bocconi, indistinto e vago come uno spettro, non lo capisce. Fraintende. Si trasferirà a Leopoli, a insegnare pianoforte. Distante da sua madre, lontano da suo fratello.

E da un nome che sa di non poter eguagliare.

Carl, musicista dilettante, si dedicherà a una vita da funzionario civico nella Milano austriaca, intrattenendo una relazione clandestina con la moglie di un ufficiale milanese da cui nascerà una figlia illegittima. Costanza. Costanza Casella.

L'unica nipote di Wolfgang Amadeus.

Una bambina adorabile, sua pupilla, luce degli occhi suoi, della nonna e degli zii.

Il vaiolo le ruberà la vita a dieci anni.

Carl sopravviverà a madre, zia, fratellino, e morirà nella sua abitazione di Milano il 31 ottobre 1858. Lo rinverranno, esanime, stringente in mano un ritratto in miniatura del padre. Come se lo stesse salutando. Come se fosse pronto a rincontrarlo.

Un padre mai del tutto scomparso. Alienato nel ricordo, nel tempo, ma presente.

Una cometa. Transitoria, di passaggio, abbagliante.

Non perfora il cielo, ma c'è.



Note

Una one shot pazzerella che mi è sbucata in testa ieri sera e che, in preda all'ispirazione e al desiderio di commemorare il 5 dicembre che si avvicina, ho buttato giù oggi. La mia prima intenzione era di aspettare il fatidico giorno di morte di Wolfie (che morì cinque minuti prima dell'una di notte), ma l'attesa era insostenibile e quindi ho preferito donarvela ora❤️Vedrò cosa inventarmi il 5 lol.

Per ciò che concerne il titolo, come per quello della storia madre, tratto da un titolo del musical teutonico Mozart!, si tradurrebbe approssimativamente come "Perché non puoi amarmi?" (Sottinteso nel testo: "così come sono?")

Alcuni fattucci interessanti che citerò anche nella storia principale:

- la risatina esilarante di Wolfie, quella di Amadeus per intenderci, è reale. Nelle lettere degli amici veniva definita come qualcosa di "contagioso" e simile al "metallo raschiante sul vetro".

- Wolfie, che fu di gran lunga un padre migliore di Leopold, ci tengo a rimarcarlo, anche solo considerando il semplice fatto che concesse ai suoi figli (ad essere pignoli solo a Carl, ma scommetto che avrebbe replicato lo stesso con Franz) di godersi l'infanzia come bambini normali, portò davvero Carl dietro le quinte ed assistere alla prima del Flauto Magico.

- Aveva davvero soprannominato Franz Xaver Wolfgang "Wowi".

- La storia dell'orecchio sinistro deforme è presente anche in "Gold von den sternen", ma mi limito a ripetere che Franz l'avrebbe ereditato dal padre. E così tacciamo tutte le diffamazioni che lo vogliono frutto di una scappatella di Stanzi con Süßmayr, l'allievo di Wolfie, colui che su cui ricadde il compito di terminare il Requiem, che aveva lo stesso nome e in onore del quale Wowi era stato battezzato. Stanzi e Wolfie sono una OTP memorabile, lo confermano le lettere piene di soprannomi e smancerie e particolari parecchio... calienti🥵 (ovviamente quest'ultimi scritti da Wolfie lol)

- Anche le lettere piccanti e scurrili alla cugina verranno citate nella storia principale.

- Sì, Salieri era veramente presente al funerale. BRV Antonio👏🏻

- Dal quadro fatto realizzare per volontà di Costanze dei pargoli potete ammirare quando i geni materni avessero deciso di fare copia e incolla:


- Carl Thomas ebbe veramente una figlia da una storia adulterina con la moglie di un ufficiale austriaco stanziato a Milano, tra l'altro sua allieva di musica. Quell'angioletto di Costanza era anche una promettente pianista (con il nonno che si ritrovava!) e Carl l'adorava, ma il vaiolo è una brutta bestia e, dopo la sua scomparsa, Carletto principe dei mostri non fu più lo stesso.

- Lo ritrovarono morto con in mano una miniatura dell'illustre genitore per davvero. Mannaggia Carl (o Carlo, come lo chiamavamo all'epoca in territorio italico) aspettavi qualche annetto a schiattare e ti beccavi la cittadinanza italiana 🤣In compenso, di quegli anni ci è giunto integro un suo dagherrotipo:



- Ne circola anche uno attribuito a un'anziana Stanzi. Gli storici sono discordi sull'identificazione della donna, ciò che è certo è che risale al 1840, anno in cui Costanze era ancora viva. La foto è stata scoperta negli archivi della città di Altötting, nella Germania meridionale: è stata scattata in Baviera ed è uno dei primi esempi di fotografia. Non so se costei sia davvero Costanze Weber in tutta la sua senile gloria e cazzutaggine (abbiamo capito che era lei a portare i pantaloni in quella casa), ma, a onor di cronaca, ho scelto di mostrarvela comunque:


- Leccami il culo è un capolavoro. E non lo dico perché fan di Mozart o per la potenzialità memabile del titolo. Di carattere goliardico, nella produzione di Wolfie, trovate anche Bona Nox, Difficile Lectu e O du eselhafter Peierl. Giustamente Costanze, nell'atto di tramandare ai posteri una versione più edulcorata possibile, cambiò il testo presso il tipografo in una versione più accettabile, simile a un canto di Natale. MA IL MEME È INARRESTABILE STANZIII🔥🔥🗣️

[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]

Grazie per seguire questi deliri e... a presto popoloooo❤️❤️❤️🗣️🗣️

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