59 - IL RAGAZZO BIONDO (1)
"Camilla?"
L'eco rimbalzava tra le pareti della grotta come una palla di gomma, senza controllo, senza direzione, apparentemente senza intenzione di fermarsi, nonostante il suono della voce, acuta e stridula in modo assurdo, perdesse forza a ogni urto, restando solo un rumore indistinto, come il brusio ovattato di una folla prima di una messa.
Camilla intuì che le voci erano più d'una, e che le pareti su cui rimpallavano erano quelle della sua testa. Le distingueva a una a una, ma non riusciva a coglierne il significato, come se avesse dimenticato le accezioni di ogni parola. Sapeva solo che là fuori, vicino a lei, c'erano i suoi amici, il suo gruppo, la sua salvezza.
Più volte si vide in piedi, traballare fino all'apertura della grotta e dire "Sono qui!", per poi ritrovarsi ancora rannicchiata nello stesso posto, accucciata come un neonato, con le palpebre talmente pesanti da non riuscire nemmeno a sollevarle. Il torpore le era scivolato addosso come colla densa, e negli sporadici momenti in cui pensava di essere sveglia, scopriva le sue membra inchiodate alla pietra, mentre le voci continuavano a ripetere parole incomprensibili, ma rassicuranti nel loro tono.
Camilla cominciò a provare piccoli sprazzi di disperazione e si chiedeva perché non la vedessero, visto che erano così vicini, per poi scoprire che si era di nuovo riaddormentata e ancora perseguiva a rimanere sulla pietra.
"Alzati, Camilla!" provava a dirsi. "Devi andare da loro..."
Le voci parevano aumentare d'intensità e lei tentava di afferrarle con le mani, per farsi trascinare; ora le aveva attorno, come se fossero nella grotta; poi sparivano nelle sue profondità, per poi riemergere all'improvviso e allontanarsi.
Ci fu un botto molto potente, improvviso, che le fece spalancare gli occhi per un momento, lasciandola dubbiosa su ciò che aveva udito. E mentre rifletteva, di nuovo era scivolata nel sonno, dove le voci avevano ripreso il loro gioco a rincorrersi.
Poi, d'un tratto, sparirono del tutto.
Camilla aprì gli occhi.
Aveva freddo. Si strinse nelle braccia e deglutì un paio di volte per liberare la bocca dalla saliva impastata.
La luce esterna entrava dall'apertura, soccombendo quasi subito all'oscurità; la nicchia dove la ragazza si era accucciata era del tutto all'ombra. La pietra era fredda sotto di lei; scoprì subito di avere glutei e piedi gelati. Tentò di mettersi seduta e si accorse di non essere intorpidita.
Sbadigliò e si grattò il seno sinistro, passando con la mano sotto la canotta. Sfiorò appena il capezzolo e un calore la pervase in mezzo alle gambe. D'un tratto sentì il bisogno disperato di giacere con il suo Andrea. Chiuse gli occhi, appoggiò la schiena alla parete e cominciò a muovere la mano verso il basso, mentre le immagini del ragazzo che amava, nudo, sopra di lei, si proiettavano nella sua mente stanca.
Appena però le dita toccarono il pizzo delle mutandine spalancò di nuovo gli occhi, con la netta sensazione di essersi risvegliata nuovamente. La grotta era sempre lì davanti; il silenzio che giungeva dall'esterno era più forte che mai. La paura di ritrovarsi davanti Masi ravvivò, più vivida e più forte di prima.
«Ma che cazzo faccio?» disse, guardandosi le dita infilate nelle mutandine. Si alzò in piedi tra gli schiocchi delle giunture.
Si avvicinò timidamente all'uscita, sentendo il calore estivo raggiungerla, provando sollievo nel sentire i piedi riscaldarsi.
Mise fuori la testa, scrutando il cielo e ogni punto i suoi occhi potevano scorgere. La radura era deserta.
Ricordò d'aver lasciato i vestiti nell'erba; prese un profondo respiro e uscì, camminando con decisione verso il punto in cui era stata imprigionata.
La sua roba era sparita.
Rimase per un po' immobile, guardandosi intorno, forse ancora un po' intontita dal sonno, sicuramente all'erta e spaventata da tutto quello che era successo, ma ancora di più da quello che poteva accadere.
Continuava a chiedersi se avesse sentito veramente le voci, poco prima; se i suoi amici fossero stati lì, o se avesse solo sognato. I volti di Roberto e Alberto apparvero nella sua mente, le persone che più gli davano fiducia, a cui avrebbe affidato la vita, se ce ne fosse stato bisogno. E Veronica con loro. L'aveva disprezzata, forse odiata, per poi capire che, in fondo, le piaceva. Ammirava la sua forza, il suo coraggio, la grinta che dimostrava a scapito dei suoi anni.
Si lisciò le braccia e una scarica di brividi la percorse. Non poteva essere freddo in una giornata così calda, ma la pelle era tutta increspata. Era la paura! La paura di essere esposta, sola, indifesa. Maledisse sé stessa e l'idea avuta di accompagnare Monica.
"Dovevo restarmene al sicuro alla baita..."
Si toccò la pancia, come per tranquillizzare la vita che le stava crescendo dentro. Ormai era sicura di essere incinta, anche se non aveva fatto nessun esame, nessuna ecografia e nemmeno aveva parlato con Alessandro. Lo sentiva, e basta.
«Erano qui gli scrigni, ne sono sicura!» disse, come se, sentire una voce, anche se la sua, la facesse sentire meno sola. «Altrimenti, chi avrebbe preso i miei vestiti? Forse hanno pensato fossi già tornata... Perché non mi sono svegliata?»
Non vedeva altre alternative che provare a tornare all'FDS, anche se, camminare a piedi nudi sul sentiero, non sarebbe stato piacevole.
La cosa che più la spaventava, però, era il cielo sopra di lei, da dove potevano apparire visioni sgradevoli, e il bosco intorno, ricco di nascondigli oscuri per uomini interessati a farle del male.
«Ma rimanere qui, non ha senso!»
Scese con prudenza il piccolo gradino che separava la radura dalla terra battuta della strada e, vestita solo con una canotta e un paio di mutande, cominciò a camminare.
Il ritorno fu decisamente più veloce per i nove componenti di VuEffe, spinti dalla rinnovata voglia di mettersi in gioco, contrastata però dalla costante paura di ciò che potevano essersi lasciati alle spalle e da ciò che potevano trovare davanti. Ma, senza dubbio, furono soprattutto agevolati dal fatto che la maggior parte del percorso era, ora, in discesa.
Franco de Simone aveva lasciato diverse pagine di appunti, descrivendo in sintesi punti di forza, criticità, pregi e difetti che aveva scorto in ognuno dei nove. Ad Alberto aveva attribuito il ruolo di guida, ritenendolo, parole sue, "in grado di assumersi la responsabilità delle decisioni". E lui, questa responsabilità così scomoda e così pesante, aveva iniziato ad assumersela.
Dopo la lunga esitazione su quando, se e cosa rivelare agli altri degli ultimi pensieri partoriti dalla vecchia mente geniale dell'ingegnere, si era deciso a parlare durante quella camminata di ritorno, nonostante gli animi fossero scossi dal botto udito, e dal fatto di non aver trovato Camilla. Ma ora non poteva più rimandare, perché qualcosa gli diceva che lo scontro con Masi era ormai prossimo.
«Ragazzi» disse, ultimo della fila che trottava con buon passo.
A parte Antonio, tutti si voltarono a fissarlo. E fu in quel momento che capì cosa fosse giusto dire, e cosa più prudente tacere.
«Il ragazzino va messo al centro, quando... sarà il momento» buttò fuori, tutto d'un fiato.
«In che senso al centro?» chiese Beatrix, sicura d'aver anticipato d'un soffio gli stessi dubbi degli altri.
«Io penso a noi otto disposti in cerchio» rispose Ando, «e Antonio in mezzo. Come a fare da trait d'union.»
«Esattamente!»
Alberto gli rivolse uno sguardo stupefatto, l'ennesimo di quelle ultime ore.
«Franco ritiene... riteneva che il ragazzo sia in grado di scatenare l'energia che c'è in noi, in tutta la sua potenzialità.»
Tutti diressero gli occhi su Antonio, che però non dava segno di essersi accorto che si stava parlando di lui.
«E come funziona la cosa?» chiese Trudi. «Cioè, intendo, cosa dovremmo fare quando... insomma, quando Masi...»
«Dobbiamo lasciare fare a lui! Credo che Franco intendesse che, al momento opportuno, il ragazzo saprà cosa fare, e noi dovremo solo seguirlo.»
«E se dovesse fare mosse sbagliate?»
La vocetta di Enrico s'insinuò tra loro, trasformatasi in pungente e fastidiosa da patetica e lagnosa com'era sempre stata.
«Lui è... lo vedete... Possiamo fidarci, voglio dire?»
«Potremmo sollevare lo stesso dubbio con te!»
Le parole di Veronica, improvvise quanto dirette, ebbero lo stesso effetto di una ventata di aria gelida. Per un attimo nessuno disse nulla, guardandosi reciprocamente con imbarazzo. Solo Enrico, umiliato e sorpreso da quella stilettata, abbassò lo sguardo a terra, sentendo riemergere antichi sentimenti che si era quasi illuso d'essere riuscito ad accantonare.
Roberto si schiarì la voce attirando l'attenzione di Veronica, a cui rivolse un cenno di disappunto. La ragazzina mantenne però lo sguardo duro e teso di chi non è pentito e di chi non ha parlato a sproposito.
Alberto, ora più che mai, confermò a sé stesso la decisione di non rivelare altro. Erano già tutti troppo tesi, troppo impauriti, troppo caricati di responsabilità che non avevano richiesto. Sapere ciò che de Simone supponeva ognuno di loro fosse in grado di fare, più di quello che già sapevano, avrebbe aumentato il fardello che già gravava sulle loro spalle, e avrebbe, di fatto, azzerato la loro spontaneità. Li osservava, e continuava a vedere ragazzini, uomini di mezza età, donne sovrappeso o piccole e inermi. Non certo eroi.
Aveva fatto un'eccezione solo per Antonio, ma il ragazzino faceva gara per conto suo. La sua testa era sempre da altre parti, anche quando parlavano direttamente a lui. Ma se c'era da agire o da dire una cosa importante, si attivava all'istante.
Un'altra l'avrebbe fatta anche per Veronica, le cui potenzialità ipotizzate da Franco erano in pratica le stesse che la ragazzina aveva già mostrato. Ma, parlare con lei, avrebbe gioco forza attirato l'attenzione di tutti, e temeva di non riuscire a reggere domande troppo dirette e insistenti.
«Alberto?»
La voce di Roberto lo destò dai suoi pensieri.
«Dimmi.»
«Dicevo... Ha scritto altre cose de Simone?»
"Mi stava leggendo la mente?" pensò Alberto.
«No, è tutto» rispose, comunque.
L'amico gli scagliò un'occhiata dubbiosa che pareva chiedere "Sicuro?", alla quale rispose con l'espressione più convincente che riuscisse a indossare.
Sapeva di non averlo convinto ma, senza volerlo, gli venne in aiuto Franco che constatò come paressero passate settimane, se non mesi, dal giorno dell'attacco di Ismel, quando invece erano trascorsi appena quattro giorni, quattro giorni molto, molto intensi. Ne nacque una leggera discussione su cosa avessero perso o ritrovato in quel lasso di tempo lungo e corto allo stesso tempo, a cui parteciparono anche lo stesso Roberto, Beatrix, Ando e in parte Veronica.
Alberto lasciò fluire la conversazione, approfittandone per riordinare i propri pensieri.
Vedeva bene come l'umore del gruppo seguisse linee ben distinte. C'era chi sembrava in apparenza tranquillo, sforzandosi di mostrare addirittura un lato spavaldo, anche se sospettava potesse trattarsi di ingenua inconsapevolezza o, forse, una sfrontatezza in grado di celare l'ansia che cresceva; e c'era, invece, chi esternava a pieno tutta l'oscurità che aveva dentro.
Uno di questi era di sicuro Enrico, l'unico scrigno su cui Alberto nutriva ancora troppi dubbi, sia per le azioni passate, sia per le attuali.
Ma chi che lo inquietava di più, in quel momento, fu Cata, fin lì dimessa, tranquilla, almeno all'esterno, forse un po' in difficoltà per gli atteggiamenti del marito, quando Ando era ancora... l'altro. Ma, nel complesso, calata nella parte.
La vide arrancare in coda al gruppo non notata dal marito impegnato nelle chiacchiere, con il volto teso, tirato, come se d'improvviso una qualche misteriosa forza, dentro di lei, avesse iniziato a tenderle con violenza ogni muscolo. Camminava con stanchezza, come se lo facesse perché doveva, deglutendo in continuazione, ansimando con un affanno troppo grande per la fatica che poteva dare la discesa di un sentiero di montagna, gli occhi inumiditi di lacrime vecchie e recenti, tormentati da un'angoscia subdola, ben impressa nelle sue iridi, capaci di contagiare d'inquietudine anche l'animo di Alberto.
La fissò per nemmeno lui si rese conto quanto, sentendo sparire i discorsi che facevano gli altri, e i rumori del bosco in sottofondo. Cata sembrava gonfiarsi a ogni passo faceva, come fosse un otre che veniva riempita senza tener conto della capacità. Era solo questione di tempo, prima che scoppiasse.
Cosa che accadde, appena superarono una curva prima dell'ennesima rampa.
«Io non ce la faccio!» singhiozzò, piantandosi in mezzo alla strada. «Non ce la faccio! Non posso affrontare quell'uomo! Sono... terrorizzata!»
S'accucciò sulle gambe e si prese la testa tra le mani, lasciandosi andare a un pianto disperato.
La prima che la raggiunse fu Veronica, la più vicina in quel momento. Pose il fagotto di vestiti di Camilla a terra, inginocchiandosi all'altezza della donna; l'abbracciò, venendo ricambiata all'istante da Cata che le si avvinghiò al collo come una bambina alla madre. E proprio questo pensava Alberto, osservando la scena straziante: la bambina era diventata adulta e stava consolando l'adulta tornata bambina.
Nel frattempo, anche Beatrix si era avvicinata con l'intenzione di consolare, ma Ando l'anticipò, risalendo in fretta i metri di vantaggio che aveva preso da sua moglie, senza rendersene conto.
«Amore! Cosa c'è?»
Veronica si alzò, lasciando il compito che stava svolgendo a chi aveva il dovere e il diritto di svolgerlo.
«Parlami, Cata!»
Ando si chinò, prendendole il viso tra le mani, lacerato nel vederle gli occhi iniettati di paura e disperazione. Estrasse un fazzoletto dalla tasca e le pulì il naso colante.
«Non... non...»
La donna riprese a piangere, con la testa sul petto dell'uomo che amava.
Tutti si erano fermati e fissavano la coppia, impietositi; tranne Enrico, che ne aveva subito approfittato per sedersi, e si guardava in giro con aria assente.
Antonio, data una fugace occhiata al motivo per cui avevano smesso di camminare, tornò a voltarsi verso la discesa, vedendo, in fondo al rettilineo, sprazzi del prato antistante l'FDS.
La sua testa era un turbinio vertiginoso di immagini e pensieri che si accavallavano l'un l'altro, combattevano per farsi notare eliminandosi quasi reciprocamente, di modo che quasi nulla rimaneva impresso nella mente affaticata del ragazzo. Tranne quando giungeva la "visione brutta", come chiamava lui il momento in cui gli si palesava davanti agli occhi una qualunque situazione che lo spaventasse.
Quella, fu la volta in cui giunse la più intensa, la più tremenda; l'immagine che più lo terrorizzò, in assoluto.
E quando cominciò a urlare, come urla l'agnello davanti al macellatore, Alberto capì, senza dubbi, senza esitazioni, senza rifletterci nemmeno un secondo, che la guerra era iniziata.
«Ora ci divertiamo!»
Pietro Masi troneggiava, piantato sugli enormi piedi bitorzoluti che sembravano non soffrire i pezzi frastagliati di soffitto che calpestavano; le lunghe e possenti gambe, nel gioco di luci e ombre che nascevano e morivano assieme, parevano un unico, grosso palo, tutt'uno con il tronco muscoloso, nodoso, che si apriva in due spalle massicce, larghe quasi metà della stanza stessa, e che sorreggevano collo e testa, quasi un blocco unico, la cui calotta sconfinava nella camera di sopra.
L'oscurità era diventata penombra, trafitta dal pallido chiarore che entrava dallo squarcio, illuminando i contorni di Masi tanto da farlo sembrare un imponente e minaccioso albero morto, senza foglie, coi rami, secchi e protesi, pronti per ghermire.
«Vi voglio davanti a me!»
La voce tonante di Masi rimbombò, facendo vibrare le orecchie di tutti come l'altoparlante di una vecchia cassa, martellata da musica troppo alta.
«Voglio godermi le vostre facce mentre vi uccido, lentamente!»
Si guardò intorno in fretta.
«Ma guarda chi si rivede...» disse, appena scorse Alessandro e Silvia che, tenendosi per mano, si erano posizionati al fianco di Francesca. «Dove si trova quella cosa che chiamate figlio?»
Silvia sentì fremere di rabbia il marito e gli strinse più forte la mano, per indurlo a stare calmo e a non reagire. Era conscia di stare per morire e voleva farlo vicino al suo uomo, stando uno accanto all'altro, come avevano fatto per tutta la loro vita insieme.
«Ah, giusto!» continuò Pietro. «Ora è un guerriero! Uno dei prescelti per annientarmi. Dove stanno, ora? In giro a cercarmi? Ho letto quel che c'è scritto nel taccuino... Devo dire che de Simone ha proprio un meraviglioso senso dell'umorismo!»
La risata che uscì dalla sua bocca riempì ogni angolo della stanza, come fosse solida e densa.
Francesca aveva la sensazione d'avere la testa inserita in una lavatrice, tanto le girava, sballottata senza pietà dalla voce e dalla presenza di quell'individuo.
«A proposito...» Masi si rivolse direttamente a lei e a Monica. «Dove si trova il vecchio?»
Monica aveva iniziato a frullare pensieri non appena aveva visto l'odiato uomo scendere su di loro. La frase "prendi tempo" cominciò a rimbalzarle in testa come una pallina di gomma, anche se era pressoché sicura non sarebbe comunque servito a nulla. Prendere tempo... per cosa? Lui era lì per ucciderli, una volta per tutte, e l'unico aiuto poteva arrivare solamente dai nove scrigni. Ma Alberto e soci erano su alla radura in quel momento, e chissà quando sarebbero tornati. Eppure, doveva prendere tempo. Qualcosa le suggeriva di farlo, e farlo bene.
La domanda dello stesso Masi, l'aiutò.
«L'ingegnere è morto, Pietro. Stanotte.»
Monica vide un lampo di stupore percorrere lo sguardo dell'uomo.
«Ti ho tirato addosso le sue ceneri su alla radura... Non l'avevi capito?»
La luce negli occhi di Masi, solo per un secondo, parve affievolirsi, come se pensieri nebulosi avessero attraversato la sua mente. Vide la sua grossa mano posarsi sul petto, toccando i segni e i buchi lasciati dalla polvere.
«Bruciava, vero?»
Monica non riuscì a fermare in tempo il sorriso di scherno che le salì sulle labbra.
Vide chiaramente la paura, o qualsiasi cosa fosse quello che lo aveva turbato, spegnersi nelle sue pupille, che divennero nere come quelle di uno squalo, mentre la furia saliva, saliva come la colonna di fumo nero sale dalle lingue infuocate di un incendio.
Masi digrignò i denti e stese in avanti le mani.
Il sorriso di Monica si spense, capendo cosa stava per succedere; chiuse gli occhi, facendo appena in tempo a scorgere una fortissima luce rossa.
L'esplosione di energia pervase Masi del solito, intenso piacere, accompagnato dal sottile dolore al palmo delle mani, ogni volta più simile a un semplice prurito. Il bagliore del raggio fu più forte del solito, forse perché sparato in un anfratto piccolo e buio, e gli coprì il piacere di assistere agli ultimi istanti di vita della cicciona, cosa che avrebbe senza dubbio aumentato la scala della sua soddisfazione.
Ma successe qualcosa.
Il raggio divenne d'improvviso denso e caldo, molto caldo, come se stesse sparando un getto di lava bollente. Il dolore, da lieve, divenne atroce e insostenibile.
Masi urlò, mentre la stessa forza che aveva cacciato fuori, rientrava in lui con potenza raddoppiata, tanto da sbilanciarlo all'indietro. Annaspò, stupito; cadde di schiena, sbattendo la base del collo sul lato frastagliato del buco nel soffitto che lui stesso aveva causato, rovinando a terra in un fragore di cose rotte.
Intorno a lui si udivano grida e un accavallarsi di voci confuso.
Intontito, riuscì a sollevare la testa vedendo la donna grassa chinata per terra, con le mani nei capelli. Era viva e vegeta!
"Che cazzo succede?" riuscì a pensare, nel miscuglio di dolori che provenivano da varie parti del suo corpo. "Dovrebbe essere morta! Polverizzata!"
Faticava a riordinare le idee, tra i bruciori che sentiva pulsarsi addosso, meno intensi ma ancora fastidiosi, e una spossatezza generale piombata nel suo corpo; oltre allo stupore, forte, di non capire cosa fosse successo.
Si accorse dell'altra donna solo quando questa gli calò sulla testa l'oggetto lungo e di ferro che teneva in mano. Il colpo, però, fu di striscio, e dato con poca forza, ottenendo l'unico effetto che non si voleva ottenere: sgombrare la mente di Masi, facendogli tornare la lucidità e, con quella, la rabbia, ancora più implacabile.
«Pezzo di merda!» gridava Angelica, mentre rialzava la stampella di Andrea, per calarla una seconda volta sul capo dell'uomo.
Pietro bloccò l'arma improvvisata con la mano, stringendola forte dentro al pugno finché non si spezzò in due parti, mentre si rialzava senza usare l'appoggio delle mani.
La donna rimase a fissarlo a bocca aperta, indietreggiando velocemente fino a urtare il ragazzo, rimasto in piedi dietro di lei, l'attenzione divisa tra Masi e il capannello creatosi a fianco.
Proprio lì Masi diresse lo sguardo, sebbene il furore lo incitasse a distruggere quell'insulsa donnetta e il suo patetico e inutile tentativo.
«Cosa cazzo è successo?» pronunciò, vedendo la grassona e la coppia chinati su una quarta persona, stesa a terra.
Monica lo fissò, gli occhi inondati di lacrime.
«Sei solo un mostro!»
Poi, sollevò con dolcezza la testa di Francesca.
«Tesoro mio...»
Masi capì e la rabbia in lui crebbe ancora. «Almeno ha smesso di mettersi in mezzo, quella cagna maledetta!»
«Brutto stronzo...»
Andrea, con enorme coraggio, si fece avanti saltellando sull'unico piede.
«Ora basta, però!»
Pietro stese le mani in avanti. «Mi sono rotto il cazzo! Basta giochini!»
Ma, un attimo prima di sparare il raggio e porre fine all'esistenza di quelle patetiche persone, il suo nome invase la stanza, correndo in ogni angolo, su ogni parete, in ogni orecchio. Era pronunciato da una voce dolce ma decisa, a tratti potente, e racchiudeva in sé l'esortazione alla sfida.
Masi si bloccò, sgranando gli occhi così come gli altri presenti, la cui sorpresa interruppe il momento di sconforto che stavano vivendo.
«Chi diavolo...?»
Pietro abbassò le braccia e guardò in su. L'inquietudine aveva ripreso a bussare al suo stomaco e si ritrovò a chiedersi cosa stesse capitando.
Diede un'ultima occhiata a Francesca e a Monica, poi partì di scatto, volando in alto mentre si rendeva conto, chissà come e perché, di non essere riuscito nemmeno stavolta a uccidere nessuna di quelle persone.
Sfondò il soffitto della camera e quello della stanza subito sopra, fino a bucare il tetto della baita, si librò nell'aria calda e si fermò, scoprendo chi l'aveva chiamato e, apertamente, sfidato.
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