Capitolo 4: Wahnsinn

Dopo un'ora esco dal locale. Harvey mi ha detto che se ho bisogno di parlare con qualcuno posso cercarlo in qualsiasi momento. Non so cosa farò. Il foglio lo metto dentro alla borsa.

Sono ancora scossa per quello che è successo con Harvey. Vorrei darmele di santa ragione. Lui è stato molto dolce e non ha perso la pazienza. Se in passato avrei fatto quella domanda al mio ex, mi avrebbe urlato contro.

Metto le mani sulla tasca dei jeans e cammino per i quartieri di Boniso. Mi fermo su un piccolo negozio con la scritta grandissima e tutta rossa: la farfalla.

Martha mi ha detto, per telefono, che alcuni negozi sono stati aperti dopo che sono partita per andare a Milano. Di tutte le città mia madre ha scelto quella che in auto dista circa tre ore di viaggio. Penso che anche questo negozio sia stato aperto circa quattro anni fa.

Entro e mi accoglie una signora, magra e bionda, con un sorriso cordiale. Acquisto dei fiori e mi precipito al cimitero.

Manco da quattro anni, ma non è cambiato di una virgola. Il cancello è sempre in ferro battuto. Appena entro mi viene da piangere. Cammino nei sassolini, fermandomi alla sua lapide.

«Ciao Pà.» Nessuno mi può sentire. Questo è l'unico posto dove posso parlare da sola e soprattutto a voce alta. Guardo i fiori vecchi, ma sono ancora belli. Martha, sempre per telefono, mi ha detto che ogni settimana va nella sua lapide a mettere quelli freschi. Le sono grata ed è una brava ragazza, peccato che abbia una famiglia bigotta e orrenda.

Cambio i fiori. Ho messo delle orchidee: il suo fiore preferito.

Guardo il suo autoritratto che avevo fatto da bambina. È proprio un obbrobrio, ha ragione Nicholas, ma io l'avevo fatto con amore.

«Pà, mi dai un pezzo di carta e dei colori? Voglio farti un autoritratto. Oggi è il tuo compleanno: 1° giugno 2003.»

«Certo», risponde. Mi prende in braccio, con le sue braccia possenti e forti. Sono amata. Il mio Pà mi vuole molto bene. Sono la bambina più felice del mondo. Lo guardo negli occhi azzurri e tocco i suoi capelli biondi. Il mio principe azzurro.

«Pà, ti voglio bene. Sei tutto per me.»

«Anche tu» dandomi un bacio sulle guance.

Mi mette giù. Va in soggiorno e poi ritorna in cucina con quello che gli ho chiesto.

Batto le mani.

Mi metto seduta, con le gambe incrociate e comincio a disegnare. Faccio un cerchio per la testa e delle linee per il corpo. Lo guardo e mio padre sta leggendo il giornale della cronaca nera. Comincio a colorare, poi quando finisco vado da lui. «Pà, ti piace? Vero che sono brava?», alzando il pezzo di carta, con aria vittoriosa e lui mi dice: «Adoro. Chicca, sei brava a disegnare.» Mia madre lo fulmina con lo sguardo...

Per gli amici sono Penny, ma alcuni mi chiamano diversamente. Mio padre mi chiamava Chicca. Mi manca da morire. Non doveva morire, non doveva abbandonarmi.

Sono una cattiva persona, dovevo venire qui ieri e non oggi.

Vorrei sedermi a parlare con lui, ma intorno a me non c'è nessuna panchina. Mi accontento di stare in piedi e parlargli con la mente.

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Alcuni passanti mi guardano malissimo e una si ferma, vicino l'entrata del cimitero, osservando un punto fisso. È da un'ora che sono in questo posto.

Quella sta guardando me. Non penso che da quella lontananza possa vedere i miei occhi viola, ma ormai sono abituata a tutto. Sono pronta a sbottare di nuovo, di usare il sarcasmo. Ormai il sarcasmo è la mia difesa.

È una ragazza bionda con gli occhi marroni, alta forse un metro e sessanta. Porta un vestito semplice, grigio e mormora: «Wahnsinn.»

Si gira, dandomi le spalle ed esce immediatamente.

Wahnsinn? Non ho mai sentito questa parola.

Che cosa significa? La curiosità mi sta stringendo la pancia. Prendo il mio cellulare dalla borsa e faccio la traduzione di quella frase. Scopro che significa follia ed è tedesca.

Immaginavo...pensa che sia pazza a parlare da sola. Che nervi che mi fanno queste persone, ma almeno non ha detto altro ed è già qualcosa.

Evidentemente non ha mai perso un caro per dire una frase del genere.

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Entro in un negozio di musica, in via Piave n°81. Pavimento in legno chiaro e i muri di un colore azzurrino. Appese al muro, ci sono moltissime chitarre, classiche ed elettriche. Per terra ci sono delle batterie e diversi pianoforti. Mi avvicino al secondo strumento, schiacciando dei tasti bianchi e poi quelli neri. Il suono è assordante, da tapparsi le orecchie con le mani.

Roberta si avvicina a me. «Penny, vuoi diventare una musicista? Prima devi imparare le basi e tu sai suonare solo il flauto.»

Suonare, parola grossa. «Certo, voglio diventare una maestra d'orchestra. Non vedi come sono brava a suonare...da premio Nobel.»

«Il tuo sarcasmo mi spiazza, ma è bello vederti. Sei venuta a trovarmi a lavoro?»

Annuisco. In verità, stavo camminando senza una meta vera e propria e senza volerlo mi sono ritrovata nel negozio di musica di Roberta. «Tra poco stacco. Torniamo a casa assieme?» Annuisco.

Lei fa la commessa da due anni: sempre Martha mi ha raccontato di questa cosa.

«Wow» fa Roberta dopo venti minuti. «Non mi piacciono gli uomini e tu lo sai, ma questo ha un fondoschiena da urlo. Girati e dimmi quello che pensi, Penny.»

È la prima volta che sento parlare così la mia amica.

Mi giro e vedo un ragazzo di spalle. Sembrerebbe molto carino: alto abbastanza. Capelli castani e ricciolino e indossa una tuta. Sputo un polmone.

«Ma che ti prende?» fa Roberta.

«Cavoli, è Harvey!»

«Harvey? Non sapevo che conoscessi uno con un fondoschiena da urlo.»

«Pensavo che fossi solo lesbica e non bisex», le dico.

«Mi piacciono solo le donne. Ma ho gli occhi per vedere le cose belle e questo potrebbe andare bene per te», ridacchia.

Scuoto la testa, ridendo. Lo guardo meglio è Roberta ha proprio ragione. Ha un fondoschiena spettacolare. Con la tuta non si nota abbastanza, ma qualcosina s'intravede.

Harvey guarda una chitarra di un blu accesso. Resto ancora affascinata da Harvey.

Roberta guarda me e poi lui. «Penny, non ti ho mai vista così...ehm...diciamo in brodo di giuggiole. Qualcosa mi dice che ti piace quel ragazzo o mi sbaglio?»

Divento rossa in viso. Quando ero piccola non avevo mai visto Harvey, lui mi ha detto che è originario di Boniso; ma ora lo vedo molto spesso, troppo, ma il mio cuore è euforico; sprizza gioia da tutte le parti.

«Non lo so. Tu sei fuori di testa, senza offesa.»

«Tranquilla, non sono arrabbiata; però ti stai mordendo le labbra.»

I miei denti trattengono il labbro inferiore. Il cuore sta battendo a mille. Il destino ha voluto darmi una seconda possibilità. Ho rivisto Harvey per due volte di seguito. A Boniso ci sono due negozi di strumenti musicali e lui è entrato in questo.

Mi sento come un'adolescente alle prime esperienze d'amore. Ho gli ormoni a mille.

«Ma vuole acquistare un'altra chitarra? Ha già l'altra che si è portato ieri.»

«Aspetta! L'hai appena conosciuto e sai già queste cose? Devi raccontarmi tutto e comunque, devo lavorare.»

Roberta va a servire quel cliente, mi metto dietro una colonna di vetro, nascosta, per vederlo meglio: spero di sentire la loro conversazione.

«Bella chitarra, vero?», chiede Roberta.

Roberta lo guarda, aspettando che lui vada avanti a parlarle. Harvey si tiene le mani dentro la tasca dei pantaloni della tuta. Non sembra molto contento di essere in questo posto.

Non mi sono accorta che la ragazza della mia migliore amica è vestita in un modo molto elegante: pantaloni neri e camicia bianca, tacchi alti e rossi. Roberta di mattina presto fa l'estetista e poi lavora come commessa in questo negozio.

Io mi vergognerei a servire i clienti. Vorrei avere la sua grazia. Al confronto suo sarei una scimmia.

Lei è magra e io un po' in carne. Ripenso alle parole del mio ex, ma non voglio mettermi a dieta. Mi piaccio così come sono e mai cambierò, per nessuno al mondo! Nicholas deve capirlo e non può impormi le sue idee.

«Sì», risponde educatamente Harvey.

«Capisci di strumenti?»

«Chi ti ha dato questa chitarra?» La sua voce è spenta. Gli occhi sono tristi e cupi. Ora mi sono spostata per guardarlo meglio. Ma che sto facendo? Lo sto pedinando? Perché lo sto facendo?

«Mi sei simpatico. Questa chitarra me l'ha data Patricia.»

Cosa? Roberta conosce Patricia? Questa è una novità anche per me. Harvey diventa bianco in viso, è sotto shock. Lo sarei anch'io, anzi, lo sono.

«Dovevo immaginarmi che fosse lei la mandante», borbotta.

Mandante di cosa?

Guarda la commessa con occhi furiosi. «Comunque, quanto costa?», dice alzando la voce e lei lo osserva in malo modo.

«Intanto modera il volume, che non siamo al mercato», rimproverandolo. Ma poi Roberta si addolcisce e gli dice che non conosce Patricia, ma che è venuta a venderle la chitarra.

Lui è molto furioso per quella risposta, o forse per altro. «Scusami, intanto mi potrebbe rispondere? Quanto costa?»

Almeno chiede scusa. Il mio ex lo fa solo quando vuole qualcosa: lui vuole me indietro.

«Costa mille euro», risponde in malo modo.

Scuoto la testa. Pensavo che si era addolcita un po'. Sarà nervosa per la questione dei famigliari di Martha, ma non è una scusante per trattare male i clienti.

«Sono disposto a pagare, anche il doppio. Quella chitarra è mia.»

Come sua? Non credo che sia la stessa che si è portato ieri dal suo viaggio, sarà un'altra. Anche la mia amica è scossa quanto me. Gli consegna la chitarra e Harvey si allontana. Dopo aver pagato, mi vede.

«Mi stai seguendo?»

«Sono amica di Roberta e per tua informazione, Boniso è un buco! E in questo paese ci sono due negozi di musica. Perché sei venuto in questo?»

«Cose mie», risponde.

Esce e gli cade un pezzo di carta dai pantaloni della tuta.

«Harv, ti è caduto...», urlo, sperando di farmi sentire da lui, ma senza risultato.

Roberta è più veloce di me, si abbassa, raccogliendolo e legge quel pezzo di carta.

«Oddio, adesso capisco perché diceva che quella chitarra era sua.»

Mi consegna quella lettera. Non vorrei leggerla, ma Roberta mi mette quelle scritte sul volto.

Signor Solk, ieri sera è stato magnifico a suonare la sua chitarra e mi dispiace per come l'abbia trattata la signorina Smith. Stamattina ho dovuto vendere la sua chitarra per conto di qualcuno, ma penso che lei avrà già capito. Mi creda, mi dispiace molto per questa storia. Lei ha sempre avuto fiducia in me e io le pulivo la casa in modo impeccabile, sperando che lei sarebbe ritornato a Boniso. Mi pagava lo stipendio da lontano e la ringrazio dal profondo del mio cuore, ma non posso più rimanere al suo servizio e della sua famiglia. Non posso dirle chi è stato, ma al dipendente del negozio non darò il mio vero nome, ma quello del mandante. Lei è una brava persona So che quella chitarra è molto importante per lei. Quella persona mi ha ricattata, stia attento perché lei è una brava persona. La chitarra la troverà al negozio di musica in via Piave n° 81.

Chiudo la lettera e la metto in borsa.

Ieri mi disse che la sua ragazza non era cattiva. Ha ragione, la sua ex è diabolica.

Mi porto una mano alle labbra. Povero Harvey.

Che nervi mi fa quella Patricia. Ha venduto la chitarra di Harvey e ricattato una povera lavoratrice. Questo non va bene. È una donna malvagia. I suoi occhi grigi stanno male su di lei.

Già che non mi piaceva prima, figuriamoci adesso. Mi sta sullo stomaco.

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Io e Roberta torniamo a casa. Sebastian è in soggiorno, seduto sul divano. Sulle sue gambe c'è una ragazza con i capelli biondi e occhi marroni.

Sebastian si alza in piedi. «Penelope, Roberta, questa è Madeline. Siamo stati assieme per poco e quando si è trasferita in Germania, abbiamo avuto una relazione a distanza.»

Il gemello di Roberta ci guarda con occhi da innamorato. Lui è uguale a sua sorella solo che Sebastian ha gli occhi verdi e Roberta azzurri.

Lei si avvicina a me e mi dà due baci sulle guance.

Roberta la guarda a bocca aperta, è scossa e scopro che all'epoca, quando suo fratello stava con questa ragazza, loro non sapevano nulla.

Anche Roberta si presenta. «Ciao, piacere mi chiamo Roberta, scusate, ma devo andare dalla mia ragazza.»

Esce e io mi sento in imbarazzo con queste due persone.

Mi viene in mente ancora le parole che ha usato al cimitero. «Wahnsinn, lo vai dire a un tuo famigliare», borbotto.

Sebastian non capisce la mia reazione e lei si pulisce il suo vestito grigio.

Io spiego, brevemente, il nostro incontro.

Lei sbianca in viso, mortificata e mormora: «Scusami, ma non era rivolto a te. Stavo parlando con mio padre, nell'auricolare, però, non devi basarti solo sull'apparenza e comunque non ti avevo vista al cimitero. Io ero passata solo per salutare due persone che non conoscevo.»

«Volevi dire che conoscevi», le dico sorridendole.

«Ho detto giusto, ero al cimitero per due persone che non conoscevo, ma saranno fatti miei.» Fa un sospiro e mormora: «Scusami, ma non ti avevo vista al cimitero e non devi pensare subito male», mi ripete.

Le chiedo di scusarmi e lei mi sorride. «Tranquilla, ma devo farti i miei complimenti a portare le lenti colorate con questo caldo.»

Sebastian le dice che non doveva fare quella domanda.

Devo calmarmi. Devo calmarmi, ma non riesco. La fulmino con lo sguardo. «Basta!», esplodo. «Fra poche settimane entriamo in autunno e non fa tanto caldo, ma evita...non porto le lenti colorate e per tua informazione, sono i miei occhi naturali.»

«Ragazzi è pronta la cena», urla Paula dalla cucina.

La madre di Roberta mi ha salvata in extremis. Sebastian e la sua ragazza escono per cenare, e io vado con loro.

Ci sediamo a tavola, apparecchiata con la tovaglia rosso fuoco. Le posate in argento e i piatti in porcellana bianche con i bordi neri.

Paula mi passa una porzione di pasticcio. «Penny, so che è il tuo piatto preferito.»

Anche quello di mio padre, commenta il mio subconscio. Prendo la forchetta e impianto il pasticcio di ragù su di essa, portandola alla bocca. Il suo odore mi ricorda la mia infanzia, quando mamma preparava ogni settimana questa pietanza. Mastico a fatica e mando giù. Non c'è la faccio a mangiare. Lascio la forchetta nel piatto. «Scusate, non ho fame. Vado in camera mia a riposare.»

Madeline mi guarda a bocca aperta e una lacrima mi scende dal viso. Esco e lei mi segue fino alle scale a chiocciola.

«Stai bene, Penelope?»

Non la conosco, ma le dico: «No! Ieri era il mio compleanno ed è anche l'anniversario della morte di mio padre. Il mio piatto preferito è il pasticcio, ma era anche quello di mio padre. Dimmi te se ho voglia di mangiare. Ma poi perché te lo dico, non ti conosco nemmeno e non siamo nemmeno amiche», sbotto e il cuore mi esce dal petto.

Madeline si porta la mano sul cuore. «Fa bene parlare con qualcuno. Posso ascoltarti...Tuo padre è venuto a mancare perché era malato?»

«No, era sano come un pesce. È morto con un infarto fulminante. Scusami, ma voglio dormire. Stasera non sono in vena di compagnie.»

Mi scuso ancora e salgo in camera mia.

Anche ieri mattina mia madre stava preparando quella pietanza e non sono scoppiata in quel modo, almeno credo.

Sono successe tante cose che ormai non mi ricordo più. Ma ricordo che mia madre mi ha detto che, non sono portata per fare la psicologa e altre cose orrende. Basta pensare a questo.

Entro nella camera da bambina. Letto con la coperta rosa, muri dello stesso colore con qualche sfumatura di bianco da far sembrare che siano delle nuvole.

Mi spoglio, lasciando i vestiti sulla sedia vicino alla scrivania, mi metto il pigiama e vado a dormire.

Chiudo gli occhi e sogno un ragazzo che urla due parole incomprensibili.

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