55 - L'ACRONIMO DELL'ACROSTICO (2)
Il gruppo era ancora tutto radunato nella stanza di Andrea quando Veronica e Monica, seguendo Alberto, entrarono.
«È ora di cominciare a fare qualcosa» spiegò, soprattutto al viso perplesso della ragazzina, «e il primo passo è che tutti vedano cosa Franco ha preparato per noi.»
«E noi tutti non vediamo l'ora di rendere la nostra esistenza ancora più spicy!» pronunciò puntuale Ando sogghignando e prendendosi, altrettanto puntualmente, le occhiatacce di sua moglie e di Franco.
«Io vado su alla radura per spargere le ceneri dell'ingegnere» disse Monica. «Camilla, Angelica, anche Silvia se vuole. Vi va di accompagnarmi?»
«Noi vogliamo restare con nostro figlio, se non è un problema» rispose Silvia, dando un'occhiata veloce al marito.
«E oltre questo, vorrei veniste giù entrambi» s'affrettò ad aggiungere Alberto.
«Qualcuno dovrebbe restare qui, però» s'intromise Roberto. «Non tanto per mio figlio, ma almeno per Francesca.»
«Sì, è meglio non lasciarla sola.»
«Poi dovremmo decidere cosa fare con lei, dottore» disse Alberto, scurendosi in viso.
Alessandro annuì senza troppa convinzione, mentre Angelica si alzava in piedi.
«Resto io! Puoi andare tu con Monica, Camilla. Se ti va.»
La ragazza la guardò, poi girò il volto verso Monica.
«Vuoi venire?» chiese la donna.
Nella mente di Camilla balenò un'idea e, senza esitazione, fece sì con la testa.
«È la stessa radura del racconto?»
Monica e Alberto annuirono in contemporanea.
«Bene! Sono curiosa di vederla.»
«Io avrei una cosa da dire, finché siamo tutti qui.»
Veronica s'accorse di essere arrossita non appena i visi degli altri, all'unisono, si erano voltati verso di lei, come se si fossero messi d'accordo; ma reputava quello che aveva da dire molto importante, non tanto per combattere Masi, e nemmeno per sperare di sconfiggerlo, ma almeno per tentare di unire quel gruppo di persone ritrovatesi insieme per caso, a cui veniva chiesto di compiere cose molto più grandi di loro, a cui serviva come l'aria imparare a conoscersi, cominciare a fidarsi e, soprattutto, a volersi bene. Serviva qualcosa che li facesse diventare una famiglia, disposti a morire ognuno per l'altro. E lei poteva darglielo.
Esitò un paio di secondi, come in attesa di sentire un "Dicci" o un "Sì" che le desse la spinta giusta per superare quel piccolo momento di impasse. Nessuno parlò, tranne Antonio.
«Vuuu... Eff... fe!» disse, col sorriso più radioso che potesse uscirgli sulle labbra, come succedeva ogni volta che il suo sguardo s'incrociava con quello di Veronica. La ragazzina ricambiò, annuendogli.
«Figa di biscia! Si può sapere che diamine significa 'sto vu effe, o quello che è? Vigili del fuoco?» sbraitò Ando, la cui arroganza e antipatia si erano ormai stampate nel cuore di tutti, rendendo ancora più complicato, nel suo caso, guadagnare l'empatia che Veronica auspicava.
Cata aveva raggiunto il limite. Sentì la rabbia montarle dentro, i muscoli indurirsi per il nervoso, il cuore farsi pesante e lacrime di dispiacere e vergogna depositarsi in fondo agli occhi, pronte a colare fuori. Aprì la bocca per iniziare quella che sicuramente sarebbe stata una brutta litigata, nefasta per il gruppo, proprio ora che parevano sul punto di iniziare... "qualcosa", ma assai pericolosa anche per il loro rapporto.
Veronica la anticipò, stoppando, per il momento, fastidiosi grattacapi.
«VuEffe è il nostro nome!» disse, tutto d'un fiato. «È il nome del nostro gruppo. È il nome dei nove scrigni! E noi dobbiamo riuscire ad amalgamarci tutti insieme, per salvare il mondo e per onorare Franco, che ci ha riuniti e ci ha dato questo nome, anche se senza volerlo.»
Monica fece un passo avanti e le piantò in faccia due occhi spalancati.
«Franco vi ha dato un nome?»
«Spiega meglio, Vero» la incalzò Alberto.
«VuEffe è un acronimo. Credo sappiate tutti cos'è un acronimo, vero? È una sigla formata dalle iniziali di altre parole.»
Ando sbuffò. «Ehi, little child! Siamo grandi! Le sappiamo le cose, sai?»
Andrea si sollevò sui gomiti, rosso in viso. «Che cazzo di risposta è? Sta solo spiegando!»
«Il ragazzo ha ragione!» intervenne Trudi. «La devi smettere con questo atteggiamento...»
«Io non sapevo cosa significasse, per esempio...» disse Camilla, mentre Cata fissava torva il marito, facendo lunghi respiri.
«Va bene, va bene...»
Veronica cercò immediatamente di smorzare i toni. «Non fa niente, sul serio. Sono sempre stata appassionata di queste cose: enigmistica, giochi di parole, anagrammi...»
Riuscì a riottenere una parvenza di silenzio e attenzione, che tornò totale appena riparlò.
«VuEffe è l'acronimo di Vera Faber! Vera era la mamma di de Simone e, da quello che mi ha raccontato Monica, la donna che l'ha fatto diventare ciò che è stato. Faber, invece...»
«Fabrizio De André!» la interruppe Roberto.
«Esattamente. Fabrizio De André. Il cantautore preferito di Franco, e anche il mio.»
«Idem! Io e Lina l'adoriamo... l'adoravamo...»
La correzione salì sulle labbra di Roberto senza quasi se ne accorgesse, mentre guardava con occhi tristi il figlio, il cui sguardo suggeriva lo stesso dolore che stava pungolando il padre.
Angelica, ormai incapace di staccare gli occhi dall'omone, notò la triste complicità presente in quel momento tra padre e figlio e non poté non sentirsi rattristata, nonostante il suo cuore battesse forte, come quello di un'adolescente.
«L'autore delle musiche che aiutavano l'ingegnere a inventare e risolvere i problemi» continuò intanto Veronica. «Sono sicura abbia avuto un ruolo fondamentale anche quando ragionava sull'energia.»
Andrea riuscì ad accennare un sorriso, per quanto scarno, quando apprese che la sua Veronica adorava lo stesso cantante amato dai suoi genitori, la stessa musica che aveva dovuto sorbirsi durante tutte le cene, tutti i viaggi, a volte messa su senza motivo, durante le domeniche pomeriggio o le sere in cui suo padre e sua madre non avevano voglia di vedere nulla di particolare alla televisione. Aveva sempre sentito dire che più ascolti una musica, più ti piace. De André, a lui, aveva sempre fatto l'effetto opposto.
«E non è tutto...» proseguì Veronica.
Lasciò la frase in sospeso, sorridendo. Nessuno poteva negare fosse bella, bella come il più intenso momento di felicità che ognuno di loro avesse mai provato. Andrea sentiva il battito del cuore accelerare sempre di più, ogni volta i suoi occhi si posavano su di lei.
«Cioè?» chiese Beatrix, del tutto catturata da ciò che stava sentendo.
«Vera Faber, a sua volta, è un acrostico, che immagino sappiate tutti cosa sia... Ando?»
L'uomo fu preso alla sprovvista; avvampò, sia di vergogna, sia di rabbia, ma si contenne e si limitò a scuotere la testa.
Veronica fu molto tentata di chiedergli come mai, lui che era "grande", non conoscesse quella parola, ma si trattenne. Non aveva senso attizzare una discussione, proprio lei che aveva spento con un soffio la piccola scintilla che stava per accendersi poco prima.
«L'acrostico è un acronimo la cui sigla risultante è una parola di senso compiuto. Nel nostro caso, due. Vera e Faber!»
«Quindi stai dicendo in pratica che anche Vera e Faber sono acronimi?» chiese Roberto. «E di...»
«Veronica, Eleonora, Roberto, Antonio, Franco, Alberto, Beatrix, Enrico, Rodolfo!» elencò, tutto d'un fiato.
Per qualche secondo nessuno disse niente. Sembrava che stessero tutti trattenendo il fiato.
«È impossibile!» disse infine Angelica.
«Cosa? La coincidenza?»
«Caterina mangia il pesce... Com'era Roby, quella cosa sulle coincidenze che hai detto l'altro giorno?» chiese Alberto.
«Caterina vende il pesce in re maggiore! È un aneddoto raccontato, tanto per cambiare, da De André» spiegò Roberto, vedendo gli sguardi di tutti adombrarsi di perplessità.
Ando assunse la solita espressione sarcastica, quella che comunicava una certa derisione, anche quando, magari, non era il suo specifico intento.
«E cioè?» domandò, spingendo nel tono di voce alcuni schizzi di ciò che si era dipinto in faccia.
«Oh... È riferito all'album "Creuza de mä", quello scritto completamente in genovese. Sono andati al mercato del pesce di Genova a registrare le voci dei veri venditori ambulanti, per inserirle nel disco, e quando sono tornati in studio hanno scoperto che la tonalità con cui tale Caterina gridava i richiami per i clienti, era in re maggiore. Proprio la stessa tonalità della canzone a cui volevano associare la cosa! È una coincidenza incredibile! E io e Lina usavamo dire sempre che Caterina vende il pesce in re maggiore quando ci imbattevamo in una casualità, come questa dei nostri nomi.»
Tutti sorrisero, tranne Ando, il cui ghigno nascondeva probabilmente una battutaccia delle sue che, per fortuna, tenne per sé.
«In effetti, è parecchio assurda!» precisò Beatrix.
Alberto si appoggiò al muro, incrociando le braccia e sbuffando.
«Soprattutto se pensi che alcuni di noi non erano nemmeno scrigni, in origine.»
«Come mio padre!» esclamò Andrea, cui Roberto fece l'occhiolino.
«Franco saprebbe spiegarci...»
«Non credo ci sia nulla da spiegare» sentenziò Veronica. «L'energia ci ha condotti qui, dove Franco ci voleva. Poi, che le iniziali dei nostri nomi compongano le due figure più importanti della sua vita, possiamo anche classificarla a coincidenza. Non è importante.»
«È vero, però è incredibile!» continuò Beatrix, il cui argomento sembrava averla catturata in modo particolare. «Per la A di Faber hai detto Antonio perché Franco ci ha detto che lo scrigno è lui. Ma, se fosse stato il suo papà, visto che è uno dei nove guariti, non sarebbe cambiato nulla. Il giochino avrebbe funzionato lo stesso!»
Roberto sbuffò. «Quest'energia sembra viva e pensante. Sembra ci abbia scelto con criterio. Se non fosse che in realtà è stato Nicolas a scegliere chi guarire...»
«Oh, Roby. Non credo sia stato lui» lo interruppe Alberto. «Io credo che l'energia, in qualche modo, sapesse... Credo abbia fatto in maniera che Nicolas guarisse quel tizio che ha rapinato il bar, perché sapeva che poi, in qualche maniera, il suo potere sarebbe andato a te. E lo stesso con... il mio amico, nel bosco.»
Lanciò una veloce occhiata a Veronica che abbassò, per un momento, lo sguardo.
«E sono sicuro che la questione riguarda tutti noi! E Franco lo sapeva...»
«Ma l'ingegnere non c'è più, Alby...»
Tutti gli sguardi s'indirizzarono su Monica, i cui occhi luccicavano e tremolavano.
«Tutto quello che... VuEffe, può e deve fare, tutto quello che voi, nove scrigni, potete fare ora, è accettare il compito assegnato e combattere. Magari vincere, anche!»
«Ben detto!» esclamò Trudi, battendosi un pugno sulla mano, mentre la moglie annuiva con lo sguardo deciso.
«Sì!»
Veronica strinse i pugni; Roberto sorrideva, nonostante lo sguardo preoccupato di Andrea mentre li osservava; Camilla gli lanciava continui e veloci sguardi, infastidita da quelli che intanto riceveva da un sempre silenzioso Enrico.
Anche Cata si sentì d'un tratto galvanizzata da quel barlume di entusiasmo che si era sparso nella stanza e, senza pensarci, prese e strinse la mano di Ando tra le sue, guardandolo con intensità, felice di condividere una situazione di tale portata con l'amore della sua vita. Lui ricambiò il sorriso, ma era più tenue, tirato fuori con sforzo.
«Quindi... per capire...» disse, scettico come al solito, per nulla entusiasta, «VuEffe sarebbe il nome del nostro gruppo?»
La moglie gli strinse la mano più forte. «Sì, tesoro!» sussurrò, guardandolo fisso, sperando di indurlo a non aggiungere nessuno dei suoi salaci commenti.
«Vvv... vu! Efff...» strimpellava intanto Antonio, facendo piccoli saltelli sul posto. Sembrava contento, anche se era complicato discernere una reale emozione su quel viso, quasi costantemente illuminato da un sorriso.
Faceva da contraltare con le espressioni dei suoi genitori, soprattutto con quella della madre. L'entusiasmo improvviso e dilagante era, alle sue orecchie, il segnale di via alla missione vera e propria, a cui doveva partecipare anche suo figlio. "Doveva", sì. Perché sia lei, sia Alessandro, avevano capito che ormai, dal treno non si scendeva più.
Da alcuni giorni nella testa di Silvia apparivano sprazzi di quel sogno, di quella visione avuta quando ancora erano a casa loro. Suoni, luci che andavano e venivano; l'ombra di qualcosa sull'erba; e quella sensazione piena di orgoglio da un lato, ma satura di paura dall'altro, che le faceva friggere ogni fibra e le dava un senso di agitazione costante.
La crisi che Antonio aveva avuto la sera prima non aveva fatto altro che accentuare il suo stato d'animo, in bilico sulla disperazione; la riunione era stata un lento e gravoso scivolare verso quello a cui avrebbe egoisticamente voluto non si arrivasse: il momento di cominciare.
E quando Alberto, trainato dall'inaspettata eccitazione che pareva essere nata nel gruppo, disse a tutti di seguirlo verso l'ascensore dentro alla fabbrica, i timori e le preoccupazioni di Silvia si fusero insieme in una spessa bolla di vero e puro terrore, che cominciò a pulsarle nella testa, nel cuore, nello stomaco.
Monica portò ad Andrea un paio di libri, dal momento che Alessandro ancora non permetteva al ragazzo di alzarsi, ma pure un paio di stampelle, per quando il permesso sarebbe arrivato.
Poi, presa con sé Camilla, la condusse di sopra nella propria stanza, permettendole di scegliersi abiti comodi per quella che sarebbe stata senza dubbio una faticosa e calda camminata.
La ragazza si cambiò, si infilò gli scarponcini che Monica le aveva dato e ridiscese di sotto. Gli altri si erano già avviati verso l'ascensore dell'FDS e Angelica, su richiesta sia di Alessandro, sia di Alberto, era seduta su una sedia, pure lei con un libro in mano, nella stanza di una sempre più apatica Francesca.
Visto che Monica era ancora al piano di sopra, Camilla decise di rientrare nella camera di Andrea, immerso nelle prime pagine di "Cujo".
«Hai bisogno di qualcosa?» chiese, intimidita come se non lo conoscesse, e stesse solo tentando un impacciato approccio.
Il ragazzo sollevò gli occhi dal libro e sorrise.
«No, grazie. Anzi... Hai per caso un piede che ti avanza?»
Camilla riuscì a sorridergli, anche se la battuta poteva nascondere tutto un mondo di tristezze e un futuro da affrontare in modo senza dubbio più complicato, per lui. Ma lo vedeva sereno nonostante l'incidente e nonostante avesse appena perso (per la seconda volta!) la madre. Era veramente dotato di uno spirito molto forte e, ai suoi occhi innamorati, questo accresceva ancor di più il forte sentimento che provava.
«A più tardi» gli disse e si voltò, per rientrare in sala e attendere Monica.
«Camilla, aspetta»
La ragazza si bloccò.
«Mi dispiace per come sono andate le cose, sul serio»
Lei non disse nulla.
«Sono stato sempre bene con te» continuò Andrea. «Divinamente bene. È solo che Ve...»
«Non importa. Mi passerà.»
Camilla non aveva certo intenzione di risentire discorsi su Veronica e, ancora, tentò di uscire dalla stanza, ma Andrea non aveva finito.
«Fate molta attenzione, là fuori. Non t'azzardare a non tornare!»
La ragazza non riuscì a capire cosa le passò per la testa in quel momento, nemmeno ripensandoci in seguito. La premura di Andrea, tanto sincera quanto dolce, le rimescolò lo stomaco e le cosparse la pelle di brividi.
S'avvicinò al letto, quasi in trance, senza distogliere lo sguardo da quello un po' allarmato del suo amato; scostò il libro, si chinò e lo baciò, con passione e trasporto. Lui rispose senza indugio e le loro lingue s'intrecciarono in quello che fu un bacio lungo e soddisfacente.
Quando Camilla si staccò, Andrea era a occhi chiusi. Si sentiva stordita, contenta, molto confusa.
"Dice di amare Veronica... Ma non ha avuto alcuna esitazione a rispondere al mio bacio!"
E, da quello che poteva vedere, era sicura non si sarebbe tirato indietro nemmeno se il suo approccio fosse stato più diretto.
Sorrise, gli accarezzò il viso e, con una mossa fugace, la grossa eccitazione che rigonfiava i pantaloni del pigiama. Poi si voltò e uscì dalla camera.
Monica l'attendeva in sala.
«Ho preso qualche panino e dell'acqua» disse, indicando il grosso zaino che teneva sulle spalle. «Per il pranzo degli altri, ho lasciato detto ad Angelica. Andiamo?»
Camilla annuì.
Uscirono all'aperto. Il riverbero dello scudo le costrinse a strizzare gli occhi per alcuni secondi. L'aria era calda e resa più afosa dalla grande protezione che le circondava.
Si diressero verso destra, attraversando il prato che si distendeva davanti alla baita e all'FDS. Raggiunsero la parete arancione e Monica estrasse il piccolo telecomando preso da una delle tasche di de Simone; ce n'era un altro, lasciato ad Alberto.
Pigiò il pulsante, guardandosi attorno guardinga. La bolla cominciò a dissolversi dal basso.
«Vieni! Veloce!» intimò a Camilla, appena davanti a loro ci fu lo spazio necessario per passare. Dopodiché, uscite, rispinse il tasto, facendo richiudere il pertugio alle loro spalle.
Monica scrutò il cielo; il cuore le batteva forte al pensiero di scorgere qualcosa che non voleva scorgere. Ma, intorno a loro, tutto era tranquillo e gli unici rumori che si sentivano, erano i richiami degli uccelli che si inseguivano nell'aria, e il sordo rimbombo dello scroscio dell'acqua che si gettava giù per lo strapiombo.
«Andiamo!» disse.
Coprirono in fretta l'ultimo tratto di prato e s'infilarono su per il "Panoramico", sparendo alla vista.
I VuEffe, più i coniugi Gallo, dovettero scendere al livello -2 in tre gruppi, dal momento che l'ascensore non poteva portare undici persone tutte insieme.
Enrico, Cata, Silvia e Antonio furono i primi; Franco, Beatrix, Alessandro e Ando, i secondi.
«Spero che la vista di quello che c'è laggiù, non smorzi questo improvviso entusiasmo!» disse Alberto, sorridendo a Roberto e Veronica, mentre attendevano che l'ascensore risalisse.
«Preparami, Alby?» chiese Veronica. «Cosa ci ha costruito Franco?»
Le porte dell'ascensore si aprirono.
«Ormai dirlo non ha senso. Stai per vederlo con i tuoi occhi!» rispose, facendo cenno con la mano alla ragazzina e a Roberto di entrare.
«Una meraviglia! Sul serio!» disse quest'ultimo, sarcastico.
Alberto sorrise mentre pigiava il pulsante.
«Sapevamo dall'inizio che quello che ci viene chiesto di fare non è una passeggiata».
«Ma un conto è parlarne, un conto arrivare a farlo di persona!»
Alberto fissò Roberto. Scorgeva nei suoi occhi la paura, di un tipo che non gli aveva ancora visto. Ma non lo biasimava per nulla. Come avrebbe potuto?
Fece per aprire la bocca e rispondere, ma s'interruppe non appena le porte si riaprirono. Ando era in piedi, davanti a loro, mentre Cata, al suo fianco, pareva lo stesse implorando.
«Voi siete fuori di testa! Del tutto suonati!» disse, ignorando la moglie ed entrando nella cabina, mentre i tre ne uscivano.
«Ando! Ma che...» provò a dire Alberto.
«Vaffanculo!» fece in tempo a sentire, mentre le porte si richiudevano.
"Se pensano che io m'infili in uno di quei cosi, non hanno capito proprio un cazzo!" pensava Ando, mentre marciava con passo pesante fuori dall'ascensore, s'infilava per la porta che collegava alla baita e percorreva il corridoio. Sentì la voce di Angelica passando davanti alla prima camera e, con la coda dell'occhio, intravide il ragazzo senza gamba intento a leggere nella seconda. Ignorò entrambi, sbucò nella sala e si fermò accanto al tavolo.
Stava piangendo, ed era il motivo principale per cui si era affrettato a sgusciare via, appena aveva visto con i propri occhi quello che gli veniva richiesto di fare.
Nessuno doveva vederlo piangere! Franco, Beatrix... Tantomeno sua moglie. Sarebbe stato come ammettere di avere paura. Cosa vera, in realtà! Una paura matta! Paura di morire! Paura che morisse sua moglie!
"E succederà, se continuiamo su questa strada. Ma cosa credono di poter fare, quelli là? Non siamo piloti, non siamo soldati!"
D'un tratto si sentì soffocare. Corse alla porta e uscì, ma fuori dalla baita l'aria era come viziata, calda, molto umida. Un brivido gli corse giù per la schiena, mentre qualcosa saliva su per lo stomaco.
Fece appena in tempo a scendere dal porticato e vomitare la colazione nell'erba. Si sentiva uno straccio e non riusciva a smettere di piangere. Il contrasto tra ciò che sapeva fosse giusto fare, ma che non aveva assolutamente il coraggio di fare, lo lacerava.
Avanzò di qualche passo nel prato, poi si lasciò cadere nell'erba, a faccia in su. Respirava in modo profondo e fissava il tetto di quella dannata cupola arancione. Avrebbe avuto bisogno di vedere il cielo, in quel momento, e di respirare l'aria fresca di montagna.
Gli tornò in mente la vacanza fatta tre anni prima in Val di Fassa, ad agosto; una settimana, lui e sua moglie, in mezzo a quelle splendide vette, senza pensieri, senza affanni, senza nessuno che disturbasse. Era stato bellissimo, rilassante, come ogni momento che aveva sempre passato con lei.
"Perché mai dovremmo buttare tutto nel cesso? Dovremmo distruggere la nostra vita per... chi?" cominciò a pensare. "L'umanità? E chi ci dice sia rimasto qualcuno? E comunque... chi è sta gente? Perché dovremmo rischiare la vita per chi nemmeno conosciamo? Quando mai, qualcuno ha fatto qualcosa per noi?"
Forse, potevano fuggire. L'idea gli venne improvvisa. Potevano rubare il treno e tornare alla villa, prendere il furgone e andarsene. Lui e Cata.
"E Masi? Il mondo potrebbe non tornare più quello di prima, se un uomo di quella sorta, vince..."
Scosse la testa, come per scacciare il pensiero.
"Ma questo uomo, c'è veramente? È sul serio così pericoloso?"
Lui, in effetti, non l'aveva mai visto. Tutto era basato solo sulle parole di un vecchio, ormai morto.
"E poi, se anche fosse tutto vero... Che cazzo gliene frega a uno così di me e mia moglie? Avrà progetti molto più importanti, che preoccuparsi di due singole e insignificanti persone, no?"
Non sapeva bene a chi stesse facendo quelle domande, ma la convinzione saliva in lui come lava in un vulcano in eruzione.
L'unico problema poteva essere convincere Cata; quando si faceva abbindolare, era difficile riuscire a smuoverla. Ma poteva farcela. Doveva farcela.
Si mise seduto, strofinandosi gli occhi.
Fu in quel momento che tutto si fece ombra. Il prato divenne scuro, come se all'improvviso qualcuno avesse steso un enorme telo sulla cupola.
Guardò in alto e il cuore sprofondò, come se d'un tratto, dentro il suo petto, non fosse rimasto niente a sorreggerlo.
C'era qualcosa di immensamente grande che veleggiava poco più su della cima della bolla, qualcosa di nero che oscurava il sole.
Di primo acchito credette fosse un dirigibile, poi riuscì a mettere a fuoco, piano, e vide che era una sorta di palla rossa; sembrava stesse rallentando. Anzi, ne era sicuro. Si era bloccata, proprio sopra il punto più alto della cupola.
«Che cazzo è?» disse a mezza voce.
Si guardò intorno spaventato, come mai era stato in vita sua.
D'un tratto gli parve di essere tornato a Piombino, dentro a quel fabbricato dove si era immaginato tutta una serie di mostri pronti a ghermirlo. Là era stata solo fantasia, plagiata dall'angoscia che stava vivendo. Ora, invece...
Poi, lo vide! Era a fianco della rimessa del treno.
Grande, troppo grande per essere un uomo normale; nudo, muscoloso in una maniera impensabile. Ma era il suo ghigno la cosa peggiore. Una stortura nella faccia, intrisa della perfidia più pura. Ando la vedeva, riusciva a scorgere una cattiveria, una malvagità che andava al di là di ogni razionalità, di ogni comprensione.
Era Masi, non ne aveva dubbi, anche se era la prima volta che lo vedeva. Stava osservando il vero male incarnato!
Un forte calore si accese dentro di lui, e si irradiò per tutto il corpo, bloccandosi, veloce come era venuto. Ando se lo sentiva sotto la pelle, come fosse in attesa di un suo cenno. Ma lui non sapeva cosa fare. Era pietrificato dal terrore.
«Questa è Roma!» disse Pietro, con una voce profonda e cavernosa che pareva provenire direttamente dalle viscere più infime e dimenticate dell'inferno.
Alzò le mani in aria. Ando le seguì con lo sguardo, e vide l'enorme sacco squarciarsi e dissolversi come fumo nel vento.
La luce del sole tornò a brillare per un'infinitesima frazione di secondo, poi tutto si scurì di nuovo, mentre una cascata di "cose" cadeva giù, scivolando su ogni lato della cupola, sfrigolando ogni volta toccava le pareti arancioni.
Ando sbarrò gli occhi, sentendo la gola serrarsi in una morsa potente. D'un tratto si sentì circondato da quella che pareva essere una vera e propria pioggia, densa e nera, intorno e sopra a tutto la superfice della bolla. Una pioggia più consistente del normale, una pioggia che pareva viva.
L'orrore si conficcò in lui, come se qualcuno gli avesse appena scagliato addosso un pugnale. Erano teste! Teste umane, a centinaia, a migliaia. Dal lato del fiume molte caddero in acqua ma, dall'altra parte, rimbalzavano sull'erba, ammucchiandosi, alcune carbonizzate, altre integre, mostrando tutto il raccapriccio, la mostruosità, l'oscenità, l'atrocità, l'abominio insito negli sguardi vuoti di quelle persone.
Il sole tornò a brillare dopo pochi secondi, quando l'orrifico spettacolo finì.
Le lacrime erano tornate a scendere sul viso di Ando che, senza accorgersene, si stava dirigendo verso la parete della cupola. Nemmeno la mente umana più perversa, poteva immaginare una scena così agghiacciante.
Arrivò al muro e si inginocchiò, fissando le teste senza vita di quella povera gente, inorridendo senza riuscire a distogliere lo sguardo.
Osservava gli occhi di un bambino, la cui testolina, evitata la bruciante parete della cupola e caduta nell'erba, era rimbalzata vicino allo scudo. Aveva i capelli ricci, biondi, non poteva avere più di cinque anni. Nel suo sguardo, Ando leggeva la disperata ricerca della mamma, mentre capitava qualcosa che la sua tenera età non poteva comprendere.
Non riuscì a trattenersi e un urlo di disperazione gli uscì dalla bocca, lanciato verso l'alto come una freccia scoccata dall'arco. E quando l'eco del suo dolore tornò a lui, Masi cominciò a ridere.
Ando si voltò. Si era quasi scordato della sua presenza.
La prima reazione fu di paura, rinnovata, nel vederlo e nel sentire quella voce diabolica. Poi, subentrò il disgusto, profondo e sviscerale. Infine, la rabbia che, a poco a poco, si tramutò in furore.
Il calore ravvivò con prepotenza, e d'un tratto Ando scoprì di poterlo controllare. Chiuse gli occhi e spinse in fuori, sentendosi forte, invincibile, clamorosamente bene. Tutto era sparito intorno a lui; non percepiva più nulla, né suoni, né luci, né quell'insopportabile umidità. Sentiva solo l'energia scorrere in lui e propagarsi, circondandolo come un alone.
Non seppe dire quanto durò: un minuto, forse due. Ma, quando si calmò e la potenza sprigionata si affievolì aprì gli occhi ancora pieni di lacrime, con un vigore nuovo addosso, come se si fosse appena svegliato da un sonno appagante e ristoratore. Era come se il potere dentro di lui, l'avesse ripulito dal... sé stesso "sbagliato".
Si alzò in piedi, lo sguardo fisso sulla rimessa del treno.
Non c'era più nessuna traccia di Masi.
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