-CAPITOLO I-
Zweihander
Il cielo aveva eretto la sua volta di nuvole nere, i fulmini sgusciavano da un cumulonembo all'altro, con sibili di tuono. La pioggia ricadeva in lame sottili, sciogliendosi in rivoli lungo gli occhi vacui dei morti, precipitando infine sul terreno rosso e grigiastro sotto il fardello dei cadaveri: inutili bambole di ossa e carne martoriata, lasciata a fermentare in attesa dei vermi. Lo Swordlinger brandiva la sua lama, fra le case ridotte in macerie, assaltato su ogni lato dalle armi dei nemici.
Il cuoio zuppo e pesante dell'armatura aderiva al petto nudo, irritandolo con le sue escoriazioni; la spada dalla punta a serpentina frangeva al suo passaggio l'acqua e la materia evanescente di cui era intessuta l'aria, sino a scontrarsi contro il cranio del kelta armato di ascia. Questi ricadde al suolo, inerte, in uno sprazzo di sangue scuro, impresso sulla faccia contratta dello Swordlinger. La pioggia fece il suo lavoro, diluendo il sangue e facendolo scorrere in soluzione verso i filamenti di barba nera, che incorniciavano il mento del guerriero.
Stinse la mano sinistra intorno al ricasso dell'arma, poco al di sotto dei denti di arresto, e così impugnata picchiò col pomo contro gli occhi azzurri dello spadaccino kelta, con movimenti secchi e rapidi, sino a quando di quell'azzurro mare non rimase altro che una poltiglia di sclera spappolata e cartilagini esplose. Deviò poi un affondo di lancia, colpendo sull'asta, e in un unico gesto scavò nel ventre del lanciere, rilasciando fuori la matassa viscida dei suoi intestini. "Razza di idiota." pensò il guerriero, mentre quel disgraziato si arrabattava per rimettersi le viscere in pancia con le mani, gemendo come avrebbe fatto un bambino lagnoso.
In una stretta tese la sua chioma bionda, rifinita di treccine, e con l'altra brandì la lama, liberando le spalle del kelta dal fardello della testa. Il corpo asciutto, segnato da tribali affilati, ricadde al suolo con un tonfo. Mentre il capo oscillava a mezz'aria, l'espressione contratta in una smorfia di puro terrore. Lo Swordlinger rise di gusto, lanciandola via come fosse una frombola.
Eccola che giungeva a termine: la furia della battaglia. Finita, insieme a tutte le velleità indipendentiste dei Kelta: l'ultimo avamposto ribelle era stato abbattuto e l'Impero Rimli avrebbe dispensato elogi e punizioni come più gli aggradava. Lo Swordlinger, da parte sua, sarebbe stato pagato per il servizio e tanto gli bastava. Era sul punto di rinfoderare la lama, pronto a liberarsi del tanfo della morte con un bel bagno nella tinozza, quando un lamento sommesso gli pizzicò le orecchie.
Si voltò di scatto, sondando con gli occhi adamantini fra le ceneri annerite: fra le macerie, oltre il residuo di un pilastro contornato da un angolo di muro, faceva capolino una testa canuta, cinta da foglie e bacche rinsecchite.
Il guerriero sospirò, passando una mano sul cranio completamente rasato e percorso dalle cicatrici "E così, non è ancora finita." Si avvicinò, non dandosi pena di essere silenzioso e voltato l'angolo, una cariatide gli si appiccicò ai piedi, serrando fra le dita ossute le sue ginocchia. Gli occhi del vecchio erano gonfi come due rosse zampogne, la barba di un grigio sporco era insozzata di cenere e saliva. Contorceva le labbra secche nella lingua incomprensibile dei Kelta.
«Levati dalle palle, vecchio.»
Gli ordinò, scuotendo le gambe per liberarsi da quella presa, senza però sortire alcun effetto. Al ché il guerriero, in un moto di irritazione, affondò lo spadone nella bocca spalancata del vegliardo, passandolo da parte a parte. Il corpo avvizzito si unì a quello dei suoi pari, sprofondando con la faccia nel fango.
"Finalmente sta zitto." pensò, con un sospiro di sollievo, mentre sorpassava la carcassa in un'unica lunga falcata. Nel suo nascondiglio, lo Swordlinger fece una scoperta: il verme non era solo. Rannicchiata contro il pilastro malmesso, c'era una piccola matassa di riccioli ramati, affondati in un paio di gambe pallide, sottili come chiodi. Fra quelle ciocche sporche, facevano capolino un paio di occhi verdi, resi più luminosi dalle scure occhiaie in cui erano affondati.
«È solo una bambina...» constatò, avvicinandosi a passi cauti «Ehi, piccola, che ci fai qui?»
Quello era un accampamento di soli guerrieri: perché portarsi dietro una mocciosa? Che si trattasse di un ostaggio? Gli occhi verdi della nanerottola si sbarrarono e rapida la sua manina raccolse qualcosa dalla saccoccia che portava al collo, infilandosela direttamente in bocca. Lo Swordlinger scattò: troppo spesso aveva veduto i Kelta suicidarsi per non finire in mano nemica, ma quell'infante non aveva nulla da temere da lui.
«Sputa!» le intimò, cercando di aprirle la bocca senza farle male. Ma ormai era troppo tardi: qualunque cosa fosse, l'aveva già ingoiata.
Le iridi verdi si rivoltarono, lasciando spazio a sclere biancastre irrorate da capillari arrossati; le labbra scoprirono i denti e la lingua marchiata da uno strano simbolo. Prima che il guerriero potesse capacitarsi di quanto stava accadendo, sentì qualcosa di affilato penetrare nell'ultima falange del suo anulare sinistro. Scavava nella sua carne, rosicchiava i muscoli come fossero burro e si andava avvicinando pericolosamente all'osso.
Provò a divincolarsi, il dolore si fece sempre più acuto, finché con la mano destra non afferrò la marmocchia e la staccò di forza, scagliandola nel fango con un tonfo umidiccio.
«Piccola bastarda.» bofonchiò, guardando la mano sinistra ancora tremante: la ferita stava già iniziando a rimarginarsi, ma poteva dire addio a una delle sue falangi. Vide la piccola appendice del suo anulare rotolare fuori dalla bocca della bambina, ancora impastata di sangue scuro. La mano destra del guerriero si strinse intorno all'elsa della spada, mentre ripieno di collera avanzava verso la bambina, ormai priva di sensi.
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