39 - LA FOBIA DEL NUMERO DISPARI (2)
«Io crede che dovremo andare ora.»
«Io invece credo che devi stare zitto, cazzo.»
Il ragazzo parlava con lo sguardo fisso sui due uomini, usciti dal municipio e incamminatisi nella strada a fianco. Non degnava di uno sguardo il compagno che proprio non voleva saperne di tacere.
Quanto odiava quel russo! Non capiva perché era dovuto rimanere proprio con lui, quando avrebbe potuto godere, in tutti i sensi, della compagnia e dell'aiuto di Caterina. O di Claudia, era indifferente. Ma le ragazze erano venute con loro per convincere, non per catturare. Ed erano decisamente brave nel loro ruolo. Avevano capito subito, dal primo sguardo, che il ciccione sarebbe stato facile da accalappiare, e il fatto che fosse rimasto da solo a guardia dell'auto, aveva parecchio semplificato il loro compito.
«Lele mi ha detto di intervenire solo quando sono sicuro. Hai visto quanto è grosso quel tizio?»
«Ma noi ha fucili, loro non ha niente.»
Il ragazzo si voltò di scatto. Il russo era più grosso di lui, ma lo prese per il collo, con la certezza che non avrebbe mai avuto il coraggio di scavalcare le gerarchie decise dal Capo.
«Comando io, ora che Gabriele è andato via. È chiaro?»
«Sì, io so, ma...»
«Ma un cazzo! Sai cosa succede se non si rispettano le regole, Denis?»
Il ragazzo tacque e annuì.
«Bene. Dobbiamo prenderli di sorpresa. Non possiamo permettere che si ribellino e ci costringano a usare i fucili. Potrebbero essere Fratelli, e se lo sono non dobbiamo fargli niente. Ti è entrato il concetto in questa grossa testa vuota?» chiese, battendogli le nocche sulla tempia.
Denis scostò il capo, scuro in volto.
«Allora noi che fa ora?»
Il ragazzo sbuffò. C'erano vari motivi per cui non sopportava Denis, ma il principale era che non riusciva a stare mai zitto, anche quando gli era stato riferito di sforzarsi. Questo, era uno di quei momenti.
Non rispose, e continuò a seguire i due uomini attraverso le lenti del binocolo; si stavano allontanando giù per la strada. Sperava non si infilassero in una delle vie laterali, altrimenti avrebbero dovuto seguirli con il furgone, rischiando di farsi scoprire.
«Tu dici a me tuo piano?»
«Stai zitto, cazzo!»
Si voltò con lo sguardo rabbioso e dovette sforzarsi per non urlare.
«Che cagaminchia che sei!»
Tornò con gli occhi dentro le lenti e vide i due uomini dirigersi verso la porta della chiesa.
"Bene." pensò, quando li vide entrare.
«Sono in chiesa. A fare che, non lo so» disse, aprendo lo sportello e scendendo col fucile in mano. «Li becchiamo appena escono. Se siamo bravi, questo nemmeno ci servirà. Ecco il piano. Contento, stronzo?»
Denis scese a sua volta, sentendo l'odio per il suo compare crescergli dentro.
«Non è meglio se andiamo là con furgone?»
«No! Sentirebbero il rumore, furbo! Torniamo a prenderlo dopo. Hai la tua siringa?»
Denis si toccò la tasca dei pantaloncini con la mano.
«Ok. Andiamo. E mi raccomando... Fai silenzio!»
«Eccoli qua!» Alberto batté il dito sulla pagina.
Avevano faticato un po' per trovare quello che doveva essere l'ufficio del parroco, nel labirinto di corridoi e porte presenti in quell'enorme costruzione ma, una volta individuata la stanza giusta, si erano tranquillizzati all'istante: l'intera parete di fronte all'ingresso era occupata da una grande libreria divisa in scaffali, ognuno recante l'etichetta del contenuto dei raccoglitori e dei registri che lì stavano.
«Avevi ragione, Roby! Han spostato gli archivi qui, per fortuna. Ma guarda che bel lavoretto!» aveva esclamato subito Alberto, dirigendosi verso il settore "MATRIMONI".
I registri erano divisi per anno, dal più vecchio al più recente e, individuato il settore del 2003, Alberto aveva estratto i tre libri e si era messo a consultarli, mentre Roberto faceva visita al bagno.
«Li ho trovati, Roby!» gridò Alberto.
«Bene! Ho quasi fatto. Arrivo.»
«Ho bisogno anch'io...»
«Che disagio la mancanza d'acqua, Cristo!» disse Roberto, uscendo. «Non ci si può lavare, né tirare lo sciacquone. T'avverto che non ho lasciato un bello spettacolo là dentro.»
«Amen! Mi tapperò il naso. La sto tenendo già da un po'. Meglio qui che in un cespuglio! Ho lasciato il registro aperto sul tavolo...» disse Alberto, chiudendosi la porta alle spalle.
Roberto si avvicinò alla scrivania e lesse l'atto di matrimonio che tanto cercavano, compilato a mano con una calligrafia, per fortuna, abbastanza leggibile. S'accorse subito di un problema a cui non avevano pensato. Strappò la pagina e si diresse verso la porta del bagno, proprio mentre Alberto ne usciva.
«Sei stato veloce» gli disse.
«Non è saggio restare là dentro troppo a lungo. Rischiavo di soffocare!» Gli sorrise.
Roberto ridacchiò a sua volta. «Tu caghi violette, invece? Ascolta...»
«Sì, lo so. Ho già visto. Ci sono due indirizzi, e sono quelli di dove abitavano al momento della cerimonia.»
Gli prese il foglio dalle mani.
«Eleonora Cataldi, via delle Olimpiadi 64. Rodolfo Dandolo, via Gramsci 27.»
«Sono le case dei genitori, quindi. Potrebbero essere rimasti nei paraggi, però. Magari la casa a fianco.»
Alberto si tirò su la zip dei pantaloni. «Me lo stai dicendo o chiedendo? Perché ovvio che non ne ho idea.»
«Lo so!» grugnì Roberto. «Ragionavo ad alta voce. L'unica è andare a questi due indirizzi e cercare i loro nomi sui campanelli. E sperare che siano in casa, nel caso.»
Alberto si sedette sulla poltroncina alla scrivania. «Non lo so, Roby. Mi sembra di essere dentro a una bolla, tanto per restare in tema. Dobbiamo riflettere anche su Enrico, e trovarlo senza sapere dove cazzo se ne è andato. Siamo cechi, su ogni fronte.»
«E cosa possiamo fare? L'unica è procedere per tentativi. Siamo qui per trovare gli scrigni e due potrebbero essere a uno di questi indirizzi. Tanto vale controllare, intanto...»
Alberto si alzò. «Sai dove sono queste strade?»
«Via Gramsci è qui di fronte. Ci abita, o abitava, una di quelle due coppie di amici che ti dicevo prima. Via delle Olimpiadi non la conosco, ma c'è via dello Sport poco più avanti. Scommetto che è lì in zona.»
Riprese il foglio, lo piegò e se lo mise in tasca.
Alberto sospirò. «Va bene. Mi sa che hai ragione. Chiudiamo la porta del bagno però, e tanti auguri a chi ci entrerà! Se mai accadrà, un giorno!»
Il relativo fresco goduto all'interno della chiesa, solo una percezione data da un numero di gradi appena più basso, si dissolse in un attimo non appena misero i piedi sul sagrato, colpiti dai raggi di un sole già in fase calante, ma ancora piuttosto cattivo nel cielo.
«Che caldo! Se penso al clima che c'è su da Franco...» si lamentò subito Alberto.
«È più fresco?»
«Beh, è in Trentino. Durante il giorno i gradi salgono anche là, ma c'è molta meno umidità. E di notte... un paradiso!»
Roberto gli pose una mano sulla spalla. «Coraggio! Ogni mossa che facciamo ci avvicina sempre più.»
Indicava col dito la strada a sinistra, perpendicolare a loro.
«Sia che vada bene, sia che vada male» disse Alberto, guardando anche lui nella direzione indicata dall'amico.
«In che senso?»
«Nel senso che dovremo andare lassù, prima o poi, anche se non troviamo gli scrigni. Franco mi ha detto che se...»
«Restate fermi e non vi voltate.»
La voce provenne da dietro e prima di rendersi conto da che bocca uscisse e cosa stesse succedendo, sia Roberto, sia Alberto sentirono una leggera puntura sulla spalla.
Il sole si spense in un attimo, l'afa evaporò in una nuvola gelida, ed entrambi precipitarono nell'oscurità più totale.
La vita di Enrico cambiò del tutto e senza nessun preavviso.
Un attimo prima era un ciccione sudato, solo e ignorato da tutti, da tutta la vita, appoggiato a un'auto mentre aspettava due tizi quasi sconosciuti che gli avevano detto un mucchio di stronzate su poteri speciali e squadre per salvare il mondo; ora, invece, era felice e rilassato come non era mai stato in vita sua, nudo, su un letto con le lenzuola più sporche che avesse mai visto. Ma non gli importava. Era sdraiato in mezzo a Caterina e Claudia, nude anch'esse, addormentate, abbracciate, anzi, avvinghiate a lui, dopo che gli si erano concesse in ogni modo possibile per... quanto? Un'ora? Due ore? Tre ore? Aveva perso la cognizione del tempo, ma fuori il cielo era quasi completamente buio.
Si sentiva un re, perché così le due ragazze lo avevano fatto sentire, e tutto il dolore e la rabbia repressa, accumulati dentro di lui come rifiuti in una discarica, erano spariti quando aveva raggiunto il primo orgasmo.
Aveva la sensazione d'aver recuperato, in quel breve lasso di tempo, ventisette anni di scopate mai fatte, di amore negato, sempre e da tutti; di gioia, nell'avere qualcuno accanto disposto a capirti e ad ascoltarti; di amicizia, ma anche d'affetto. Aveva avuto solo quello di suo nonno, ma per quanto grande e sincero, lo aveva sempre percepito quasi come "ovvio", anche se era l'unico parente a darglielo.
Quelle due ragazze, attraverso il loro corpo, ma anche con la loro dolcezza e le loro parole, lo avevano portato a picchi di felicità che nemmeno pensava esistessero e da cui non era più disposto a scendere.
Ventisette anni! La sua vecchia vita si era fermata nel momento esatto in cui i suoi occhi si erano posati sui loro seni, era stata tutta risucchiata all'interno di una bolla ed era scoppiata, dissolvendosi nell'aria. E quella nuova, seppur durasse solamente da qualche ora, era già più piena, più intensa dell'altra.
Sentiva la loro pelle sotto le sue dita, aveva il loro corpo schiacciato contro il suo, e ne percepiva tutte le forme e ogni minima vibrazione; le loro gambe erano intrecciate alle sue, i loro piedi lo accarezzavano, senza nessun pudore e nessuna incertezza. I loro respiri accarezzavano il suo corpo e mentre una delle ragazze aveva le mani sul suo petto, l'altra teneva stretto il pene che non aveva intenzione di sgonfiare le proprie dimensioni; solo il sopraggiungere del sonno aveva arrestato il lento e dolce movimento delle dita della ragazza.
Erano tutti e tre sudati fradici, sporchi, ma l'odore pungente che penetrava nelle narici piaceva a Enrico e gli dava consapevolezza finalmente di far parte di qualcosa, di essere accettato da qualcuno per quello che era. E, cosa ancora più fantastica, non aveva più paura del numero dispari. Le due ragazze non si erano appartate da sole, non l'avevano mollato in un angolo per andare con altra gente (c'erano parecchie persone in quel casolare dove era stato portato, per quello che era riuscito a vedere), ma erano lì, con lui e per lui. Finalmente il suo "uno" era diventato pari! Il suo essere dispari non esisteva più.
E ancora... quanto parlavano! Proprio a lui, che non era mai riuscito a tenere conversazioni con nessuno! Mentre una gli faceva scoprire i piaceri che può dare la lingua, l'altra gli spiegava chi fossero mentre si faceva baciare i capezzoli; poi si davano il cambio e mentre una lo cavalcava, l'altra, seduta sulla sua faccia, lo incitava a baciarla e gli raccontava perché abitassero lì e cosa dovevano fare. Gli promettevano tanto, tanto sesso, anche con le altre ragazze del gruppo, tutte disponibili se lui accettava di diventare uno di loro, disposto a fare tutto quello che c'era da fare. E lui, inebriato dai loro sapori, perso nell'estremo piacere che gli procuravano, continuava a dire di sì, solo vagamente cosciente di quello che chiedevano. Non gliene fregava niente; si sarebbe buttato nel fuoco per loro. Aveva assaggiato a pieno quella vita, quella che non aveva mai avuto, quella esattamente opposta alla sua, e non aveva intenzione di rinunciarvi mai più.
«Ehi! Tu!»
Enrico sollevò la testa.
Sulla soglia della camera c'era una donna all'apparenza di mezz'età, riccia, con capelli neri crespi e arruffati, due grossi occhiali da vista, un po' sovrappeso e con un seno gigante che gli arrivava poco sopra l'ombelico; indossava solo un paio di mutandine di pizzo rosse che non riuscivano quasi per niente a coprire l'enorme ammasso di peli neri che spuntavano da sotto.
Un giovane della sua età con un normale curriculum sessuale, l'avrebbe probabilmente guardata con aria schifata; ma a lui, che stava vivendo la "serata delle prime volte", non faceva questo effetto, anzi. Nonostante il ben di Dio con cui stava giacendo, sentì l'erezione crescere ancora di più e vide le labbra della donna aprirsi in un mezzo sorriso.
«Seguimi! Veloce!»
Gli gettò i pantaloncini, abbandonati a terra quando gli erano stati sfilati dalle due giovani.
Enrico si mosse a fatica e malvolentieri, dispiaciuto di lasciare la sua alcova per... cosa? Chissà cosa voleva quella donna.
"Forse vuole fare sesso pure lei. Beh, perché no?"
Si districò a fatica dalla selva di corpi nudi e riuscì ad alzarsi.
Caterina mugolò qualcosa girandosi dall'altra parte, mentre Claudia non si mosse.
«Non so se riesco a infilarli» disse Enrico, tenendo i pantaloni in mano e guardando il suo pene, duro come non mai.
La donna emise una risata rauca e sguaiata, strizzandolo con violenza.
«È meglio se ci riesci, invece. Il Capo non permette che si vada in giro a culo nudo! Tranne che durante le Offerte.»
«Cosa sono le Offerte?»
«Lo vedrai.»
«Ma dove devo andare? A conoscerlo?» chiese, infilando l'indumento con estrema difficoltà.
«Scherzi? No, no. Sono arrivati i tuoi amici e vogliamo sia tu a parlarci. Stanno per svegliarsi.»
«I miei amici? Ma, perché dormivano?»
Di nuovo la donna rise forte e di nuovo Caterina si lamentò nel sonno.
«Sei divertente, sai? E anche ben fornito!»
Gli accarezzò la patta, ancora gonfia, compressa nei pantaloni; Enrico temette di veder esplodere la lampo.
«Non un granché fisicamente, ma piuttosto interessante qui sotto. Sei prenotato per un giretto, cocco!»
Gli prese una mano e se la mise senza nessuna esitazione sopra uno dei suoi enormi seni.
«Vieni. Dobbiamo spiegarti quello che devi dire a quei due. Ci aiuterai?»
Gli prese l'altra mano e se la infilò nelle mutandine.
Enrico deglutì.
«Fa... Farò tutto quello che volete...»
Roberto stava volando.
Ai fianchi teneva per mano sua moglie e suo figlio. E loro stringevano quelle di sua mamma. Formavano un quadrato, come aveva visto fare tante volte ai paracadutisti.
Fendevano l'aria con violenza e i loro capelli erano tutti sparati all'insù. Guardò un momento in basso e vide verdi colline e campi coltivati a perdita d'occhio. Sembrava si stessero ingrandendo e fu colpito all'improvviso da un profondo senso di vertigine. Poi cominciarono ad apparire le strade, piccole linee nere e sinuose all'inizio ma, via, via, sempre più spesse, sempre più larghe.
Non stava volando, stava cadendo, e la sua famiglia con lui. Con terrore guardò negli occhi i suoi cari, aprì la bocca ma non uscì nessun suono.
«Io non ho paura!» disse sua mamma, sorridendo.
Sembrava gli stesse leggendo nel pensiero.
«Sono già morta. Cosa vuoi che mi capiti? Tu devi averne, tesoro...»
Si voltò verso sua moglie che aveva lo sguardo fisso davanti a sé e non sembrava nemmeno consapevole di essere lì.
«Si è risvegliata, ma non del tutto» disse Andrea.
Si voltò a guardarlo; il ragazzo sembrava tranquillo.
«La userò! Proprio contro di te. Vedrai se non lo faccio.»
Non era più suo figlio che parlava. Al suo posto c'era un uomo pelato che non aveva mai visto. Eppure, credeva di sapere chi fosse.
«Roberto!»
Qualcuno lo chiamò. Voltò la testa di scatto ma non c'era nessuno, non c'era più nemmeno sua moglie e sua mamma e suo figlio (o l'altro!). Era da solo e la terra si avvicinava velocemente.
«Roberto!»
Di nuovo la voce risuonò, ma non capiva se fosse nell'aria o nella sua testa. Ormai distingueva le case, i giardini, le persone che vivevano la loro vita, sereni, senza sapere che lui stava per sfracellarsi al suolo.
"Te lo meriti! Ti meriti la stessa fine che hai fatto fare a tua mamma."
La voce era nella sua testa. Era la voce di Ismel, come l'aveva sentita nel messaggio.
«Roberto!»
Stavolta la voce l'aveva chiamato con più insistenza. La terra era vicinissima, poteva quasi vedere la porosità irregolare dell'asfalto che lo attendeva, quasi sogghignando, quasi bramandolo.
«Roby! Svegliati!»
Chiuse gli occhi preparandosi all'impatto, ma la caduta sembrava durasse all'infinito. Doveva già essersi spiaccicato al suolo ormai, invece continuava a sentire l'aria scivolargli sulla faccia. Sollevò appena le palpebre nell'esatto momento in cui la strada lo raggiunse; urlò e sentì un colpo a una gamba... Aprì gli occhi.
«Cazzo! Cominciavo a preoccuparmi! Credevo non ti svegliassi più. Devono averti dato una dose maggiore della mia. Forse perché sei più grosso...»
Roberto si guardò intorno, tremando ancora di vertigine e con un leggero senso di nausea che gli saliva dallo stomaco.
«Ehi, amico! Tutto bene? Stavi facendo un incubo?»
Si voltò, e vide Alberto che lo fissava con lo sguardo a metà tra il divertito e lo spaventato.
«Sul serio, tutto a posto Roby?»
Si accorse di avere entrambe le mani incatenate al muro, un muro sporco e umido alle sue spalle; Alberto, al suo fianco, era nella sua stessa situazione.
«Dove siamo?» riuscì a biascicare con un fil di voce, ancora turbato dal sogno e infastidito dal caldo soffocante che c'era dentro a qualunque cosa fosse il posto in cui stavano.
«Se intendi questo meraviglioso casolare dentro al quale ci hanno incatenati, direi una stalla. Se poi vuoi anche sapere dove si trova la stalla, beh... non ne ho la minima idea. Come non so chi ci ha preso. Forse la stessa gente che ha rapito Enrico. Mi sa che avevi ragione tu. La cosa sicura è che siamo in una bella situazione di merda!»
«Ma cosa è successo?»
Roberto cercava di mettere a fuoco quello che aveva intorno e riordinare gli ultimi pensieri che ristagnavano nella sua mente; impiegò diversi secondi per rendersi conto che l'oscurità in cui erano immersi era data dal fatto che doveva essere ormai sera.
Davanti a loro, una porta era aperta, ma dall'esterno filtrava solo una pallidissima luce, l'ultimo rigurgito del tramonto o il primi sussulto della luna. Nonostante la sera fosse ormai arrivata, la cappa di calore era immutata.
«Quanto abbiamo dormito?»
«Un bel po'. Direi quattro, cinque ore. Che ora era quando eravamo in chiesa? Le tre? Forse le quattro? Credo che ora siano almeno le nove. Tu non ricordi niente?»
Roberto scosse la testa. Aveva le tempie che pulsavano e avrebbe voluto stringersele con le mani. La situazione era piuttosto inquietante.
«Ricordo che siamo usciti fuori dalla chiesa,» continuò Alberto, «e tu mi hai indicato la strada dell'indirizzo. Poi, buio completo...»
«Ho sentito una puntura sulla spalla...»
«È vero! Ora ricordo! L'ho sentita anch'io...»
«Erano nascosti dietro al portone e ci hanno iniettato un sonnifero molto potente. Bastardi!»
«Dici che c'entra Ismel?»
Roberto scosse di nuovo la testa. «Non credo. Non avrebbe bisogno di una siringa per catturarci! Questa qui è gente come noi, mi sa. E non so se sia peggio...»
«Ciao, ragazzi!»
Una figura nera era ferma sulla porta, e interruppe le loro riflessioni.
Nonostante l'oscurità della sera ne mostrasse solo i contorni, la rotondità delle forme lasciava pochi dubbi su chi fosse. Ma se ancora ne fossero rimasti, furono spazzati via dalla vocetta acuta e ridicola, resa ancora più stridula dal leggero eco provocato dall'alto soffitto di quella che, ormai, avevano capito essere una stalla.
Teneva qualcosa in mano, che si rivelò essere una grossa lampada a pile non appena l'accese e l'appoggiò su una mensola ai lati dell'ingresso, puntandola su di loro e illuminando quasi a giorno l'ambiente.
Enrico avanzò, ancora più grottesco di come lo conoscevano, se mai fosse possibile.
Aveva addosso solo lo stesso paio di jeans corti di cui non si scorgeva la vita, completamente ricoperta dallo strabordare della pancia che ricadeva flaccida e sobbalzava a ogni passo. Persino l'orlo delle due gambe era nascosto dalla ciccia delle cosce, che sembrava addirittura risalire verso l'alto, quasi sfidando le leggi della gravità. Era scalzo, e i piedi, piccoli, paffuti, rosa, con chiazze rosse e bianche sparse qua e là, avevano le unghie sporche e nere. Sorrideva, e la sua faccia pareva una palla perfettamente tonda, forse per le gote, rosse come due mele, o per i capelli, neri, lisci e schiacciati sulla testa come se fossero stati leccati da una delle vacche che, forse un tempo, erano state ospiti lì dentro; o magari era semplicemente l'impalpabile alone che gli occhi ancora intorpiditi dei due uomini, abituati a ore di buio totale, percepivano intorno a quel testone illuminato.
Pareva un grosso porcello che camminava sulle due zampe, e ad Alberto, allo stupore iniziale per l'improvvisa apparizione, era subentrata dapprima ilarità, la stessa che aveva trattenuto a fatica quella mattina, quando l'aveva sentito parlare per la prima volta, poi una sorta di tenerezza mista a disgusto che crebbe a dismisura quando Enrico li raggiunse, portandosi dietro le zaffate di intensa puzza di sudore che si portava appresso.
Alberto storse il naso e diede un'occhiata a Roberto che non pareva provare le sue stesse repulsioni o, nel caso, non le dava a vedere; fissava il ragazzo con le labbra serrate e gli occhi stretti, facendo trasparire un sospetto rabbioso, misto forse a una profonda e cocente delusione. Ci furono trenta, lunghissimi secondi di silenzio, poi lo stesso Roberto ruppe il ghiaccio.
«Per quale assurdo motivo te la sei filata con la nostra auto e ora sei libero, mezzo nudo e sorridente, mentre noi due siamo stati narcotizzati e incatenati, e siamo incazzati neri?»
Parlò con lentezza ma senza pause, scandendo le parole come se leggesse, e il tono che tenne, farcito di quella curiosità del tipo "te lo chiedo, ma so già che la tua risposta mi farà infuriare come una bestia!", disegnò un lieve sorriso sulle labbra di Alberto.
«Non me la sono filata.»
Il sorriso di Enrico si era un po' affievolito.
«Mi hanno ordinato di salire sull'auto e di guidare fin qui, minacciandomi con un coltello.»
«Ah sì? E perché non sei qui con noi, allora?»
«Perché io sono diverso, e loro l'hanno capito subito.»
E, di nuovo, gli si riallargò il sorriso.
Alberto sbottò. «Ma che cazzo hai da ridere tanto? Cosa vuol dire che sei "diverso"?»
«Suppongo che non ci libererai, vero?» aggiunse Roberto.
Enrico li fissò per qualche secondo. La felicità che provava per quell'inaspettato cambio di rotta della sua vita premeva sul suo viso con prepotenza e lui non poteva farci nulla. Non voleva, farci nulla. Che cavolo! Per la prima volta si sentiva considerato, qualcuno si era accorto di lui. Perché non avrebbe dovuto esternare la sua soddisfazione, quindi? Quei due erano arrabbiati? Peggio per loro. Dopotutto, chi erano per lui? Nessuno. Li conosceva da nemmeno un giorno e non erano nulla per lui. Proprio nulla!
«No! Non ci libererai.»
Roberto rispose alla sua domanda, vedendo la risposta disegnata con molta chiarezza sul volto di Enrico.
«Ci sono cose che dovete capire...»
«Cosa c'è da capire, stronzo? L'unica cosa che conta è la nostra ricerca, la nostra missione per salvare l'umanità e tu ce la stai impedendo in questo momento.»
Stavolta il ragazzo rise di gusto. La sua voce, già parecchio acuta, squillava ancor di più, tanto che pareva lo facesse apposta.
«Non esiste nessuna missione, nessuno scrigno. Niente di niente. Siete stati ingannati. Ismel è venuto qui per guidarci, per insegnarci nuovi metodi, per mostrarci nuove vie. Non va fermato, né combattuto. Va supportato.»
Roberto aggrottò la fronte e, per una frazione di secondo, il suo sguardo incrociò quello di Alberto. «Ma che cazzo stai dicendo?»
«Solo la verità. Qui, c'è solo quella. Nient'altro.»
«Oh, no!» proruppe Alberto, rivolto all'amico. «È una merda di setta! Avevo il timore, ma speravo di sbagliarmi.»
«QUESTA NON È UNA SETTA! È UNA GRANDE FAMIGLIA CHE AGISCE SOLO PER IL BENE DELL'UOMO!»
Il viso di Enrico era diventato tutto rosso e aveva cominciato a camminare avanti e indietro.
«Ma per favore! È sempre così... Ogni volta che si verificano situazioni estreme, di qualsiasi genere, ci deve sempre essere un gruppo di imbecilli che leccano il culo a qualcuno che definiscono "carismatico"! È così anche qui, vero?»
Il ciccione si fermò e di nuovo rise. «Lo scetticismo sarà la vostra rovina!»
«Dimmelo, dai! Avete un capo o no? Pendete tutti dalle sue labbra?»
«Non l'ho ancora conosciuto, ma è un grand'uomo a quanto dicono.»
Alberto sputò a terra. «Come no! Un mentecatto con manie di grandezza!»
«Ma come ti permetti...»
«Calma, calma!» intervenne Roberto, trattenendo a fatica la furia che sentiva montare dentro.
«Facciamolo parlare, Alby. Sono curioso di sentire tutta la storia. Innanzitutto... Qui, dov'è? Dove siamo?»
«Non ci siamo spostati di molto. Siamo a Villanova, precisamente in via Ca' dell'Orbo. Una bella e grande casa a due piani con stalla e capannone annessi, circondata da campi.»
«La conosco! I miei suoceri abitano... abitavano qua vicino. Ci passavamo davanti di continuo quando andavamo da loro.»
«La padrona di casa si chiama Clara. La sua famiglia è stata catturata sabato pomeriggio, lei, invece, si è salvata. La sentinella ha gonfiato la bolla proprio nel campo qui davanti e Clara è rimasta a guardare suo marito e i suoi figli dalla finestra per tutto il giorno, impotente e disperata. La notte, quando è iniziata l'estrazione, aveva deciso di raggiungerli, gettandosi contro, senza sapere cosa sarebbe successo. Non le interessava più vivere o morire a quel punto. E sapete perché?»
«Presumo che ce lo stai per dire...» ironizzò Alberto.
Enrico si girò e andò a prendere un vecchio e malandato sgabello abbandonato in un angolo. Lo trascinò davanti ai due prigionieri e vi si sedette. Il legno scricchiolò, ma resse il peso del ragazzo.
«Perché non aveva ancora capito! Come voi...»
«Guarda che ho capito benissimo, invece.»
Alberto sembrava sul punto di perdere il controllo.
Roberto lo fissava con la speranza di vederlo usare di nuovo i suoi poteri, come aveva fatto alla fabbrica. Gli sarebbe piaciuto capire perché lui non ci riusciva; aveva già fatto cilecca una volta e anche adesso, che ce ne sarebbe stato bisogno, non sentiva nulla scorrere in lui; non sentiva nemmeno quel calore che di solito giungeva quando toccava Veronica. Il pensiero della ragazzina lo riempì di nostalgia; lei li avrebbe potuti salvare, su questo non aveva dubbi. Ma non c'era, come non c'era suo figlio. Erano tutti in viaggio verso l'FDS. Loro due, Camilla, Dalila, Giancarlo, Laura e la piccola. Quanto avrebbe voluto esser con loro, in quel momento! Si chiese se li avrebbe più rivisti; l'attuale situazione suggeriva di no.
«Ho capito che qui è tutta una merda, te compreso!» continuò Alberto, al momento, aggressivo solo a parole.
«Continua! Continua pure a offendere. Coraggio! Siete voi due però a essere incatenati al muro, non io.»
«Liberami allora, stronzo d'un panzone! E vediamo cosa succede...»
Enrico ridacchiò.
«Lascialo finire, Alby.»
Roberto cercò di comunicargli con lo sguardo di stare calmo. «Continua, dai. Cos'è che l'ha fatta capire, questa... Clara?»
«Lui! Il Capo.»
«Intendi Ismel?»
«No! Ma che dici? Ismel non si mescolerebbe mai con noi. Il Capo è un uomo come me, come te, come lui, e di cui ignoro ancora il nome. Ancora non l'ho incontrato. È stato il primo essere umano a finire sotto a una bolla e l'unico a essere liberato, qualche minuto dopo esserci finito. È arrivato qui sabato notte, proprio quando Clara si stava incamminando verso la bolla e il proprio destino. L'ha fermata e le ha aperto gli occhi.»
Roberto scambiò l'ennesimo sguardo scettico e preoccupato con Alberto.
«Scusa, ma non capisco. Questo tizio sarebbe stato liberato? Da chi? E perché?»
«Come da chi? Da Ismel, ovvio. Chi altri potrebbe, altrimenti? Sapeva che il primo "ospite" delle sue bolle doveva essere per forza un essere speciale. L'ha lasciato qualche minuto dentro per analizzarlo e per fargli vedere il suo disegno. Poi ha ordinato alla sentinella di liberarlo. A quel punto il Capo sapeva cosa doveva fare e...»
«No, aspetta! Scusa se ti interrompo...»
«Che fai, Roby? Ti scusi con lui qua?»
«Buono, Alberto, per favore. Devo capire bene. Dov'era la bolla del... Capo?»
«Vicino a Piazza Maggiore. Alle macerie della piazza, per dirla meglio. La prima a essere stata creata e la più vicina di tutte al robot.»
«Il robot che ha distrutto tutto, intendi?»
«Esatto.»
«E la Torre degli Asinelli?»
«Boh! Presumo sia lì anche quella. Non faceva parte del robot?»
«Cazzo! E Ismel...»
«Ismel è là, che attende.»
«Attende... cosa?»
«Che i meritevoli arrivino da lui.»
Roberto sbuffò mentre Alberto scuoteva la testa. Enrico li ignorò e continuò.
«I meritevoli sono tutte le persone, tra quelle sfuggite alla prima cattura, che meritano di continuare. I Fratelli, così li chiama il Capo. Il compito dei Fratelli è andare in giro a cercarne altri. Tra ieri e oggi, hanno scovato dodici persone, esclusi noi. Tra questi, mi ha detto Clara, ce ne sono due che non hanno gradito quello che veniva loro offerto. Ecco, loro sono Agnelli, non meritevoli; sono imprigionati nell'altro capannone. Quando...»
Alzò una mano, stoppando l'ennesimo intervento di Roberto.
«Fammi finire. Quando il Capo lo dirà, raggiungeremo Ismel e ricominceremo, insieme a tutti i Fratelli del mondo.»
«Amen!» concluse Alberto.
«Sfotti pure, ma la realtà è questa.»
«E come fate, da Castenaso, a reclutare tutti i Fratelli del mondo?»
In una situazione normale, Roberto avrebbe ascoltato quel mucchio di stronzate sorridendo, provando quasi tenerezza per l'ingenuo candore di quel ragazzo, in evidente stato confusionale. Ma in quel momento provava solo preoccupazione, rabbia, incredulità, paura. La sentiva crescere nel cuore e si sentiva inutile e impotente. Come poteva combattere Ismel se non riusciva nemmeno a contrastare un gruppo di patetici fanatici?
«Questo non lo so» rispose Enrico. «Vi ho detto tutto quello che mi ha riferito Clara.»
Prese la parola Alberto. «Quello che non capisco è perché questo reclutamento non lo fa direttamente Ismel. Con i poteri che ha, potrebbe reclutare i... Fratelli in un attimo, no? Perché affidarsi a un normale essere umano?»
«Vuole testare le nostre capacità, presumo. E comunque, il Capo non è una persona normale. È un grand'uomo, altruista, coraggioso e con grandi capacità»
«Ma se hai detto che non l'hai mai visto!»
«L'ho intuito dai discorsi di Clara e degli altri. E lo conoscerò presto, me l'hanno promesso. Vive al piano di sopra della casa, ma al momento solo a Clara è permesso salire da lui.»
«In tutta onestà...» disse Roberto. «Tu credi sul serio di essere meritevole?»
Enrico lo fissò per un attimo.
«Ho sempre avuto una bassissima considerazione di me stesso, per colpa delle persone che ho avuto intorno in tutta la mia vita, a partire dalla mia famiglia, fino ai compagni di scuola. L'unica persona che mi ha sempre trattato in modo decente è stato mio nonno.»
Si strofinò l'occhio, commosso.
«Ora comprendo che non ho mai incontrato le persone giuste. Almeno fino a oggi! I ragazzi che mi han portato qui hanno capito subito cosa ho da offrire, hanno percepito la mia sensibilità, il mio bisogno di dare e ricevere. Hanno visto che io sono un Fratello, e mi hanno trattato come nessuno ha mai fatto. Finalmente sento di contare qualcosa, di avere uno scopo. Finalmente anche le donne mi guardano con occhi diversi...»
«Ah, ecco! Ora ho capito tutto!» ridacchiò Alberto, rivolto a Roberto. «C'è la patatina, sotto. Quella è sempre efficace, quando vuoi convincere qualcuno di qualcosa.»
«Piantala!» Enrico si grattava nervosamente la testa.
«Qualche bella ragazzina ti si è concessa in queste ore, vero?»
«Piantala!»
«E pur di continuare a goderne, ti bevi ogni minima cagata.»
Enrico si alzò di scatto, rovesciando lo sgabello e piantando i piedi proprio davanti al rivale.
«Loro sono pazze di me. Mi han detto che non saranno mai stanche del mio corpo e che posso avere anche tutte le altre.»
Alberto cominciò a ridere, facendosi venire quasi le lacrime agli occhi. Anche Roberto accennò un sorriso, riuscendo però a contenersi.
«Addirittura, sono più di una e tutte insaziabili di te? Di un patetico ciccione che puzza di sudore? Sai vero, che sono solo delle troiette ammaestrate, per fare in modo che tu creda...»
Il pugno di Enrico lo zittì, centrandolo all'altezza dello zigomo sinistro. Il ragazzo si portò la mano dolorante al petto, lisciandola con l'altra.
«Io sono pari adesso! LORO, mi fanno sentire pari. E non tornerò mai più indietro.»
Roberto strinse gli occhi. «Cosa intendi per pari?»
«Hanno dei dubbi su di voi,» continuò Enrico, ignorando la domanda «e hanno mandato me per verificare se sono dubbi fondati. Ed è tutto molto chiaro: siete due Agnelli.»
«Enrico, ascolta.» Roberto cercò di condire la voce con il tono più amichevole possibile.
«Ti stanno facendo il lavaggio del cervello. Non so quale intenzioni abbia questo... Capo, ma ti assicuro che quello che ti hanno detto, è tutta, un'enorme bugia!»
«Confermo!»
Un rivolo di sangue colava dal naso di Alberto che aveva abbandonato il tono aggressivo e canzonatorio tenuto fino a quel momento.
«Sono tutte stronzate! Ismel non è venuto qui con intenti amichevoli. Quello che ti ho raccontato stamattina in macchina, è la verità. Ne ho le prove.»
«Silenzio! Lavaggio del cervello? A me? A voi l'hanno fatto. È che siete stolti e non lo vedete. Veramente pensate d'avere dei poteri dentro di voi?» Rise. «Siete Agnelli. In tutto e per tutto. E io non ho più niente da dirvi.»
Si girò e s'incamminò verso l'uscita.
«Ci hai detto dei Fratelli, ma posso chiederti cosa succede agli... Agnelli?» chiese Roberto deglutendo, con un improvviso e sgradevole sapore amaro che gli infastidiva le papille.
«Lo vedrete con i vostri occhi molto presto. Tra poco avverrà la prima Offerta, proprio qui fuori. E lo scoprirò anch'io. Clara non ha voluto anticiparmi niente per non rovinarmi la sorpresa.»
E sparì, nel buio della sera.
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