57 - UNA CASCATA DI POLVERE (2)
Nell'ultimo tratto di sentiero a Monica parve quasi di rotolare, tanto la velocità che sforzava di mettere nelle gambe e la fatica impossessatasi di lei, erano fuse insieme.
Aveva corso per inerzia tutto il tempo, focalizzata solo ad arrivare prima possibile, sperando, pregando, implorando chiunque potesse ascoltarla in quel momento, che Masi non tornasse alla radura prima di loro, e sfogasse su Camilla il sicuro furore che lo stava possedendo in quel frangente.
Era ben consapevole di quale rischio fosse aver lasciato la ragazza da sola, ma... cosa avrebbe potuto fare? La bolla era indistruttibile. Restare là significava morte per entrambe, se non certa, probabile. Andare a chiamare la squadra, invece, era una possibilità. Anche per loro, in effetti: la prima, vera prova operativa sul campo per VuEffe.
Aveva la percezione che la strada si fosse allungata, tanta era la smania di arrivare; così, quando riconobbe la curva prima dell'ultimo pezzetto in discesa, il cuore, che sembrava essersi rimpicciolito alle dimensioni di una noce, le si alleggerì nel petto.
Corse l'ultimo tratto a testa bassa, quasi pensasse a essere più aerodinamica possibile per impiegare meno tempo, cercando, con tutte le sue forze, di ignorare la fatica ormai giunta a livelli estremi. Era concentrata sul terriccio che pestava con le scarpe, stando attenta alle buche, ai sassi troppo grossi, aspettando che il pavimento sotto di lei diventasse erba, segnalandole di essere giunta in fondo. A quel punto avrebbe estratto il telecomando, avrebbe aperto una breccia nello scudo, sarebbe corsa sul prato, avrebbe gridato...
Quasi cadde quando i suoi piedi urtarono ciò che si ritrovò sotto agli occhi all'improvviso. S'arrestò di colpo, e dovette aggrapparsi a tutto l'autocontrollo di cui disponeva per non urlare, come forse non aveva mai fatto in vita sua.
Fu investita da un odore acre e pungente che le rovesciò d'improvviso lo stomaco. Fece qualche passo indietro e vomitò, finendo seduta proprio in mezzo all'ultimo tratto che aveva appena percorso.
Davanti a lei, c'erano teste umane! A centinaia.
Alzò lo sguardo e vide che tutto il perimetro della bolla, fin dove poteva vedere, era bordato da quell'osceno spettacolo. Uomini, donne, bambini, con la pelle annerita, che stava marcendo sotto al caldissimo solo di giugno, altri carbonizzati per essere finiti a contatto con le pareti dello scudo.
Dopo tanti anni si era convinta che non avrebbe mai più assistito a uno spettacolo più raccapricciante di quando Masi aveva spaccato il cranio alla sua sorellina, ma si sbagliava! Le sembrava di essere scesa nel più infimo dei buchi dell'inferno, lontana anni luce da ogni più timido segno di speranza, dove la normalità era l'orrore, la disperazione, la paura, che ancora scorgeva negli occhi di quelle persone massacrate, a pochi passi da lei.
Non aveva dubbi su chi fosse il responsabile di tutto ciò e, senza dimenticare l'urgenza con cui era tornata alla baita, si rialzò, trattenne il respiro mentre cercava di fare lo slalom più angosciante della sua vita, estrasse il telecomando, aprì il varco nello scudo e, correndo disperatamente verso la baita, cominciò a gridare come una pazza.
«AIUTO! AIUTO!»
Si fiondò sulla maniglia della porta proprio mentre questa veniva aperta e, un po' per l'appoggio che le mancò, un po' per lo sfinimento che la travolse, ora che era giunta al termine delle sue fatiche, ampiamente aggravate dallo sterminio che avevano intorno, cadde in avanti tra le braccia di Franco, colui che si trovava più vicino all'ingresso dell'abitazione. L'uomo si ritrovò tutti i chili della donna addosso, a peso morto, e dovette fare qualche passo all'indietro, sorretto e aiutato anche da Ando, per non capitombolare a sua volta.
«Monica! Che è successo?» chiese Angelica, mentre Franco la lasciava scivolare con dolcezza sul pavimento e tutti le si assiepavano intorno.
Andrea, contemplata la scena, saltellò sulle stampelle, si portò all'ingresso e sporse la testa, vagando con lo sguardo per tutto il prato.
«Dov'è Camilla?» domandò, con la voce tremolante.
Per qualche secondo Monica non riuscì a rispondere. Ansimava a pieni polmoni, quasi boccheggiando, col viso cianotico e gli occhi chiusi. La sua figura, già prominente per il grasso e l'enorme seno, si elevava ancora di più, spinta in su dai profondi respiri, tanto da sovrastare le gambe di coloro che si erano chinati per assisterla.
«Ale, fai qualcosa! Sta soffocando!» disse Silvia, quasi in lacrime.
Ma prima che il dottore potesse aiutarla, il respiro della donna si tranquillizzò, pur restando affannato, e i suoi occhi azzurri brillarono all'interno del suo volto affaticato.
«Là... fuori...» boccheggiò, indicando la porta con la mano. «Masi?»
Franco, ancora chinato su di lei, annuì, serio e teso come una corda di violino.
«Era... su alla radura...»
Si tirò su lentamente, rimanendo seduta, puntellata sui palmi delle mani.
«Ha... imprigionato... Camilla... in una bolla...»
Le parole uscivano a fatica, trattenute quasi dal fiato grosso che le serrava la gola; ma tutti le compresero a fondo, soprattutto Andrea, il cui viso si indurì come fosse stato investito da una folata di vento ghiacciato. Il coro di esclamazioni, stupore, sgomento, coprì per un attimo il suo lamento. Ma non appena la notizia s'impresse a fuoco nella sua testa, la voce uscì, forte e disperata.
«E l'hai lasciata lassù da sola con quella merda d'uomo?» cacciò fuori, sentendo montare anche la collera.
«But... but... tato poll...vee.. re addoo... ssso!»
Tutti si girarono all'unisono a fissare Antonio, non più sorpresi dai suoi sporadici interventi, né dal fatto che sapesse cose che non poteva sapere. Questa volta nessuno capì a cosa si riferisse. Tranne ovviamente Monica.
«Cos'ha detto?» chiese Andrea.
«Ho buttato in faccia a Masi le ceneri dell'ingegnere. Non chiedetemi il perché... È stato un gesto spontaneo, dettato dal momento disperato. Ma ha funzionato! L'ho bruciato, sul serio. È volato via urlando di dolore.»
L'affanno pareva essersi sopito e l'aria riprese a scorrere con facilità nella gola di Monica.
«E Camilla...»
«Non siamo riuscite a rompere la bolla. Così sono venuto a chiamarvi. Voi potete farlo, ne sono certa. Ma dovete andare subito, tutti e nove. Al più presto. Masi è ferito, umiliato, certamente inferocito. Se torna là... non so cosa potrebbe fare alla ragazza!»
«Allora cosa aspettiamo?» gridò Ando.
«Andiamo! Subito!» gli fece eco sua moglie.
«Sì!» s'accodò Veronica.
«Un momento...»
Franco alzò le braccia, come per portare tutti alla ragione.
«Ci buttiamo all'avventura così, senza allenamento, senza un piano...»
«E quelle macchine, là sotto...»
Anche Beatrix sentiva di dover esternare le proprie preoccupazioni.
«Io non ho idea di come funzionino e, sinceramente, ho paura a infilarmici dentro così, senza nessuna preparazione.»
Alberto si fece avanti, lasciando Francesca in piedi sull'ultimo gradino.
«Non c'è tempo, ragazzi. Per questa volta dobbiamo andare... nudi. Ci affideremo solo ai nostri poteri.»
«E se incontriamo Masi?»
Anche Roberto mostrava segni di perplessità sul viso.
«de Simone ha costruito quegli aggeggi per combattere il nemico... Senza, forse non ne siamo in grado.»
«Io non credo ci servano quelle macchine...»
Alberto fissò un momento Ando, con occhi increduli, sempre più stupito dal repentino cambiamento che aveva avuto.
«Ando ha ragione» disse, poi. «È una delle cose che Franco mi ha lasciato scritto, prima di morire. Le macchine siamo noi, con i nostri poteri. Quelle che ha costruito lui, servono solo a convogliare meglio l'energia. Ma se impariamo a fidarci di noi stessi e di quello che siamo capaci di fare, diventano inutili o, comunque, non necessarie. L'ha capito l'altra sera, durante la riunione.»
«Papà, non possiamo lasciare Camilla lassù, tutta sola alla mercé di quel mostro.»
Andrea parlò col cuore diviso a metà tra la paura che succedesse qualcosa alla ragazza a cui voleva un bene dell'anima, e il terrore di sapere suo padre e Veronica là fuori, in un mondo in cui imperversava la follia di quel pazzoide. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
«Dovete fare quello che dovete fare!» disse Monica. «È inutile star qui a pensare e rimuginare. Se volete capire qual è il vostro compito e, soprattutto, se siete in grado di svolgerlo, là fuori è la migliore palestra. Vi prego, vi scongiuro! Andate a prendere quella ragazza e riportatela a casa. Lei...» ragionò in fretta se rivelare la presunta gravidanza; decise che era giusto lo facesse lei. «... ha bisogno di noi. Ha bisogno di me.»
Guardò di sfuggita Andrea. Avrebbe voluto aggiungere che aveva bisogno anche di lui, ma ancora ritenne più corretto non intromettersi del tutto nei loro affari.
Alessandro e Silvia tacevano, scambiandosi spesso occhiate impaurite. Era scontato che, se il gruppo avesse deciso di agire, Antonio sarebbe dovuto andare con loro; entrambi vedevano con chiarezza l'angoscia negli occhi dell'altro.
Ma come potevano impedire a loro figlio di fare quella cosa? Era giusto anteporre le loro esigenze di genitori, alla salvezza di una ragazza ora, dell'umanità poi? Non era proprio questo il nocciolo della questione?
D'istinto si presero la mano. Silvia tremava e anelava di essere abbracciata stretta dal marito, cosa che avvenne subito. E tra le braccia dell'uomo che amava, scoppiò a piangere tutte le lacrime represse fino a quel momento, sentendo che anche Alessandro non era riuscito a trattenerle.
Il chiacchiericcio diminuì all'istante, e tutti si misero a fissarli. Nessuno aveva pensato al fatto che tra di loro c'erano due genitori in ansia per le sorti del figlio, un ragazzo evidentemente più esposto al pericolo, vista la condizione di difficoltà che si portava appresso.
Antonio si gettò sui genitori a braccia aperte. Sebbene i suoi gesti e le sue parole ormai non sorprendessero più nessuno, quella volta fu diverso.
«Nooo... non mii... suuu... ccede...raaa nnn... niee... nte!» disse.
Poi li invitò a chinarsi, li baciò sulle guance umide e si diresse verso la porta. Scese nell'erba, si guardò attorno per un momento, poi si voltò.
«Annn... nddiaaa... amoo Vvv... Vuuueefff... fe?»
Silvia e Alessandro erano rimasti impietriti, a bocca aperta; persino le lacrime parevano essersi congelate a metà strada sulle gote. Avrebbero voluto salutare ancora il figlio, dirgli ancora di fare attenzione, fargli sapere quanto lo amassero, o solo stringerlo un'altra volta, magari più forte. Ma nessuno dei due si mosse, finché il ragazzino non sparì dalla loro vista.
Gli scrigni si fissarono per un momento, poi, in silenzio, uscirono dalla baita.
Angelica fece in tempo a bloccare per la mano Roberto e, appena si girò verso di lei, gli schioccò un veloce bacio sulle labbra, proprio davanti all'espressione esterrefatta di Andrea. Il ragazzo non disse nulla mentre il padre gli scompigliava con dolcezza i capelli, con lo sguardo più stupito di lui.
L'ultimo a uscire fu Enrico, con il volto contratto, l'indole di chi fa una cosa più per inerzia che per volontà, con l'unico pensiero che, partecipare al salvataggio di Camilla, poteva renderlo più appetibile ai suoi occhi. Non si rendeva conto di quanto l'energia, in lui, fosse latente, oltre che già debole di suo.
«Francy!»
Monica si accorse solo in quel momento di Francesca, avvinghiata ad Alberto con lo sguardo deluso, ascoltando le sue promesse di stare attento e tornare al più presto. Quando si sciolsero dall'abbraccio, lei si fiondò tra le braccia della sua seconda mamma, scoppiando ambedue in un pianto liberatorio di gioia. Alberto le fissava sorridendo, sentendo il peso che gli opprimeva il cuore, alleggerire per un attimo la tensione.
«Alby! Ci sei?» chiese Roberto, fermo sulla soglia, sforzando gli occhi a non ritornare per l'ennesima volta sul sorriso che Angelica gli stava regalando, un sorriso pieno di promesse future, del tutto inaspettate. Ma voleva evitare anche lo sguardo del figlio, appoggiato alle stampelle, proprio a fianco della donna, nella paura di scorgervi una qualche sorta di delusione o, peggio, di rimprovero.
«Eccomi!» rispose Alberto, mentre posava il taccuino di Franco sul pavimento, a fianco di Monica che, tra le lacrime felici che stava versando, notò il gesto.
«Tienilo tu» disse.
Poi rivolse un altro sorriso affettuoso a Francesca, quindi infilò la porta di corsa, seguito da Roberto.
Gli scrigni si diressero verso il sentiero, evitando, per quanto fosse possibile, di toccare le teste di quella povera gente; lo imboccarono e sparirono dietro la prima curva.
Nessuno di loro, né di quelli rimasti all'FDS, si era accorto che lo scudo abbassato da Monica non era stato riattivato.
Il panico cresceva dentro la bolla, di pari passo al caldo soffocante. Camilla sentiva la paura dentro di sé, quasi solidificarsi e impregnare l'aria già pesante che aveva intorno.
Aveva cominciato a sudare appena Monica era partita. Si era tolta subito la maglia, poi i grossi scarponcini e i calzini, godendo, solo per un attimo, del contatto tra i piedi nudi e l'erba. Infine, si era sfilata pure i pantaloncini, sentendo il sudore appiccicarsi alle cosce. Non osava andare oltre, sicura che già in mutande e canotta avrebbe potuto scatenare l'istinto sessuale di Masi, se fosse ritornato, oltre a quello omicida che già possedeva.
Scrutava il cielo di continuo, con ansia crescente, temendo di vederlo spuntare in lontananza, un piccolo punto che si sarebbe ingrandito man mano; o all'improvviso, da dietro la montagna. Si sentiva come un topolino rinchiuso in una gabbia, in trappola. E il senso d'impotenza, unito al terrore sottile che percorreva il suo corpo, la faceva tremare come fosse in preda alle convulsioni di una febbre cattiva.
Le pareti della prigione avevano assunto un colorito ora più rosato, come fossero state schiarite dal sole micidiale che bruciava nel cielo. Camilla vi appoggiò le mani più per un istinto improvviso che per ferma convinzione di fare qualcosa, aspettando di risentire la ruvidezza della gomma sotto i suoi palmi, o qualsiasi cosa fosse quel materiale che la separava dalla libertà.
Le sue dita, invece, affondarono in quella che pareva essere una bolla di sapone solidificata. Le vennero in mente le scatole di Crystal Ball, gioco che aveva adorato da bambina, sebbene non fosse della sua epoca. Un sorriso, più simile a una smorfia, comparve per un attimo sul suo viso. Si spostò, tastando tutto il perimetro, mentre la palla ondeggiava intorno a lei stimolata dal contatto. Sembrava decisamente meno solida di prima; era meno solida di prima. Camilla ne era sicura.
Non ci pensò nemmeno per un secondo. Indietreggiò, appoggiandosi con la schiena all'impalpabile velo; poi, con tutte le sue forze, si lanciò sul lato opposto, con le braccia protese in avanti.
Affondò nella sostanza elastica fin quasi a toccare il prato davanti a lei; se la sentiva premere ovunque, sulle mani, sul corpo, sul viso, come se avesse infilato la testa in un sacchetto di plastica. La bolla faceva resistenza e, allo stesso tempo, non pareva nemmeno in grado di respingerla indietro. Camilla ebbe la terribile sensazione di soffocare, temendo di rimanere incastrata in quella posizione senza riuscire più a liberarsi.
Poi, d'un tratto, la parete si spezzò, e lei ricadde in avanti sull'erba.
L'aria di montagna la raggiunse subito, facendole increspare la pelle sudata in puntolini di pelle d'oca. Era una sensazione meravigliosa.
Camilla si mise supina e, con la coda dell'occhio, vide la bolla sgonfiarsi e afflosciarsi come un palloncino bucato, rimpicciolendo man mano finché non svanì del tutto in un impalpabile sbuffo rosso. Cominciò a ridere, e più rideva, più si sentiva bene; finché non si ricordò di Masi.
Si alzò in fretta, guardando il cielo, temendo d'aver fatto troppo rumore e di essersi fatta sentire. Magari quell'uomo era lassù, da qualche parte, nascosto, pronto a ghermirla... Cosa fare?
Poteva correre sul sentiero e raggiungere la baita nella speranza di incontrare i suoi amici sulla strada.
"E se non succede? Se hanno deciso di abbandonarmi?"
Il sentiero correva perlopiù in mezzo al bosco, ma per lunghi tratti era ben visibile dal cielo. Masi avrebbe potuto scorgerla, e poi... Doveva trovare un posto al chiuso, protetto, magari poco illuminato. Ce l'aveva davanti agli occhi!
Entrò nella grotta con circospezione, rabbrividendo appena le piante dei piedi si posarono sulla fredda e liscia roccia.
"Masi è sbucato da qui, quando siamo arrivate" fu il pensiero che le arrivò d'improvviso.
Ma la grotta era vuota e silenziosa. Ai due lati le pareti correvano diritte, lineari, fino a perdersi nel buio che regnava sul fondo della spelonca.
Avanzò di qualche titubante passo, guardandosi intorno. Notò che, alla sua sinistra, il muro di roccia non era sempre uniforme; individuò una piccola rientranza, a circa trenta passi dall'ingresso. Era un muricciolo naturale che creava un piccolo andito, del tutto nascosto alla vista per chi stava all'esterno. Camilla vi si accucciò, ringraziando la buona sorte che il pavimento fosse liscio e abbastanza comodo anche in quel punto.
Si portò le ginocchia al petto, cingendole con le braccia, prendendosi i piedi tra le mani. S'impose di tranquillizzarsi e di ragionare con calma su cosa poteva fare e su come doveva agire.
Scivolò a poco a poco in un sonno pesante e profondo.
Il fiume precipitava giù dal grande salto, tra nuvole di vapore, sbuffi di improvvisi arcobaleni che nascevano nello stesso istante in cui morivano, e un muro psichedelico di scintillii. Il rombo, sordo e continuo, circondava la lunga barba bianca formata dall'acqua, tanto che la montagna appariva come un vecchio brontolone che si lamentava.
Pietro Masi si era fermato in volo a metà della cascata, tuffandosi dentro al ribollio schiumoso, certo che la forza dell'enorme getto, in un battibaleno, avrebbe spazzato via dal suo corpo la micidiale polvere che la grassona gli aveva lanciato addosso, ignorando fossero solo i resti del vecchio Franco de Simone.
La sua idea fu soddisfatta in parte.
Il residuo rimasto a sporcargli la pelle in superfice si sciolse nell'acqua che cadeva, ma quello penetrato nelle carni come vermi parassiti, non si mosse, continuando a tormentarlo come fosse trafitto da tanti aghi, tutti insieme. Provò a mettersi più al centro dello scroscio, lasciando che il fiume colpisse le braccia con tutta la sua violenza, ottenendo solo però l'aumento del dolore.
Dopo vari tentativi uscì dal raggio d'azione della cascata, imprecando forte; volò dabbasso, fermandosi sul greto dove l'acqua, ancora un po' agitata, già ricominciava a cinguettare placida.
Si guardò intorno e si sdraiò all'imboccatura di un sentiero che si perdeva in mezzo al bosco, chiudendo gli occhi, cercando di far confluire tutto il suo potere nel punto in cui il dolore più lo estenuava. Sembrava funzionare; il bruciore si attenuò un po', pur persistendo la spinta malefica.
I pensieri di Masi erano confusi e tumultuosi, trafitti dagli sparuti sentimenti di paura e di furore che esplodevano improvvisi e che rimescolavano il tutto, come se il rombo della cascata si fosse trasferito dentro di lui.
"Devo calmarmi!" si diceva. Doveva ritrovare quella sicurezza, quel fantastico senso di invulnerabilità che si era sentito addosso fin da subito, da quando Ismel era evaporato davanti ai suoi occhi, fino a quando la troia cicciona non gli aveva sparato contro quella merda polverosa.
Doveva stare calmo, ragionare, non essere avventato. Aveva l'energia dalla sua parte che già lo stava aiutando, fungendo da balsamo ai dolori che gli affliggevano ogni centimetro di pelle.
Trasse un profondo respiro, distese del tutto le gambe e abbandonò le braccia lungo il corpo.
Un'ombra oscurò per un momento il riflesso del sole che Masi percepiva da sotto le palpebre abbassate. Aprì gli occhi. La palla dorata era alta nel cielo, ma già sulla parabola discendente del suo percorso giornaliero; dovevano essere le prime ore del pomeriggio. Si mise seduto chiedendosi se si fosse addormentato, e quanto avesse dormito.
Un uomo e una donna erano in piedi sulla sponda del fiume. Si tenevano per mano.
Lui esibiva un mezzo sorriso, pencolante sotto a due occhiaie viola, talmente allungate verso il basso da deformargli il viso in una sorta di cupa imitazione della figura serpentiforme e urlante del disegno di Munch; lei aveva lo sguardo spento e un ghigno di disgusto che la attraversava da parte a parte.
Fu come se una corrente d'aria gelida avesse soffiato sulla faccia di Masi, tanto sentì intirizzire ogni muscolo; la pelle, sul cranio, s'indurì a tal punto da credere che qualcuno, alle sue spalle, lo tirasse per i capelli; il cuore fece un balzo in avanti andando in apnea per alcuni secondi, come il momento che passa tra il lampo e il tuono, dove tutto si immobilizza in attesa dello schianto.
Pietro fissava i suoi genitori, o la copia spaventosa di ciò che erano stati, mentre il terrore s'insinuava dentro di lui come un serpente nella tana del coniglio.
Si era illuso che non avrebbe mai più provato quei sentimenti tipici della debolezza umana, proprio lui che si era elevato al di sopra della bassezza, della mediocrità di quella razza; lui che era stato in grado di distruggere un essere supremo come Ismel, e che era capace di spazzare via tutto e tutti, in un attimo solo, come aveva fatto a Roma.
Eppure, aveva avuto paura quando aveva visto la potenza di fuoco che era stato capace di sprigionare quell'uomo all'FDS; ed era assolutamente pietrificato, ora che i suoi occhi tornavano a posarsi su quelle due persone tanto odiate. Aveva addosso la debolezza deprecata in Ismel; e, su questo, non era preparato.
In quel momento, però, Masi aveva un unico pensiero in testa: cosa gli avrebbero fatto i suoi genitori? Era la prima volta che si incontravano dopo che aveva ucciso Sabrina.
"Di cosa cazzo hai paura, pusillanime? Sei più forte... Alza le braccia e polverizzali!" pensava.
Ma le braccia non si sarebbero mai alzate, e lui lo sapeva. Non avrebbe fatto nulla, perché il terrore lo stava prevaricando; il terrore insito nel ghigno della sua dolce mamma, il terrore che nasceva dal profondo disgusto che la signora Antonella aveva sempre provato per quello che doveva essere un aborto, invece di un figlio. Nella sua mente Masi vedeva quel ghigno aprirsi e articolare parole che aveva sentito tante e tante volte.
«Riempilo di schiaffi, Tommaso! Riempi di schiaffi questo pezzo di merda e chiudilo in camera sua per due settimane!»
Ma nessuno parlò.
I due vecchi tacevano, Masi taceva. E tremava.
Sentì dei piccoli colpetti alla schiena, colpetti che gli provocavano piccoli dolori, localizzati e fastidiosi.
Subito non ci fece quasi caso, tanto era catturato dagli sguardi di suo padre e sua madre, languidi, assenti, se pur carichi di una subdola e perfida presenza che lui percepiva. Ma quando i colpi e il dolore si intensificarono, passando alle gambe e alle braccia, Masi si voltò, temendo cosa si sarebbe trovato davanti.
Sabrina era lì, a pochi centimetri da lui, e lo pungolava con un corto rametto appuntito. Aveva il sorriso radioso e odioso che le aveva visto spesso sulla faccia, e gli occhi, ingenui, carichi di quella speranza che esibiva spesso, quando voleva che il suo fratellone giocasse con lei, lo guardavano con una sorta di dolcezza che, lì per lì, riuscì ad alleggerire appena il cuore di Pietro dal pesante grumo che lo opprimeva.
La parte sinistra del cranio non c'era più, e quello che restava del cervello giaceva nel buco, annerito e marcito dagli anni, incrostato dal sangue secco e rappreso che lo circondava.
La vista era terrificante, ma l'odore...
Si sarebbe aspettato di sentire il puzzo tipico della carne in decomposizione, il tanfo penetrante di morte e di cadavere. Invece Sabrina odorava di talco, tanto talco, come se si fosse rotolata in una vasca colma di quella polvere bianca; ma il profumo, tanto intenso e avvolgente, assumeva una piega dolciastra e caramellosa, e s'infilava nelle narici di Masi come un coltello nel burro. Lo stomaco gli si rovesciò all'istante; tentò di trattenere il conato, ma quando la voce di Sabrina giunse a lui, vomitò liquido verde su tutto il ciottolato che aveva intorno.
«GIOCHIAMO, PI! DAI, DAI! GIOCHIAMO!» gridava, mentre continuava a tormentarlo con il rametto, infilandolo ovunque, pungendolo come fosse un grosso ago, mentre continuava a urlare.
A Pietro parve inizialmente la solita vocina che l'aveva sempre mandato in bestia; ma, pungolato di continuo dal legno, perforato da quei piccoli e sottili dolori lancinanti che il ramo gli procurava, si accorse di come l'inflessione fosse troppo acuta, persino per una bimbetta irritante com'era sempre stata sua sorella. La tonalità si alzava, a ogni "GIOCHIAMO", a ogni "PI" che quella stronzetta ripeteva, e la voce, in un attimo, tramutò in qualcosa di simile a una lama che lavorava adagio sui suoi timpani.
Nello stesso momento giunsero, alle sue spalle, le risate gracchianti dei suoi genitori, rauche, smodate, sporche, commistione perfetta di tutti i suoni più sgradevoli che si potessero udire, cariche di tutta la soddisfazione che provavano, che avevano sempre provato nel vederlo stare male, nel vederlo soccombere di fronte alla loro amata figliola.
Masi era del tutto inerme, del tutto incapace di opporre una qualsiasi resistenza alla vendetta di sua sorella, talmente ridicola e assurda nella sua modalità, da risultare terrificante.
L'unica cosa che l'uomo più potente del mondo poteva fare, era quella di mettersi le mani sulle orecchie, sperando di attutire quell'inferno di rumori vorticosi che gli sbattevano addosso più dolorosamente del rametto con cui Sabrina, ora con lo sguardo meno ingenuo, ma più cattivo, continuava a pugnalare la carne del suo fratellone...
Masi aprì gli occhi!
Il fiume gorgogliava sereno a pochi passi da lui, in contrasto con il rombo della cascata che rimescolava le acque; il sole continuava a spingere il suo calore, mentre nel cielo un paio di uccelli cinguettavano con allegria.
Aveva male dappertutto. La polvere gettatagli addosso pulsava nei recessi in cui si era infilata, bruciando e perforando la sua carne.
Guardò subito davanti a sé, ma la vista era libera. I suoi genitori non c'erano.
Poi si voltò, con il cuore in gola... Ma nemmeno di Sabrina si vedeva l'ombra. Aveva sognato, solamente sognato.
Si passò una mano sulla fronte sudata e si accorse, con un altro fiotto improvviso di terrore, di essersi addormentato proprio nel tratto finale del sentiero che stava percorrendo quel giorno, con suo padre e sua sorella. Era lì che sarebbero dovuti giungere, se lui...
Si alzò. La paura provata nel sogno si era tramutata in rabbia; il dolore che provava, insopportabile e continuo, la stava innalzando al furore, quello più puro, più esplosivo. Digrignò i denti e strinse i pugni.
«Ora basta, cazzo!» disse, a mezza voce. «Gli altri devono avere paura, non io!»
Si alzò in volo, sentendo tornare la determinazione e il senso di onnipotenza che aveva languito in lui per un po'.
«È ora di concludere questa storia. È ora che si rendano conto con chi hanno a che fare!»
Per un attimo pensò alla ragazza che aveva rinchiuso nella bolla, a cosa avrebbe potuto farle, a quanto si sarebbe divertito. Ma aveva bisogno di manifestare la sua onnipotenza su una creatura debole e indifesa? Era questo ciò che l'avrebbe portato a ottenere quello che voleva? Doveva cominciare ad agire, sul serio.
Si diresse, quindi, verso l'FDS, con l'idea e la convinzione di usare tutta la sua rabbia e la sua potenza per distruggere lo scudo del cazzo che la rinchiudeva.
"Lo annienterò! Ce la posso fare!" pensava. "Dopodiché scopriranno tutti cosa significa provare dolore..."
La sorpresa fu doppia.
Scoprì che la casa dei suoi nemici era proprio sopra di lui, poco distante dalla cascata. Ma, ancor più sorprendente fu vedere che non c'era più nessuna bolla che la proteggeva.
Masi riconobbe il punto del fiume in cui si era risvegliato, appeso a un tronco che non c'era più, e il sangue gli ribollì ancora più forte per la rabbia.
Ora, l'FDS e i suoi abitanti, erano alla sua mercé.
Atterrò nel prato, a metà strada tra la baita e la rimessa del treno, esibendo un ghigno selvaggio, carico di entusiasmo e di lasciva eccitazione che si riversava sul suo pene, osceno nelle dimensioni e nella sua non curata nudità.
Contemplò con soddisfazione la distesa di teste, ancora dove lui le aveva fatte cadere, e respirò a pieni polmoni l'odore di putrefazione e di morte che aleggiava tutt'intorno. Gli pareva di non avere mai annusato un odore più buono e si sentì ancora più rinvigorito, caricato, eccitato.
Fece schioccare il collo e, con tutta la calma del mondo, si avviò verso l'ingresso.
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