55 - L'ACRONIMO DELL'ACROSTICO (1)
La notizia della morte di Franco lasciò tutti sgomenti; anche gli ultimi arrivati, che di fatto l'avevano conosciuto solo tramite la lunga riunione della sera prima, erano sconvolti.
Ando, appresa la notizia, aveva cominciato a camminare avanti e indietro per la sala, fissando fuori dalla finestra quando vi si trovava dirimpetto, e gli occhi di Cata, quando si voltava dall'altra parte. Non voleva ammetterlo neppure a sé stesso, ma si sentiva piuttosto in colpa per quanto gli aveva rotto le palle la sera prima, consapevole per giunta di farlo. Ma se sul momento aveva ritenuto necessario dover esporre i suoi dubbi, le sue perplessità, le sue idee, (ed era pure divertente constatare il fastidio che recava agli altri), ora era vinto dai rimorsi, immaginando le fatiche supplementari causate al vecchio mentre, tra le innumerevoli interruzioni, tentava di dire loro tutte le cose che aveva in testa.
Appresa la notizia, Veronica era corsa nella stanza di Andrea per piangere le sue lacrime appoggiata al suo petto, mentre Camilla, consapevole di essere stata l'ultima a vedere l'ingegnere vivo, era seduta sul piccolo sofà posto in un angolo della sala, con le ginocchia al petto trattenute dalle braccia, e i talloni sul cuscino della seduta.
Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, senza prestare attenzione a nulla in particolare, provando quella sensazione illusoria a cui lei era purtroppo abituata; era piombata di nuovo in quella specie di limbo dove la realtà pareva mischiarsi con i sogni, sogni che non ricordava nel modo più assoluto d'aver mai fatto, ma che si incrociavano nella sua mente con la realtà, come raggi laser sparati nello spazio.
Dentro la sua testa era tutto un turbinio delle frasi sentite alla riunione, dei momenti d'intimità con Andrea, interrotti da Veronica che lo baciava, come li aveva visti fare alla villa. E poi i suoi genitori, Giò che volava nella bolla, e ancora Andrea che la accarezzava, e di nuovo si baciava con la ragazzina, e Franco che parlava di Masi, Ando che rideva, e Andrea, Veronica, Franco, Alessandro, Giò, Andrea, Veronica, Veronica, Andrea...
Piegò la testa in avanti, con gli occhi chiusi, cercando di bloccare quel tortuoso flusso che le stava facendo tornare la nausea; ci riuscì, vedendo d'improvviso lei stessa, seduta insieme ad Alessandro proprio sul sofà dove stava ora.
"In genere devono passare dai sette ai dodici giorni prima di poter effettuare un qualsiasi test", le stava dicendo.
Quella conversazione non era ancora avvenuta, le pareva.
Poteva esserne del tutto sicura?
Rialzò la testa, sentendo lacrimare gli occhi per lo stordimento che provava, ora al punto massimo. E scorse, con la coda dell'occhio, Enrico incantato a rimirarle i piedi che sbucavano dai pantaloni del pigiama ancora indosso.
La bolla in cui si sentiva rinchiusa scoppiò, le spiacevoli sensazioni d'impotenza svanirono, lasciandole solo il solito disgusto per l'osceno ciccione e per i contorni che assumeva la sua espressione, ogniqualvolta posava gli occhi su una qualsiasi parte del suo corpo. Camilla era schifata, e anche arrabbiata.
Possibile che anche in un momento di lutto così profondo, in mezzo a persone che stavano soffrendo (gli occhi di Monica, mentre dava loro la notizia, ancora le straziavano il cuore), e con la paura che cresceva serpeggiando dentro a tutti, paura di non saper cosa fare, ora che la loro guida, la mente che per anni aveva studiato un piano d'attacco, si era spenta per sempre, quel patetico essere maniaco avesse occhi solo per un paio di piedi nudi?
"Biasimalo pure, cocca! Ma ti ricordo che tu ti sei scopata Andrea non tanti minuti dopo aver sparato a una bambina!" pensò, vergognandosi di sé stessa, forse più di quello che avesse fatto fino a quel momento.
In effetti era vero! Si poteva soprassedere sull'amplesso avuto in quella casa, durante il viaggio verso la villa, ma la scopata in mezzo al campo, mentre la piccola Marta agonizzava...
Distolse il pensiero, o tentò di farlo. Adesso non aveva più importanza. Quel che era stato fatto, era stato fatto. Franco era morto, e c'era un pazzo con poteri fenomenali che girava libero per il mondo.
Le tornò di nuovo in mente la conversazione con Alessandro, probabilmente avvenuta solo nella sua testa. Girò la testa e lo vide sulla soglia del corridoio; cingeva con le mani Antonio, appoggiato a lui. Il ragazzino aveva smesso di piangere e gridare, e sembrava aver riacquistato un minimo di tranquillità. Camilla notò, però, che non aveva il solito sorriso dipinto sulle labbra.
«E adesso, che si fa?» chiese Ando, guardando in su, come se, attraverso il soffitto, potesse scorgere Monica e Alberto, rimasti accanto al cadavere di Franco.
«Immagino lo seppelliranno» rispose Trudi, mentre la moglie annuiva.
«Intendevo che si fa con la storia di Masi!»
«Potreste cominciare a leggere il libro, tanto per cominciare.»
Tutti si voltarono. Monica era sulle scale con gli occhi gonfi, e una parvenza della solita grinta impressa all'interno.
«È una delle ultime cose che vi ha chiesto di fare l'ingegnere, ieri sera.»
Scese l'ultima rampa, s'accostò all'angoliera addossata alla parete, a fianco della porta d'ingresso, ed estrasse un piccolo scrigno che posò sul tavolo. Con una chiavetta l'aprì e tirò fuori un volume antico con la copertina marrone in pelle.
«La storia della venuta della donna. Dovete leggerlo tutti. Forse, per fare prima, lo può fare uno solo, a voce alta. Nel frattempo, io e Alberto seppelliremo Franco.»
Pronunciando il nome del suo capo, la voce le si ruppe di nuovo.
«Roberto, ci puoi aiutare? Alberto ha chiesto di te.»
«Volentieri.»
Seguì Monica su per le scale, accorgendosi che aveva ripreso a piangere.
Per permettere anche ad Andrea di ascoltare la storia, dal momento che Alessandro ancora non voleva si alzasse dal letto, si trasferirono tutti nella piccola camera dotati di sedie, stringendosi un poco; solo Ando e Alessandro scelsero di restare in piedi.
Il dottore, appoggiato allo stipite della porta, teneva un orecchio teso verso la stanza a fianco, lasciata aperta, dove Francesca continuava a fissare in assoluta tranquillità, l'aria che le passava davanti agli occhi, come se non fosse consapevole di dove si trovasse, cosa le fosse successo, chi fossero le persone che le ronzavano attorno. La testata rifilata ad Alberto e lo sputo regalato ad Alessandro, al momento erano state le uniche reazioni avute dalla donna, da quando si era risvegliata.
Non aveva battuto ciglio nemmeno quando Monica l'aveva informata che suo zio non c'era più. Alberto aveva sperato che la brutta notizia potesse, in qualche modo, aiutarla a riaffacciarsi alla normalità. Ma l'espressione in bianco e nero che aveva quel giorno rimase tale, come se le parlassero in una lingua del tutto incomprensibile.
A livello fisico, Alessandro aveva constatato che stava bene. Ciò che lo preoccupava era la gravidanza che, forse, stava sviluppando, probabile causa di quell'inquietante stato emotivo in cui Francesca si trovava.
"Se è incinta, ed è... il feto a renderla così..." rabbrividì, al pensiero di cosa si stesse formando nel suo ventre.
Ma la paura era anche maggiore nell'ipotesi contraria.
"Se non è incinta, potremmo non sapere mai cosa la rende così. Sarebbe anche peggio."
L'ecografia poteva almeno dar loro un punto di partenza su cui ragionare. Ma, senza de Simone...
Camilla si era offerta di leggere per allontanare la mente dalla zona confusa in cui era riscivolata, e per tenere gli occhi posati su qualcosa che non fosse lo sguardo libidinoso di quell'essere immondo.
Le parole del libro permearono subito l'attenzione di tutti, persino di Ando, intento a trattenere sul viso l'annoiata indifferenza che voleva ostentare, ma che perse senza accorgersene, dopo poche righe lette da Camilla.
La storia intrigò perché si sapeva essere vera, ma soprattutto perché era scritta bene, scorrevole, e l'intero gruppo si trovò in un baleno a camminare su per la strada di montagna insieme ad Augusto.
L'unico che si perse qualche pezzo fu Enrico, folgorato letteralmente da Camilla fin dalla prima volta che l'aveva vista, torturato, durante tutta la serata precedente, nel vedere come le sue abbondanti forme gonfiassero la maglia che indossava, estasiato, quella stessa mattina, dalla sensualità emanata dai suoi piedi.
Ora, abbandonato nell'ascolto della sua voce, così profonda e sexy insieme, la immaginava emettere sospiri di puro piacere, sopra di lui, mentre nudi e sudati...
Dovette coprirsi con le braccia, ostentando una ridicola indifferenza, per nascondere l'enorme erezione che già sapeva non si sarebbe sgonfiata, finché non fosse intervenuto lui.
Di colpo gli tornarono alla mente Claudia e Caterina; non aveva più pensato a loro da quando si era "risvegliato" nel retro di quel furgone, con la mente devastata dalle immagini e le urla terribili di quella bambina. Ora, forse spinto dalla travolgente pulsione sessuale che sentiva per Camilla, ripensò a come le due ragazze si fossero "occupate" di lui e a quanto fosse stato bello, anche se era stata tutta una finzione. L'aveva ben chiaro ormai; ma che fossero state costrette da Clara o da Gabriele o da Mirko, o da Ismel stesso, poco importava. Per un po' si era sentito un uomo, e non il goffo, inutile ammasso di ciccia che era sempre stato, sebbene anche lui fosse stato plagiato da "qualcosa", stando a quanto dicevano.
Si rese conto d'aver perso un pezzo di storia; sentiva parlare di tale Lucilla, senza sapere chi fosse. Doveva stare più concentrato; la storia lo interessava. Ma quelle inflessioni roche che assumeva talvolta la voce di Camilla lo facevano diventare matto. Per non parlare dei piedi, ancora nudi, anche se infilati in un paio di pantofole.
Enrico riusciva a immaginare, al di là della stoffa, le dita, appoggiate all'interno, sostenere le piante arcuate che sbucavano fuori, finendo nei talloni, colorati di un rosa più acceso, sollevati leggermente da terra. Come avrebbe voluto accarezzarli, portarseli con dolcezza alla bocca e baciarli, annusarne l'odore, sentirne il sapore...
Di nuovo aveva perso un pezzo della storia!
"Sveglia, Enrico" si disse. "Non l'avrai mai una ragazza così, se non nelle tue fantasie. Sei tornato quello di prima, ormai."
No!
Si guardò intorno, temendo quasi d'aver pronunciato la sillaba a voce alta. Ma tutti erano rapiti dalla storia e dalla voce sensuale della ragazza; nessuno badava a lui.
Era un componente di un gruppo che doveva salvare il mondo, ora. Era una persona importante.
"Chi vuoi prendere in giro? Sei qui solo per caso. Sei patetico e, ora, anche un assassino."
Abbassò il capo prendendoselo tra le mani. Nemmeno si era accorto che l'erezione si era sgonfiata. La sua mente era concentrata nello sforzo di rinnegare sé stesso, e le auto-commiserazioni in cui era solito sprofondare. Ma più cercava di convincersi di essere utile per qualcosa, più capiva che non era vero.
"Nessuno ti vuole, qui!"
"Quelle signore sono carine con me..."
"A quelle signore fai solo pena! Da quanti membri è composto questo fantomatico gruppo?"
Sapeva che prima o poi si sarebbe tornati a questo argomento e si sforzò di ignorare quella domanda. Ma la sua stessa voce, imperterrita, non voleva lasciarlo stare.
"Non rispondi? Te lo dico io: nove! Dispari! Un numero dispari! Rassegnati, sfigato! Sarai sempre isolato, solo, come meriti di..."
«Enrico, tutto bene?»
Di botto non sentì più nulla, nemmeno la voce sexy di Camilla, ora immobile a fissarlo con occhi carico di compatimento. Tutti lo stavano guardando, e si ritrovò gli occhi pieni di lacrime.
Era comparso anche Roberto, appoggiato al muro con le mani dietro la schiena. Non l'aveva nemmeno sentito entrare!
Sprofondò nella vergogna più assoluta e sentì la faccia avvampare di calore.
«È... che... la storia è così bella...» balbettò.
Vide Ando ridacchiare tra sé e, cosa che gli fece più male, sorprese anche le labbra di Camilla piegate in quello che era senza dubbio un sorriso ironico.
La ragazza riprese la lettura, ma Enrico non ascoltò più nemmeno una parola.
Roberto, Alberto e Monica trasportarono il corpo di Franco dentro all'FDS, avvolto in un lenzuolo pulito, adagiato sulla stessa barella con rotelle usata per Andrea.
«Dove lo metterete?» aveva chiesto Silvia mentre, con tutti gli altri, si stava preparando ad ascoltare la storia narrata nel libro, dopo aver osservato i tre sistemare il corpo sulla lettiga.
Monica non aveva sollevato nemmeno lo sguardo, spingendo l'ingegnere nel corridoio.
«Dove ha chiesto di stare!» aveva risposto laconica, non per scortesia, ma stordita dalla tremenda botta presa che aveva già cominciato a illividirle il cuore; adempiere alle ultime volontà del suo Franco, era come una pomata lenitiva.
Passando davanti alla camera aperta di Francesca, aveva provato a comunicare alla nipote acquisita la brutta notizia, aiutata da Alberto, ottenendo in cambio la solita espressione assente e apatica. Era frustrante vederla in quello stato, ed entrambi avevano desistito all'istante.
Scesero al livello -2 della fabbrica, dove Alberto era già stato una volta, e si diressero verso una sorta di grande cubo, situato su un lato del muro di fondo.
«Ma che posto è, questo?» chiese Roberto, guardandosi intorno come fosse un astronauta su un pianeta sconosciuto. Pur continuando a camminare girò la testa e scorse, al di là del cilindro in cui stava l'ascensore, dei grossi macchinari addossati alle pareti del tunnel. Capì subito e sentì cedergli le gambe.
«Mio Dio! Alby, non mi dirai che quelli...»
«Dopo, Roberto. Per favore» lo pregò con fermezza Monica. «Facciamo questa cosa prima.»
Alberto la seguiva, spingendo la barella. «Non mi hai ancora detto dove porterai le ceneri.»
«Dove lui mi ha chiesto di portarle, quando sarebbe arrivato... questo giorno.»
Le lacrime ripresero a scenderle sulle gote arrossate; alla vista parevano dense, lente strisce di melassa, come fossero intrise di una tristezza che aveva preso corpo. Era straziante vedere una donna come Monica accartocciata in quella maniera, e il cuore di Alberto, già gravato da carichi opprimenti, s'appesantì ulteriormente. Decise di non andare oltre, per il momento, e riuscì a comunicarlo con gli occhi anche a Roberto.
Il cubo risultò essere una sorta di grande inceneritore, ovviamente ideato da Franco de Simone; non era il momento più adatto per chiedere informazioni tecniche, ma Alberto non aveva alcun dubbio che fosse un marchingegno fenomenale, e soprattutto diverso da qualsiasi altro tipo di strumento appartenente a quella categoria.
Usando una delle tante chiavette presenti nel mazzo dell'ingegnere, Monica aprì un piccolo portello che nascondeva un pannello ricco di comandi (altra tipica caratteristica del suo capo!), su cui le dita cominciarono a muoversi come quelle di un pianista sui tasti di un pianoforte.
Si accesero in sequenza tre lampadine rosse nella parete anteriore del cubo, accanto a quello che sembrava un grosso maniglione. Ci fu un sordo sbuffo, proveniente dall'interno del macchinario; poi, in ordine, le lampadine divennero verdi. Monica impugnò la maniglia e la tirò verso il basso e verso di sé, rivelando un quadrato di circa un metro per un metro, che interruppe l'uniformità della parete del cubo.
La donna non aveva smesso di piangere per tutto il tempo, e quando il calore, già intenso all'interno della macchina, le investì il viso, dalla gola le uscì un rauco singhiozzo.
Roberto rimase immobile, commosso e imbarazzato, ma Alberto, molto più in confidenza, le cinse le spalle con affetto, facendola voltare. Monica lo abbracciò stretto, le lacrime si sciolsero, scendendo copiose, mischiandosi a quelle di lui; i singhiozzi divennero più frequenti.
«Era tutto, per me, Alby! Tutto! L'unica famiglia che ho mai avuto!»
«Lo so, lo so.»
«Come faccio adesso, senza di lui? E senza Francesca... La vedi anche tu. È persa... È persa...»
Alberto si staccò e la fissò per un momento.
«Hai noi adesso, Monica. Tutto il gruppo. Vinceremo e diventeremo una famiglia. Te lo prometto!»
Si tastò la tasca con la mano, come per trovare un sostentamento alle sue parole. «Vero, Roby?»
Roberto annuì poco convinto, ma cercò di mostrare la faccia più compiacente possibile. Senza volerlo, aveva stampato nella testa i visi di Ando ed Enrico, faticando a immaginarli integrati nel gruppo nella maniera in cui intendeva Alberto. A dire il vero, pensava non si sarebbero integrati mai, in nessuna maniera, in nessun gruppo, vista la scarsissima empatia che suscitavano, per un motivo o per un altro.
«E Francesca si riprenderà» stava continuando, intanto, Alberto. «Vedrai...»
«È molto bello quello che mi dici» rispose Monica, cercando di asciugarsi le guance con i palmi. «Mettiamolo dentro. Solo io e te, Alby. A te non dispiace, vero?»
Roberto scrollò la testa per far capire che non c'era nessun problema. Conosceva de Simone da meno di un giorno; era giusto lo facessero loro due. Ciò che occupava i suoi pensieri era altro.
Per bruciare un corpo occorrevano temperature elevate, supponeva all'incirca tra i 900 e i 1000 gradi. Come poteva quel forno, acceso da appena due minuti, essere già pronto?
Ma, soprattutto... Cosa ci faceva Franco de Simone con un forno crematorio nella sua azienda? Nascosto per giunta, come pareva, nell'angolo più estremo del piano più interrato dell'azienda! La cosa era misteriosa, sgradevole e inquietante allo stesso tempo. Ma, per quel poco che aveva potuto conoscere di lui, faceva fatica a credere avesse scheletri scomodi nell'armadio.
Osservava Monica e Alberto introdurre il corpo, scoperto dal lenzuolo, dentro all'apertura del macchinario. La donna non smetteva di piangere, ed era strano notare il connubio che viveva, in quel momento, in lei: una profonda e reale tristezza, di quelle che inducono a lasciarsi andare, e l'apparenza che mostrava usualmente, quella di una donna forte, decisa, che sa il fatto suo; come dimostrava anche nella maestria con cui si destreggiava nei complicati comandi che presentava quell'aggeggio enorme. Doveva essere stata sul serio una preziosa e valente collaboratrice per Franco de Simone.
Le tre lampadine tornarono rosse, una volta chiuso il portello. Monica azionò una leva e dall'interno del forno partì una sorta di fischio, sommesso e prolungato, sostituito, dopo circa trenta secondi, da una serie di sbuffi che si ripeterono a intervalli regolari.
Roberto fissava con la coda dell'occhio Monica, ora assorta in un'espressione tranquilla, nonostante le lacrime continuassero a colarle sulle gote e gli occhi, gonfi e rossi, paressero stanchi.
Il dolore per la perdita della sua Lina, che covava come brace sotto la cenere, ravvivò, facendogli sentire tutto il peso di un futuro incerto, da vivere senza la sua ragazza, la sua compagna, la donna della sua vita. Quel momento, aggravato ancor di più dalla perdita di Franco, ultimo dei tanti lutti che si erano dipanati sulle loro strade in quei brutti giorni, fu per Roberto pieno di uno sconforto che aumentava a ogni sbuffo del forno, amplificato dal vuoto e dal silenzio che riempiva quell'inquietante sotterraneo. Arrivò a desiderare di essere sconfitto, di morire, per non dover più sopportare la pesantezza nel cuore, ora insostenibile. Ma c'era Andrea, vigile pure lui nei suoi pensieri, steso in quel maledetto letto, desideroso di andare avanti, di avere un futuro insieme al suo papà, ora più che prima.
Monica si diresse verso un piccolo armadio appoggiato al muro, ed estrasse un vaso panciuto, completamente colorato di viola, che stappò e posò sul banco di lavoro più vicino.
«L'ingegnere aveva preparato tutto per questo giorno» disse, presumendo le domande che stavano nascendo nelle menti dei due uomini. «Aveva lasciato indicazioni precise. A me.»
L'operazione durò circa cinque minuti; poi, i tre sensori si colorarono di verde. Monica spense il macchinario e aprì una piccola finestrella posta su una delle pareti laterali, estraendo un contenitore rettangolare; lo portò al banco e rovesciò con cautela le ceneri dentro il vaso.
«"Brucerai il mio corpo dentro all'inceneritore delle scorie, Monica", mi ha detto, "metterai i miei resti nel vaso preferito di mia mamma e le andrai a spargere su, alla radura". Queste, erano le sue volontà» diceva la donna, mentre compiva la delicata operazione.
«Al... alla radura?» Alberto credeva d'aver capito male. «E Masi?»
Monica aspettò che l'ultimo granello di polvere si depositasse nel vaso, tirò su con il naso sentendo una lacrima cadere direttamente sul banco, senza rotolare giù per la guancia; tappò il vaso e sollevò lo sguardo sui due compagni che l'avevano assistita in un compito tanto gravoso. Provava, per loro, un affetto smisurato in quel momento. Anche per l'omone che ancora non conosceva bene.
«Glielo devo, Alby. E tu lo sai. Correrò il rischio.»
«Non vorrai mica andare da sola?»
«No. Potrei portarmi Angelica o Camilla con me. O entrambe, se vogliono. Mi possono aspettare al margine della radura, lassù, perché comunque le ceneri le devo spargere io, da sola... Quell'uomo è interessato all'FDS. Dubito che noterà tre misere donne in cammino in un sentiero. Voi, invece, avete altro a cui pensare, mi pare.»
Alberto, di nuovo, si tastò i pantaloni. Il bloc-notes era lì; l'ultimo, grande aiuto di Franco era nella sua tasca.
Monica aveva ragione. Ora che de Simone era morto toccava a loro. E il vecchio, forse presumendo che la sua fine era vicina, aveva lasciato scritto i suoi ultimi, preziosi pensieri, lasciando proprio ad Alberto Recatto lo scettro virtuale del comando.
Annuì, guardò Roberto e si girò verso i grandi macchinari addossati alle pareti, al di là del cilindro.
"È ora che ci mettiamo d'impegno. E sul serio!" pensò, con la gola del tutto serrata, sapendo che sarebbe tornato presto lì sotto. Molto presto!
Tornati di sopra, Monica si fermò davanti allo studio di Franco. «Andate pure» disse, «devo controllare alcune cose.»
Consegnò il grosso mazzo di chiavi ad Alberto che lo prese con un cenno d'intesa.
«Sto un po' con Francesca mentre leggono» disse a Roberto. «Appena la storia è conclusa, chiamami. Dobbiamo cominciare ad agire.»
Roberto annuì senza dire nulla. Stava scoprendo d'essere terrorizzato all'idea di fare... qualsiasi cosa si decidesse di fare; più di quello che avrebbe mai pensato.
Si diresse verso la stanza di Andrea dove la lettura di Camilla proseguiva, e tutti sembravano assorti e rapiti dal racconto.
Si appoggiò al muro, con le mani dietro la schiena, in silenzio, a fianco della porta, contemplando uno a uno i visi del gruppo.
Scoprì quello di Angelica fisso su di lui. La donna gli sorrise con timidezza, lui contraccambiò, un po' stupito, un po' imbarazzato, ma con un lieve senso di eccitazione che gli formicolava giù per la schiena.
Monica, in realtà, aveva l'esigenza di starsene un po' da sola.
Entrata nello studio, lasciando la porta socchiusa, si era seduta alla scrivania del suo capo, aveva posato il vaso diventato urna e, presa la testa tra le mani, aveva pianto le ennesime lacrime; questa volta, però, le sentiva fluire bene, dolci, come se trasportassero in sé gli ultimi residui della botta iniziale, lasciandole solo la struggente malinconia dei tanti ricordi che il suo caro ingegnere le aveva lasciato; un mare di emozioni e sensazioni in cui lei poteva nuotare in tranquillità, serena, accarezzata dalla mano rugosa di de Simone, attendendo di ricongiungersi a lui, un giorno.
Monica era sempre stata una donna pratica, poco incline all'esagerata commiserazione di sé stessa e degli altri, ma aveva sempre saputo che, per Franco, sarebbe stato diverso. Aver poi scoperto la sua dipartita in quel modo così improvviso e inaspettato, non le aveva lasciato il tempo di prepararsi, di indossare quella corazza che le aveva fatto da scudo in tanti momenti difficili della sua travagliata, impegnativa, ma sostanzialmente meravigliosa vita al suo servizio.
La cremazione era stata un disinfettante per le ferite; aveva lavato via quel grumo di dolore subitaneo che le pulsava addosso come una piaga maleodorante e purulenta, e ora, sentendo il cuore un po' più leggero, percepiva una sorta di consolazione soffiarle sul cuore, come una brezza primaverile.
Immerse il mento tra le braccia, incrociate sul piano della scrivania, e con la destra cominciò ad accarezzare il vaso.
Senza accorgersene, si addormentò.
Percepì di trovarsi in quella fase a metà tra il dormire e l'essere sveglia, dove i rumori del sogno sembrano mescolarsi con quelli reali e dove la mente fatica a discernere cosa stia accadendo veramente. Fatto sta che aveva creduto sul serio d'avere Franco alle spalle, sceso dalla carrozzella con il solo scopo di accarezzare i capelli alla sua Monica, con tutta la dolcezza che la sua mano poteva sprigionare.
Quando capì d'esser sveglia, quando ricordò che lui non c'era più, il dolore, quello brutto, quello che credeva d'aver lenito, le pungolò vigliaccamente il petto, tanto da non rendersi subito conto che dietro di lei, qualcuno le stava accarezzando i capelli sul serio.
Si voltò di scatto e fu come abbagliata dalla bellezza che emanava Veronica, in piedi a fianco a lei, la mano sulla sua testa con fare quasi materno, e un sorriso di dolcezza velato da una malinconia trattenuta a fatica, ma ben visibile nello sguardo.
Monica stentava a credere avesse solo undici anni, sebbene la sua corporatura tendesse a volte a ricordarlo un po'; gli occhi però non mentivano e, in quel preciso momento, comunicavano la voglia di Veronica di confortare, di far sapere come le fosse vicina; il solo guardarla, il solo intravedere la fanciullesca maturità che le cresceva dentro, agì da balsamo in Monica, riuscendo a cavarle fuori il più sincero dei sorrisi.
«Ti ho svegliata. Scusami.»
«Nessun problema, tesoro. Ho una cosa importante da fare» rispose, dando un'occhiata al vaso sulla scrivania. «Che ore sono? Non dovevo addormentarmi...»
«Credo siano le undici e trenta» rispose Veronica. «Abbiamo concluso la lettura. Mi dispiace tantissimo per Franco. Voglio che tu sappia che, se hai bisogno anche solo di parlare...»
Monica le prese una mano e la tirò con dolcezza a sé, abbracciandola forte. «Grazie, piccola. Sei speciale.»
Quando si staccarono rimasero alcuni secondi a fissarsi in silenzio.
«Voleva parlarmi, ieri. Ma tra Francesca, Lina... Tutto quello che è successo... Non ci siamo riusciti.»
«Probabilmente voleva dirti quanto tu sia importante per questo gruppo, per tutti noi. Lo sai, vero?»
Monica s'accorse d'averla un po' imbarazzata e, in quel momento, riuscì a scorgere chiaramente la bambina di undici anni.
«Faber!» disse d'improvviso Veronica, contenta d'aver trovato un argomento che le permettesse di sviare la conversazione. Si scostò, girò dietro la sedia e prese in mano una cornice d'argento, posta accanto al monitor.
«Conosci Fabrizio De André?»
Agli occhi di Monica l'undicenne era di nuovo sparita.
«Certo!» sorrise. «Era il cantante preferito di mia mamma. Me lo faceva ascoltare sempre, da piccola. Conosco tutte le sue canzoni! E adoro "Volta la carta".»
S'accorse, all'improvviso, di sentirsi triste, mentre nella testa risuonavano le note della canzone e lei e la sua mamma ballavano felici, tenendosi sottobraccio.
«E quelli chi sono?» chiese, trattenendo a fatica le lacrime, indicando un'altra foto in una cornice di legno appesa al muro.
«Il bambino nel cestino è Franco. La signora è sua mamma Vera. Non l'ho conosciuta, purtroppo, ma l'ingegnere mi ha raccontato tante cose su di lei. Era una gran donna, ed è stata fondamentale per suo figlio e per l'uomo che è diventato. Sai... in pratica gli ha fatto anche da padre.»
«Capisco.»
Veronica rimise a posto la foto di de André mentre ancora la fissava. C'era qualcosa nella sua testa, un pensiero che, forse, tentava disperatamente di farsi notare.
«Che c'è?» chiese Monica, notando lo sguardo perplesso con cui la ragazzina fissava la foto del cantautore genovese.
«Oh, nulla. È che mi stupisce scoprire che una delle uniche due foto che Franco teneva nello studio dove lavorava, sia di un cantante. E, ti chiedo scusa... Nemmeno capisco il perché sia stupita! Non è una cosa così strana, in effetti! Eppure...»
Alzò lo sguardo sulla foto della madre e di nuovo nella sua mente qualcosa bussò forte, chiedendo di entrare. Per una frazione di secondo credette d'aver intravisto la luce, quella stessa lucina che le pareva s'accendesse nella fronte quando riusciva finalmente a intravedere la soluzione di un rebus sul quale si lambiccava da tempo. Ma fu tutto molto veloce, e non riuscì ad afferrarne il contenuto.
«In effetti può sembrare eccentrico» rispose Monica. «E de Simone era un po' eccentrico. Ma, vedi, la musica di de André ha ispirato molto Franco nel suo lavoro. Non che c'entri nulla, intendiamoci. Ma lui diceva sempre che ascoltarlo gli apriva la mente e lo faceva ragionare meglio. Quando s'incagliava in un calcolo che non tornava, o in qualcosa che non funzionava, metteva su un suo disco e trovava sempre la soluzione!»
Le sue labbra si distesero in un largo sorriso; i suoi occhi scintillarono al riverbero che entrava dalla finestra.
«Sembra incredibile, ma è così.»
«No, no. Ci credo, ci credo sul serio. L'arte è terapeutica, in molte cose. Quante volte ho letto di risvegli dal coma solo con l'ascolto di una canzone, o con la lettura di un determinato libro!»
Monica ridacchiò. «Ma sei sicura, tu, d'avere solo undici anni?»
Anche Veronica si unì alla risata e per un momento riuscì a sentirsi leggera, come se stesse ridendo con le sue compagne di scuola per un video buffo appena visto su TikTok. Sospirò e riguardò le due foto con il sorriso ancora impresso sulle labbra.
«Vera e Faber! Grazie a loro, dunque, il mondo ha avuto Franco de Simone.»
«Già. Proprio così.»
Veronica contemplò ancora le due fotografie, poi girò la testa verso la finestra. Poteva vedere una delle pareti arancioni dello scudo che sfrigolava sotto la calura estiva, lo scudo che li proteggeva tutti dalla malvagità di quel Masi.
"Il ragazzino ha poteri precognitivi fortissimi. E anche la sua parte di energia è forte. Lo scudo qua fuori, è merito suo."
D'un tratto le tornarono alla mente le parole di Franco della sera prima, quelle che più le erano rimaste impresse. Le sentì rimbombare nella testa, in alternanza con il sorrisetto ironico di Antonio. E, allo stesso tempo, sentiva la sua stessa voce ripetere "Vera, Faber, Vera, Faber..."
Le sue abilità enigmistiche emersero con prepotenza, la luce della soluzione esplose come un faro in piena notte.
Si voltò di scatto verso Monica, con gli occhi spalancati e il viso tirato, tanto da farla sussultare.
Nessuna delle due fece in tempo a dire niente; la porta si aprì e comparve Alberto.
«Veronica, vieni. Stiamo andando tutti di sotto. Devo mostrarvi una cosa.»
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