54 - I TRE BISCOTTI (2)

Alberto si era addormentato vestito sulla brandina preparatagli da Monica, a fianco del letto in cui Francesca giaceva legata e dove, fino a qualche settimana prima, avevano fatto l'amore più volte, dormito insieme, e provato a fare tanti progetti, nonostante un futuro incerto incombesse sull'umanità.

Finita la riunione e rientrato in camera, era rimasto per una decina di minuti a guardarla, in piedi vicino al letto; poi, constatando che la sedazione era ancora forte, le aveva accarezzato i capelli, baciandole la fronte e le labbra, e si era coricato sul giaciglio d'emergenza, su un fianco, lo sguardo fisso su di lei, con il debole proposito di vegliarla tutta la notte; ma la stanchezza, latente finché era alzato, l'aveva avvolto del tutto non appena aveva assunto una posizione orizzontale, intorpidendogli dapprima le membra, poi i sensi, fino a farlo sprofondare in un sonno pesante.

Quando riaprì gli occhi, un brusio sommesso filtrava da dietro la porta chiusa, insieme a un filo di luce che attenuava un poco l'oscurità della stanza. Le iridi impiegarono qualche secondo ad adattare le pupille alla penombra; si tirò su e si mise seduto, sfregandosi la faccia con le mani e sbadigliando.

Non si accorse subito che Francesca, a pancia in su, nella stessa posizione in cui era stata legata, aveva la testa reclinata verso di lui, e lo fissava con l'espressione più vuota e neutra che un essere umano avesse mai avuto.

Per un attimo Alberto trattenne il fiato. L'inquietudine per quello sguardo prosciugato da ogni emozione, travalicava la sottile e gioiosa sorpresa di vederla sveglia e, in apparenza, tranquilla.

«Amore mio!» disse, alzandosi e accostandosi al letto.

Francesca continuava a fissarlo senza quasi battere le ciglia, senza espressione, senza nessuna parola o cenno che potesse esprimere un qualunque sentimento dentro di lei; pareva una vecchia bambola con le pile scariche, dimenticata e abbandonata sul letto.

Alberto si sentì intimorito dalla donna che amava, anche più della sera in cui l'aveva vista per la prima volta, quando arrivò all'abbazia e fu costretto a denudarsi davanti a tutti.

Quella volta aveva provato un turbamento indotto dall'avvenire che gli si srotolava davanti, oscuro nei contenuti, ma chiaro e sicuro nella forma, fatta di umiliazioni, sofferenze e fatica. Eppure, aveva avvertito qualcosa in quella affascinante persona tale da smussare gli angoli appuntiti che lei voleva mostrare: l'avrebbe capito bene in seguito.

Ora, esitava anche solo a toccarla.

«Come ti senti?» provò a chiedere, senza ottenere risposta.

Si fece coraggio, e le prese una mano. Era fredda, molle; pareva priva di vita. Alberto sentì il cuore farsi pesante, come se, di colpo, si fosse riempito di una sorta di liquido dell'infelicità.

«Parlami, ti prego. Mi manchi da morire. Io ti amo.»

Le lacrime cominciarono a scendergli lungo le guance, ma Francesca continuava a tacere e a restare impassibile.

«Cosa ti ha fatto quel mostro?» chiese. «Lo distruggerò, te lo giuro.» E, senza pensarci, si chinò e le baciò la bocca.

Il contatto fu sgradevole e, ad Alberto, sembrò di appoggiare le labbra sulla gomma fredda. Interruppe subito il gesto, restando a fissarla a un centimetro da lei.

Lo sguardo di Francesca cambiò repentino e con un veloce e secco movimento della testa lo colpì con violenza sulla punta del naso. Il dolore fu immediato e atroce.

Alberto si ritirò in fretta, tenendosi una mano sulla faccia, mentre il sangue cominciava a zampillare dalle narici, mischiandosi alle lacrime ora più intense, anche per la reazione al colpo subito. Il viso della donna tornò vuoto all'istante, come se non fosse successo nulla, come se nemmeno si fosse accorta di ciò che aveva appena fatto.

Alberto non disse nulla; stordito, la fissò per qualche secondo.

Poi, uscì dalla stanza.

Appena Roberto sbucò in sala per la colazione, Veronica, avuto dall'uomo il permesso, corse in camera da Andrea. Gli chiese come stava poi, approfittando di quell'unico momento in cui si trovavano soli in una stanza, si avvicinò timida, sperando fosse lui a compiere il passo che tanto desiderava.

Andrea, del tutto sopraffatto dalla sua bellezza, stupefatto da come diventasse sempre più meravigliosa, ogni volta i suoi occhi si posavano sul suo viso, non esitò, e la baciò con trasporto.

Furono i venti, forse i trenta secondi più intensi della sua vita, di gran lunga più eccitanti dei primi baci che si erano scambiati. La sua lingua era calda, morbida, più impacciata delle altre volte, cosa che rese il bacio ancora più coinvolgente, persino più appagante del sesso fatto con Camilla.

"Camilla!"

Il nome risuonò nella mente e indusse Andrea a interrompere quel sublime contatto. La sorprese con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta.

"Dio, quanto è bella!" pensò, sentendo quasi friggere in bocca il suo sapore, scendere giù per la gola e riscaldargli lo stomaco, come se avesse appena bevuto una bevanda calda.

"Sarà l'energia?"

Veronica sollevò le palpebre e gli sorrise. Era cambiata molto in quei giorni; continuava a cambiare, a vista d'occhio. Andrea non sapeva dire se fosse quel potere, o qualcos'altro, ma quella ragazzina aveva undici anni solo all'anagrafe.

«Senti...» balbettò. «Per quel che riguarda Camilla...»

Lei gli pose le dita sulle labbra. «Non dire niente. Per me conta solo adesso.»

In quel momento la porta si aprì ed entrò proprio la ragazza, con un vassoio in mano. Veronica si scostò con sorprendente velocità, cosa che un po' dispiacque ad Andrea.

«Ciao, Andy. Alessandro mi ha detto che è meglio se non ti alzi, ancora. Ti ho portato un po' di colazione.»

«Ah... grazie» rispose lui, guardando Veronica imbarazzato.

«Te la lascio qui.»

Camilla posò il tutto sul comodino, li fissò con uno sguardo misto di rassegnazione e tristezza, e si avviò alla porta.

«Puoi restare, se vuoi» disse Veronica, non riuscendo più, ormai dal giorno prima, a provare l'astio acido e fastidioso che le ribolliva dentro quando vedeva la rivale.

D'un tratto si ritrovò a provare compassione per lei e, forse, un qualcosa che poteva vagamente assomigliare a un desiderio di diventarle amica, nonostante lei le avesse sbattuto in faccia d'aver giaciuto col suo ragazzo per ben due volte, durante il viaggio; e, ancora, come non facesse nulla per nascondere la sua volontà di riprendersi Andrea per sé.

"La posso biasimare?" si era ritrovata a pensare la sera prima, stesa sul letto dopo la riunione, a pochi pensieri dall'addormentarsi.

"Dopotutto, sono io che l'ho rubato a lei. Però lui, ama me."

Questo era il motivo per cui non riusciva più a provare gelosia, né rabbia o fastidio sapendo quello che avevano combinato in sua assenza.

"Io non c'ero. Ma ora sì, e lui non la guarda come guarda me."

«Magari torno più tardi» rispose Camilla, sforzandosi di far apparire sulle labbra qualcosa che assomigliasse a un sorriso.

Era rientrata in sala rioccupando il suo posto, finendo con una sorsata l'ultimo goccio di latte che aveva nella tazza.

«Tutto ok?» le chiese Roberto, seduto al suo fianco. La ragazza annuì.

Scorse con lo sguardo il resto della tavolata, alla quale erano ormai tutti seduti con un'inaspettata allegria, viste le circostanze e i discorsi della sera prima.

Il mezzo sorriso rimastole sulle labbra si spense di colpo quando incrociò lo sguardo di Enrico che, come la sera prima, sorprese scivolare altrove, dopo essere stato su di lei mentre non guardava.

Non si erano scambiati mezza parola da quando lui era arrivato all'FDS, ma lei ne era disgustata, ancora di più ora che aveva capito di essere oggetto dei suoi patetici desideri. Non era tanto per quello che aveva o non aveva fatto, e che nei dettagli ancora nessuno aveva spiegato; era il suo aspetto fisico, la mollezza e la goffaggine che trasmetteva, la disgustosa lascivia che leggeva in quella faccia rubiconda.

E il tutto era peggiorato la sera prima, dopo che, finita la riunione, si era rintanata in camera in fretta e furia, proprio per evitare un qualsiasi tentativo d'approccio; dopo qualche minuto aveva sentito la sua ridicola vocetta salutare, e dallo spioncino della porta l'aveva visto entrare nella stanza a fianco la sua. Camilla aveva controllato che la serratura fosse ben chiusa e si era rintanata sotto le coperte, sperando di addormentarsi subito. Ma non era successo, e dopo neanche cinque minuti la vocina le era giunta di nuovo alle orecchie, questa volta sotto forma di piccoli gemiti di piacere. Il meschino si stava masturbando e, ne era sicura al cento per cento, pensando a lei. La nausea che da quasi ventiquattro ore sembrava essersi sopita, ritornò a farsi viva, e solo un grandissimo sforzo aveva evitato alla ragazza di rivedere la cena.

Cercando di ignorarlo, sperando che il disinteresse dipinto sul suo volto fosse un chiaro segnale, Camilla concentrò l'attenzione sull'unico posto della tavola ancora vuoto, quello di Franco de Simone, occupato solo da un piattino con tre biscotti.

«È un dormiglione, l'ingegnere!» disse Alessandro, parlando con la bocca piena della brioche che stava mangiando.

«Si notava che era parecchio stanco, ieri sera» aggiunse Beatrix, mentre toglieva con un tovagliolo una briciola di pane rimasta sul labbro del marito.

«A dire il vero, no.»

Monica entrò nella sala, e posò al centro del tavolo l'ennesimo vassoio di croissant.

«Credo sia la terza, o la quarta volta da quando lo conosco che supera le nove. Mi toccherà andare a svegliarlo.»

«Ma lasciatelo dormire, figa di biscia! Non è mica un bambino!»

«Ando...»

Cata, come al solito, provò imbarazzo per l'ennesima esternazione del marito.

"Ed è solo mattina!" pensò, rassegnata.

«Non voglio svegliarlo per fargli un dispetto. Deve prendere le sue medicine, ed è già in ritardo» sentenziò Monica, piantando su Ando uno sguardo che pareva dire "ribatti, se hai coraggio!".

L'uomo si limitò ad alzare le spalle.

«Hai ragione, Monica» la appoggiò Alessandro.

Camilla lo osservava ripensando ai presentimenti avuti, ancora incerti dentro di lei, desiderosa di condividerli con lui prima possibile.

In quel momento Alberto sbucò nella sala, tenendosi le dita sporche di sangue piantate sul naso. Aveva gli occhi spalancati in una tale espressione di sgomento che parevano quasi sul punto di schizzargli fuori dalle orbite.

Per un attimo tutti lo fissarono, cessando di botto l'allegro chiacchiericcio. Poi Roberto si alzò, andandogli incontro.

«Che è successo?»

Alberto lo fissò, poi girò lo sguardo su Alessandro, scoprendo le narici dalle quali colava il liquido rossastro.

«Francesca.»

«È sveglia?» chiese Monica.

«Pare proprio di sì!» intervenne Ando, non riuscendo a trattenere l'ironico sorriso che gli emerse tra i denti.

«Le puoi dare un occhio, per favore?»

«Certo!» rispose Alessandro, alzandosi con una fugace occhiata alla moglie, intenta a spalmare della marmellata su una fetta biscottata destinata ad Antonio. «Ma, il tuo naso...»

«Il mio naso sta bene. Per fortuna mi ha preso di striscio. Voglio che visiti lei, ora.»

Lo guidò nella stanza seguiti da Monica, concentrata, già da mezz'ora, nell'ignorare la leggera inquietudine che stava provando per l'inusuale e lungo sonno di Franco, desiderosa di andare a svegliarlo, ma frenata allo stesso tempo nel farlo.

Alberto spalancò la finestra facendo entrare la luce aranciognola del mattino celato dalla cupola; si voltò, proprio mentre pure Roberto faceva capolino, rimanendo a osservare sulla soglia.

L'espressione vacua di Francesca era ancora più terrificante, ora che era ben visibile e non adombrata dall'oscurità; lo stomaco di Alberto si rimescolò e le lacrime ripresero a scendere. Scoprì di preferire gli occhi carichi d'odio che aveva avuto la sera prima, mentre tentava di ucciderlo, piuttosto che le due fessure vuote che osservava ora, prive di qualsiasi accostamento alla più pallida delle emozioni.

«Fai attenzione, Alessandro» disse, mentre il dottore si sedeva sul ciglio del letto.

«Come stai, Francesca?» chiese.

Lei voltò la testa verso di lui, e gli sputò in faccia. La sua espressione non era cambiata di una virgola.

Alessandro sorrise, si pulì con un fazzoletto e le prese il polso tra le dita. «Il battito è accelerato.»

Le controllò gli occhi, facendo attenzione a non avvicinare troppo le dita alla bocca; così come elargiva testate, poteva benissimo pure mordere.

«Pupille un po' dilatate.»

Francesca non reagiva, non tentava di liberarsi; rimaneva ferma, con la stessa espressione vacua, come se qualcosa l'avesse prosciugata.

«Monica, per favore. Tappale il naso, mentre le tasto la pancia.»

«Perché?» chiese Alberto, rimasto accanto alla finestra con lo sguardo stravolto e il sangue che si stava incrostando sotto le narici.

«Voglio sentire l'addome, e dubito di ottenere la sua collaborazione se le chiedo di inspirare ed espirare.»

Monica eseguì, e qualche secondo dopo averle stretto il naso tra le dita, Francesca aprì la bocca, espirando, inspirando aria, gonfiando e sgonfiando la pancia sotto le mani di Alessandro.

«Ok, basta così. Senti, Monica. C'è modo di fare un'ecografia, qui?»

«Oddio! Sai che non lo so. Ma non credo. Bisogna chiederlo all'ingegnere.»

«Perché un'ecografia?»

Questa volta Alberto si era avvicinato, lanciando un'occhiata a Roberto, ancora appoggiato allo stipite.

«Hai... sentito qualcosa?»

«Forse! Ma non ti so dire... Vorrei vedere dentro prima di trarre qualunque conclusione.»

«Se qui non si può, forse potremmo portarla all'ospedale più vicino.»

«Sei pazzo, Alby!» intervenne Roberto.

«Con quel Masi in giro...»

«Lo so, lo so. Ma se...»

Delle grida lo interruppero, grida provenienti dal corridoio.

Roberto si voltò un attimo prima che comparisse Silvia, pallida e con lo sguardo di chi ha da comunicare solo cattive notizie. Teneva Antonio per mano, in lacrime. Era lui che aveva gridato.

«Che è successo?» chiese subito Alessandro, raggiungendo la moglie.

Silvia non lo stava guardando; fissava Monica. «Dice che... che...» balbettò, indicando il figlio con la mano.

«Cosa?»

Il donnone si era fatto avanti, sbiancata in volto, all'improvviso.

«Dice che...»

«Fraaaa... aaa...»

Monica capì al volo.

Senza aspettare ulteriori balbettii uscì dalla camera, e quasi travolse Camilla che aveva seguito Silvia. Spostò con rudezza Beatrix e Angelica che stavano per entrare in corridoio, e si precipitò su per le scale. Arrivata alla porta della camera di de Simone si bloccò, terrorizzata da ciò che quel legno poteva dividerla.

Fu raggiunta da Alberto, ansimante. «Che succede?»

Lei lo fissò, non disse nulla e bussò con delicatezza.

«Ingegnere?»

Nessun suono proveniva dall'interno. Monica tentò di nuovo, ma con lo stesso risultato. Abbassò la maniglia e la porta si aprì.

Un lieve odore di chiuso arrivò al naso insanguinato di Alberto.

La donna entrò. La stanza era illuminata dalla luce che entrava dalla porta e dagli spifferi che s'infilavano dalla finestra; ma soprattutto dalla lampadina sul comodino, accesa.

Franco era appoggiato allo schienale del letto, la testa appena reclinata su un lato, il braccio sinistro abbandonato sul fianco, quello destro posato sullo stomaco. Stringeva qualcosa tra le dita.

«Ingegnere. Si deve alzare» disse Monica con la voce tremante.

Alberto la seguì, sentendo un leggero stordimento avvolgergli la testa.

«Ingegnere...»

La voce di Monica era del tutto incrinata dalle lacrime. Si accostò al letto, gli prese la mano e subito la lasciò ricadere.

«È fredda» disse.

Alberto notò una penna sul pavimento, mentre la donna appoggiava due dita sul collo del suo capo, del suo amico, della sua famiglia. La vide indugiare qualche secondo, poi ritirare la mano e sedersi per terra, la schiena appoggiata al letto, le ginocchia al petto. Lo fissò con occhi luccicanti.

«Alby... È morto» sussurrò.

Poi chinò il capo, lo coprì con le mani, e pianse tutte le lacrime che aveva.

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