Il municipio di Castenaso era un palazzo rettangolare di due piani con i muri dipinti di rosa, separato dalla strada principale da una piazzetta piccola e ben curata, alberata, ornata da aiuole e vasi di fiori.
Poiché i genitori di Lina abitavano a Villanova, una località adiacente al paese, Roberto passava lì davanti molto spesso per andare a trovare i suoceri, e rimaneva sempre colpito dall'aspetto, ordinato in maniera ossessiva, che aveva quel posto: siepi perfettamente pareggiate tra loro, alberi potati, fiori rigogliosi e colorati in qualunque stagione, le piastrelle del selciato pulite, quasi risplendenti nelle giornate di sole. Aveva sempre pensato che fosse il desiderio del sindaco di turno di dare una bella immagine del paese, ed era convinto di non essere troppo lontano dalla realtà.
In quel caldissimo lunedì di giugno, stava contemplando la facciata anteriore del palazzo non, come solito, dal finestrino della macchina in corsa, ma dal ciglio della strada, in piedi, immobile, e nonostante i suoi occhi vedessero una scena ormai tristemente consueta, si sentiva turbato più del solito.
La parte sinistra dello stabile era crollata, forse per i troppi buchi causati dalle incursioni della sentinella (rabbrividì!), e le macerie avevano del tutto sommerso la fila di vasi che in genere ornava quel lato dell'ingresso. Il portone era stato divelto e giaceva, spezzato a metà, sopra a un cumulo di calcinacci. Nell'altro lato, quello rimasto integro, le finestre erano senza vetri e le tende rosse che le adornavano erano state portate via, tranne una, rimasta penzolante, attaccata ormai solo a uno dei ganci, come se si fosse intestardita a voler restare al suo posto.
«Che ti succede, amico?» chiese Alberto, fermo davanti all'ingresso. «Non è il primo palazzo distrutto che incontriamo...»
«Sì, ma tu non l'hai visto com'era prima! Era sempre tutto talmente... perfetto, che vedere com'è ora, non so perché, mi sconvolge.»
Alberto tornò indietro e gli posò una mano sulla spalla. «Dai, vieni. Non pensarci...»
«Perché hanno staccato le tende?» disse Roberto, come se non avesse sentito nulla di quello che l'altro gli diceva.
«Cosa dici?»
Alberto stava tornando verso l'entrata, scansando i blocchi di pietra caduti a terra.
«Tutte quelle finestre erano coperte da tende rosse. Perché le hanno tolte, lasciandone solo una? Non è un comportamento da sentinella. O almeno, non di quelle che abbiamo incontrato noi.»
Alberto guardò la parte del palazzo ancora in piedi. Poi scosse la testa.
«Ma che ti frega, scusa? Magari quella che ronzava qui intorno doveva arredare casa!»
Roberto lo fissò con sguardo severo. «Non mi pare il momento di scherzare!»
«Scusa, scusa. Volevo solo alleggerire la tensione. È che non credo ci interessi sapere il perché non ci sono più le tende di un palazzo semi crollato. Tutto qua.»
Si riavvicinò all'amico. «Andiamo a cercare quello che ci serve?»
Roberto sudava, e sapeva che non era solo per l'afa.
«C'è qualcosa di sinistro in questo paese. Non chiedermi cosa, ma non mi piace l'atmosfera.»
Alberto si guardò intorno. «Non mi sembra molto diverso da San Lazzaro o da quelli da cui sono passato per arrivare qui. Scusami, ma con quello che è successo penso che l'atmosfera sinistra ci sia un po' dappertutto. Almeno qui non ci sono corpi stesi per terra.»
«Solo perché la piazzetta è troppo piccola. Sono sicuro che, se andassimo dalle parti del palazzetto dello sport, ne troveremmo tanti.»
«Non ci tengo a vederli!»
«Tutto bene?» gridò Enrico, sporgendosi dal finestrino. «C'è un caldo infernale qui dentro.»
Smontò e si appoggiò all'auto.
«Sicuro che non vuoi venire dentro?» gli chiese Alberto.
«No. Vi aspetto qui.»
I due uomini lo fissarono per qualche secondo, poi si avviarono e, facendo attenzione a non inciampare, entrarono nel municipio.
L'interno, com'era prevedibile, non era messo meglio.
La luce del sole entrava senza nessun problema dal lato mancante del palazzo, e illuminava quello che doveva essere stato il bancone delle informazioni, ancora al suo posto, ma ricoperto di polvere e calcinacci vari. A destra partiva un piccolo corridoio con varie porte ai lati e, in fondo, la scala che portava al piano di sopra, o almeno, a quello che ne restava.
«Cerchiamo di sbrigarci. Non vorrei crollasse anche tutto il resto» disse Roberto, guardandosi intorno con aria agitata.
«Dobbiamo scoprire dove abitano i nostri due piccioncini, altrimenti come facciamo a trovarli?»
«Questa volta credo che non saremo fortunati come con Enrico. È desolato questo paese.»
«Roberto! Ancora? Che ha di diverso dagli altri? Quanta gente c'era in giro a San Lazzaro?»
«Non è quello! Te l'ho già detto... Non so cosa sia, ma c'è qualcosa che mi turba.»
Alberto tacque, per non iniziare una discussione che non avrebbe portato a nulla e avrebbe solo fatto perdere altro tempo. Si avviò verso il corridoio ed entrò nella prima porta a sinistra.
All'interno della minuscola stanzetta c'era un caos tremendo. Le due scrivanie erano state rovesciate, i computer e gli schermi erano scassati per terra, gli armadi erano spalancati e tutto quello che doveva esserci stato all'interno, giaceva sul pavimento.
«Vedi cosa intendo?» disse subito Roberto, appena varcata la soglia. «Le sentinelle non rovistano negli armadi! C'è stato qualcuno, qui.»
«Oh mamma, Roby! Ma di cosa ti preoccupi? Qualcuno è sfuggito alla cattura ed è venuto a cercare provviste o altro.»
«Provviste? In municipio?»
«Insomma... Come troviamo quello che cerchiamo? Non su internet, sicuramente» disse Alberto, sollevando sconsolato il disco fisso di uno dei computer, spezzato e ricoperto di polvere.
«Anche perché, a prescindere, manca l'elettricità» aggiunse Roberto.
«Già! Me lo scordo sempre...»
«Dobbiamo trovare qualche registro cartaceo. Non so... Non me ne intendo di queste robe. Odio la burocrazia.»
«E se i registri sono sotto le macerie?»
«Amen! Senti, diamo un'occhiata in queste stanze, velocemente. Se non troviamo nulla, pensiamo a qualcos'altro, ok?»
«Tipo?»
«Non lo so! Adesso cerchiamo, dai. Non voglio restare qui dentro a lungo.»
C'erano sei stanze lungo il corridoio, e ognuna, come la prima, sembrava essere stata investita da un tornado: scrivanie ribaltate, ammassi di fogli sparsi ovunque, raccoglitori aperti, e pezzi di computer a cui era stata riservata la cura maggiore da chiunque fosse entrato lì dentro.
«Ci tocca salire, cazzo!» esclamò Roberto, uscendo dall'ultimo ufficio e fermandosi davanti alla scala.
«Di cosa hai paura? Se non è crollata finora...»
«Appunto!»
«Dai, dai. Pensa che lo stiamo facendo per la salvezza dell'umanità!»
«Mi chiedo se ci credi veramente a sta cosa...» disse Roberto, mettendo il piede sul primo gradino.
«Certo che ci credo! E la fortuna che ho avuto fin qui con gli scrigni, mi dice che sono... siamo sulla strada giusta.»
Appena giunse sul pianerottolo del piano superiore si mise a ridere.
«Guarda! Vedi che ho ragione?»
Indicava con il dito la targhetta appesa al muro, a fianco della porta che avevano di fronte. C'era scritto "UFFICIO ANAGRAFE".
«Sono sicuro che lì dentro troveremo quello che cerchiamo.»
Roberto non disse nulla, ed entrò per primo.
Appoggiato alla Ford, Enrico fissava il municipio, (o quello che ne restava), sudato fradicio. Aveva adocchiato una panchina lì vicino, parzialmente ombreggiata dall'albero piantato dietro, ma era immerso nei suoi pensieri e nonostante la stesse fissando quasi senza sbattere le palpebre, in realtà non la stava guardando sul serio.
Rifletteva sulla storia che quei due strani tizi gli avevano raccontato e a come avrebbe loro riso in faccia, in situazioni normali; sarebbe stata un'ottima trama per un romanzo o per un film, ma propinarla come storia reale... beh, forse anche per un bambino sarebbe stata troppo fantasiosa.
Ma non si trovavano in una situazione normale, e tutte le cose che aveva vissuto e visto con i propri occhi in quei due giorni (due giorni! Sembravano passati mesi!), la rendevano parecchio complicata da sconfessare. Nessuno, tra i pochi sfuggiti alle bolle, poteva più permettersi il minimo dubbio, il minimo scetticismo.
Eppure, avrebbe voluto disperatamente trovare qualcosa a cui aggrapparsi, per potersi girare dall'altra parte e mandare tutto e tutti al diavolo. Ma non c'era nulla. La sua testa era vuota come il paese in cui si trovava.
Li aveva ascoltati con tutta l'attenzione di cui era capace, ma non appena aveva intuito di far parte di una squadra che avrebbe sfidato quel fantomatico alieno, le sue orecchie si erano come tappate e l'occhio di bue nella cabina di regia della sua mente si era focalizzato solo ed esclusivamente su questo fatto, lasciando al buio tutto il resto. Aveva cercato di non farlo vedere ai due uomini, rimanendo il più possibile normale, ma il suo cuore aveva iniziato a battere i colpi in maniera esagerata e la gola gli si era seccata, più di quanto la calura potesse mai fare. Non era mai stato una persona coraggiosa, tutt'altro.
Fin dai tempi della scuola il suo aspetto rubicondo e impacciato aveva attirato le prese in giro dei compagni e, spesso, qualcosa di più. Le sue reazioni ronzavano sempre intorno all'implorare e al piangere, con la vocetta stridula e ridicola che gli usciva dalla bocca; la odiava, e finiva per peggiorare, di fatto, le cose.
Ma, da pavido qual era, non aveva mai detto niente a nessuno, tantomeno in famiglia, per la vergogna che la sua stessa persona gli suscitava. Il solo che avrebbe potuto comprenderlo e forse, aiutarlo, sarebbe stato suo nonno, l'unica persona, all'interno della sua infelice vita, che l'aveva sempre trattato nel modo giusto. Ma se n'era andato tanti anni prima, lasciandolo naufragare nella tempesta della sua esistenza. Temendo quindi di peggiorare le cose, le subiva, in silenzio, sperando che, prima o poi, i bulli si stancassero di lui.
Successe a metà del terzo anno di liceo e nemmeno lui seppe mai il perché.
"Forse perché non do loro più soddisfazione!" aveva pensato.
Ma l'evento, tanto sperato in quegli anni, non portò miglioramenti nella sua vita.
Da calamita per ogni battuta, ogni scherzo, si era trasformato nell'esatto opposto, quasi fosse diventato invisibile. Nessuno parlava con lui, nessuno nemmeno lo guardava; persino i professori si rivolgevano a lui quasi solo per interrogarlo.
Arrivò al punto di rimpiangere il periodo in cui veniva bullizzato, quando, anche solo per deriderlo e schernirlo, gli occhi degli altri studenti (e delle studentesse), perlomeno si posavano su di lui. Ora, quegli stessi sguardi lo trapassavano come fosse fatto di vapore evanescente, umiliandolo ancora di più, facendogli odiare tutti, sé stesso per primo.
In classe erano ventuno, con undici banchi da due posti; Enrico sedeva da solo.
La cosa non cambiò fino al diploma, nonostante avesse sempre sperato che qualcuno se ne andasse, o arrivasse, in modo da poter avere anche lui un compagno di banco. Forse, in quel caso, avrebbe trovato il coraggio di dire qualcosa e chissà, magari allacciare qualche amicizia.
Era vero che nessuno lo considerava, ma lui non faceva niente per cambiare i fatti.
Arrivava in classe, si sedeva, ascoltava le lezioni e tornava a casa. Non lasciava il suo posto nemmeno durante l'intervallo, e rimaneva da solo a leggere i suoi fumetti, ignorato dagli altri, compatito dai professori. Ingrassò in quegli anni, aggiungendo chili a quelli che già aveva in eccesso e, quando al quinto anno, s'innamorò di Barbara, la ragazza seduta davanti a lui, maledisse il suo aspetto, la sua voce e tutto il resto. Accantonò l'amore in un angolo del suo cuore, insieme alla speranza di trovarsi un amico; i giorni scivolarono via veloci e, dopo la maturità, non la vide mai più.
Finita la scuola si mise a lavorare nell'officina del padre, sotto casa, e s'isolò ancora di più.
Quando non lavorava stava rintanato in camera sua e col passare degli anni, la questione del "numero" divenne prima un'ossessione, poi un'abitudine. Era "uno", era "dispari", e sempre lo sarebbe stato. S'immerse ancor di più nei fumetti, nei videogiochi e nel porno, tanto porno, l'unico modo che aveva a disposizione per poter vedere una donna nuda.
Una sera, guidato da un coraggio per lui insolito, andò con una prostituta; raggiunse un precoce e patetico orgasmo non appena lei si tolse il reggiseno e posò la mano sulla sua gonfissima patta. Si vergognò come un cane, trafitto dallo sguardo della donna, pieno di commiserazione e disgusto, lì con lui solo perché pagata. Enrico non ripeté più l'esperienza.
Conscio che mai avrebbe avuto una ragazza, assuefatto dalla pornografia, diventata più un'abitudine che una necessità, aspettava con impazienza l'estate, quando le clienti venivano in officina con le canotte scollate, le gonne corte e i piedi nudi, infilati in sandali e ciabattine. Ci fantasticava sopra per giorni, nonostante si rendesse conto di quanto la cosa fosse patetica. Di quanto, davvero, lui fosse patetico e ridicolo.
Ritrovatosi dentro al gruppo di sopravvissuti, all'interno della fabbrica, si era accorto ormai di non essere più in grado di stare a contatto con le persone, sebbene desiderasse con ogni sua fibra il contrario; non ne era più capace, come se gli anni di solitudine gli avessero sgonfiato il muscolo della socializzazione, rinsecchendolo, avvizzendolo, inaridendolo e costringendolo a isolarsi in un angolo, sperando che gli altri facessero esattamente quello che tutti avevano sempre fatto con lui: ignorarlo.
Erano in ventitré in quel gruppo, un altro numero dispari che lo tormentava, un complesso che l'avrebbe accompagnato per tutta la vita. Non c'erano banchi e coppie che si formavano questa volta, ma la paura di vedersi escluso era ormai talmente radicata in lui, da non riuscire a pensare ad altro. Ma, quella volta, in modo del tutto inaspettato, non era stato così.
Una donna (gli pareva si chiamasse Liliana), guida all'interno del gruppo, l'aveva avvicinato e gli aveva parlato.
Una donna stava parlando con lui! Una donna con le gambe nude. Poco importava se non fosse più giovanissima. Enrico non era riuscito a staccare gli occhi dalle sue cosce e dopo aver balbettato una qualche risposta alle domande che lei faceva, era scappato in bagno a masturbarsi. E mentre lo faceva, piangeva, nel vedere la tristezza permeare i suoi gesti, nel riconoscere la sua incapacità a contrastare gl'impulsi patetici che lo costringevano a quelle che, ai suoi occhi, erano umiliazioni, semplici e crudeli umiliazioni.
Anche gli altri compagni erano riusciti a coinvolgerlo, perlomeno per conversare; Enrico percepiva la fatica che faceva a relazionarsi, e si sforzava di stare un po' al loro gioco, ma non appena poteva, sgattaiolava via per tornare alla sua, ormai amata, solitudine.
Quando la sentinella irruppe nel loro nascondiglio, lui era rannicchiato nell'angolo più lontano dell'ufficio, in fondo alla fabbrica, tremando e piangendo come un bambino. Chi mai poteva pensare che un grasso, inutile, molle essere come lui, potesse avere qualcosa a che fare col salvare il mondo? Colui che non era nemmeno riuscito a denunciare gli atti di bullismo subiti? Eppure, questo aveva detto Alberto. Faceva parte della squadra che avrebbe affrontato quel mostro, a causa di una sorta di energia che aveva dentro di sé.
Quindi, in fondo, aveva qualcosa di speciale pure lui?
"L'hai ereditata dalla mamma che, a sua volta, l'ha presa dalla nonna. È tutto causale. Non illuderti di essere qualcuno. Sei sempre la solita nullità!" pensava, senza riuscire a contraddirsi.
Stava ancora fissando la panchina, ma continuava a non vederla.
La sua mente era concentrata sul disastro avvenuto nel centro di Bologna; nelle sue orecchie ronzavano le parole udite uscire dallo schermo viola del televisore. Un gelo improvviso partì dal collo, scese giù per la schiena risucchiando l'afa del pomeriggio, lasciandogli la sgradevole sensazione di sudore freddo appiccicato alla pelle.
Non era solo Ismel che lo terrorizzava! Temeva la squadra, il dover stare con altra gente, in cui, sapeva già, vi erano anche delle donne. Conosceva le sue reazioni e il pensiero che qualcuno le notasse o, peggio, le scoprisse, gli appesantiva lo stomaco per l'imbarazzo, se non proprio per la vergogna.
Ma, più di tutto, aveva paura del numero di componenti di questa fantomatica squadra: nove! Li aveva contati mentre gli raccontavano tutto. Nove, ovviamente un numero dispari, un altro stramaledetto numero dispari. Come poteva convivere con quell'assurda fobia e allo stesso tempo pensare di allacciare rapporti con persone che si aspettavano da lui imprese mirabolanti?
Già si sentiva a disagio con Alberto e Roberto, perché, insieme a lui, formavano un gruppo di tre; anzi, era meglio dire di "due più uno"! E quell'"uno" era lui, un ciccione che avevano incontrato per caso e che si portavano appresso più per bontà del loro cuore.
"Il loro atteggiamento dimostra l'esatto contrario, però. Anzi, sono stati piuttosto gentili, soprattutto Roberto" pensò.
Ma era inutile... Lui non riusciva a stare con le persone.
Per questo se ne era rimasto lì alla macchina e non era entrato in quel rudere. Aveva voglia di starsene da solo, anche perché il suo cuore, testardo e ostinato, continuava a fargli credere che fosse meglio così.
Alberto aveva lasciato le chiavi dell'auto attaccate al quadro, ennesima dimostrazione di fiducia. La tentazione di mollarli lì era forte; rubare la macchina e andarsene, voltando le spalle a tutto e a tutti, alle responsabilità che, a quanto pareva, gli stavano piovendo sulle spalle e, in generale, alla possibilità di una nuova e insperata vita.
"Ma non lo farai mai, perché sei un codardo e un misero vigliacco!"
Aveva una così bassa considerazione di sé che non riconosceva nemmeno in quel frangente quello che, a tutti gli effetti, era coraggio, nascosto, mascherato, sepolto sotto una spessissima coltre di anni perduti ad affossarsi sempre più; ma di fatto, coraggio. E lealtà, verso i suoi due nuovi amici.
«Ciao!»
Enrico sussultò, voltandosi all'improvviso, mentre tutti i suoi pensieri venivano risucchiati nella bolla di calore che lo avvolgeva. I brividi di paura, di angoscia che stava provando, si spensero di colpo e la fastidiosa calura estiva si ripropose in tutta la sua sgradevole intensità.
Due ragazze erano in piedi davanti al cofano della Ford, indossando solo un paio di pantaloncini di jeans che arrivavano a coprire le cosce all'altezza dell'inguine. Erano giovani, forse non più di vent'anni, belle da mancare il fiato e parecchio sporche.
Enrico restò senza parole e quasi senza fiato, perso nella visione di quei quattro seni nudi, così tranquillamente esposti davanti a lui. Deglutì e spostò gli occhi sui piedi, nudi anch'essi, e decisamente neri.
«Come ti chiami?» disse la biondina, sorridendo con malizia.
«E... E... nrico...»
«Vuoi venire con noi?» chiese l'altra, castana, accarezzando i capelli della sua compagna con gli occhi fissi sulla patta gonfia del ragazzo.
Enrico cominciò a balbettare. «È che... io... loro... de... devo...»
«Noi insistiamo!»
La voce maschile giunse alle sue spalle.
Enrico si voltò e si trovò puntato alla gola un grosso coltello, impugnato da un ragazzo riccio e biondo con un sorriso malefico stampato sulla faccia. Anche lui era seminudo, con un paio di pantaloni che arrivavano fin sotto il ginocchio.
«Sali in macchina e metti in moto.»
Enrico non se lo fece dire due volte. Tremando si voltò verso le ragazze che lo presero per mano, accompagnandolo al posto di guida, per poi sedersi dietro di lui.
Il biondo salì nel posto a fianco e gli mostrò ancora la lama del coltello.
«Parti!» disse.
«Da... da che parte?»
«Di là» disse il ricciolino, indicando alle sue spalle.
Enrico girò la chiave, ingranò la marcia e, facendo inversione sulla strada deserta, la Ford Taunus lasciò il municipio.
«Quindi? Pensi ancora di essere baciato dalla fortuna?»
Roberto, appoggiato al muro a braccia conserte, osservava Alberto che continuava a rovistare tra la confusione di fogli e foglietti sparsi ovunque. Nell'ufficio anagrafe non avevano trovato nulla (era, a dirla tutta, impossibile anche solo cercare qualcosa, visto il caos che regnava!) e lo stesso nei due uffici seguenti. Quello in cui si trovavano ora, era l'ultimo agibile, prima dello squarcio.
«Certo!» rispose, con il tono parecchio infastidito. «Ho trovato tre scrigni in meno di due giorni. Se non è fortuna questa...»
Spostò una cassettiera ribaltata che bloccava l'anta di un armadio e tirò fuori un gonfio raccoglitore, ripieno di carte. La dicitura sul bordo diceva "COSTI 2017/2018", così lo lasciò cadere a terra.
«Roby, se è questo l'aiuto che riesci a darmi, scusa se te lo dico, ma continuo da solo. Non comprendo tutta questa negatività che ti è piombata addosso. Capisco che la morte di tua mamma è stata un duro colpo, sommato al dolore per tua moglie e alle preoccupazioni per Andrea. Lo capisco, veramente. Ma non puoi prendertela con me se cerco di mettere un po' di entusiasmo e di speranza in questa situazione di merda in cui ci troviamo. Se non te la senti più e vuoi provare a raggiungere l'FDS da solo... nessun rancore! Ci vediamo là, se e quando ci arriverò.»
Roberto non si aspettava un discorso del genere. Quelle parole lo trafissero come pugnali e per circa trenta secondi rimase immobile a fissare l'amico che continuava a scartabellare tra le carte sparse ovunque, anche se, ormai, con sempre meno convinzione di prima. Poi, inevitabile, sentì un groppo salirgli la gola alla velocità della luce, seguito dalle lacrime. Si lasciò scivolare a terra con la schiena contro il muro e, nascosta la faccia tra le mani, pianse.
Alberto lo squadrò con la coda dell'occhio, continuando a far finta di cercare un qualcosa che sapeva benissimo non avrebbe mai trovato; la rabbia improvvisa si sciolse in imbarazzo nel vedere l'omone piangere in quel modo, e una punta di senso di colpa lo pungolò. Doveva essere onesto con sé stesso: gli voleva bene, anche se lo conosceva da... quanto? Ventiquattro ore? Forse qualcosa di più, non riusciva a dirlo con assoluta certezza.
Il tempo era ritornato a scorrere quasi a vuoto, trascurabile, nello stesso modo in cui lo percepiva all'abbazia, conseguenza dei ritmi di vita imposti dalle dure regole che vigevano (ebbe un'improvvisa e dolorosa accelerata al cuore pensando alla sua Francesca...).
"O, più semplicemente, forse a un ergastolano costretto a spaccare pietre per tutto il giorno, non gliene frega un cazzo che sia mattina, pomeriggio o sera!" rifletté.
Adesso invece era tutto assurdo, irreale. Ricordava bene il momento in cui, col cuore bloccato in gola, aveva cercato il viso della sua ragazza all'interno della bolla, con le lancette ferme in quei pochi secondi di terrore che stava vivendo. Gli sembravano passati mesi da quel momento, invece era stato solo il giorno prima.
Provava la sgradevole sensazione di trovarsi sotto a un'unica, immensa bolla, contenente tutte le altre, copie in miniatura di quella che, in qualche maniera, distorceva ogni aspetto della loro vita. Sapeva che non era così; nessuna grande cupola li ricopriva (ricordò, all'improvviso, un romanzo di Stephen King che aveva letto anni prima), altrimenti Franco l'avrebbe senz'altro saputo. Ma poteva esserne sicuro? Poteva avere delle certezze in quella realtà cresciuta all'improvviso intorno a tutti?
Ebbe l'impulso di andare dall'amico, chinarsi e consolarlo; ma... in che modo? Quello che gli aveva appena detto, lo pensava.
Le afflizioni che tormentavano Roberto erano enormi, ma in quel contesto di dolore e disperazione in cui tutti, chi più, chi meno, erano immersi, potevano essere una giustificazione a lasciarsi andare? Da un lato, senz'altro sì. Infatti, non lo avrebbe giudicato se decideva di mollare. Ma non lo erano di certo per sputargli addosso di continuo quel pessimismo condito di sarcasmo, che alla lunga, almeno a lui, risultava piuttosto antipatico.
Agli occhi di un altro (di chi conosceva la sua storia, almeno) Alberto poteva sembrare il più fortunato di tutti, in quella situazione. Non aveva mamma e moglie morte da piangere o figli sperduti di cui preoccuparsi; credeva d'aver perduto Francesca, invece aveva saputo che era viva, sana e al sicuro da suo zio; senza dimenticare che fino a pochi mesi prima era un ergastolano, destinato a rimanere dietro le sbarre per sempre, allietato dagli incontri con una donna meravigliosa, ma vessato da un aguzzino di nome Pietro Masi, e che, tutto a un tratto, si era ritrovato libero; evaso, ma senza nessuno che lo cercasse.
La realtà però, dentro di lui era ben diversa.
Il suo orribile passato continuava a tormentarlo, e dietro all'atteggiamento spavaldo e sicuro che provava di continuo a esibire, si celavano i profondi rimorsi di un uomo, spaventato all'idea di venire sopraffatto dai propri demoni interiori.
Il periodo passato all'FDS era stato bello, ma complicato allo stesso tempo; nonostante Franco, Monica, soprattutto Francesca, parevano aver accettato sia lui, sia il suo pentimento, Alberto aveva continuato a percepire quel sottilissimo velo di sospetto impossibile da eliminare nei confronti di chi ha commesso quello che lui aveva commesso. Era un assassino, c'era poco da dire! Cambiato, pentito, ma pur sempre un assassino. La loro gentilezza, la loro amicizia, perfino l'amore di Francesca, non potevano nascondere del tutto quell'improvvisa ombra che ogni tanto intravedeva nei loro sguardi; o quelle mezze parole, appena accennate, che talvolta venivano infilate nei loro discorsi.
Per questi motivi ancora non aveva voluto raccontare la verità a Roberto: egoisticamente per sé stesso, ma in fondo anche per non costringere l'amico a doverlo guardare con occhi diversi e, gioco forza, a cambiare l'opinione che si stava costruendo su di lui.
E, come non bastasse questo peso, si era aggiunta la responsabilità di salvare il mondo. Era consapevole della difficoltà dell'impresa ed era più o meno preparato a fallire, ma aveva promesso a Franco che ci avrebbe provato e, cazzo, era quello che stava facendo, mettendoci tutta la grinta e la speranza di cui era capace.
Così, sospeso tra l'affetto che provava per Roberto e l'orgoglio che lo tratteneva dallo scusarsi, rimase inchiodato sul posto, tenendo in mano inutili fogli pieni di numeri altrettanto inutili.
L'amico venne in suo soccorso, parlando per primo.
«Ti chiedo scusa, Alby! Hai ragione, perfettamente ragione. Ma faccio molta fatica a intravedere la luce in fondo al tunnel, sono sincero.»
Si asciugò gli occhi e si rialzò.
«Ma non ho intenzione di mollarti; tantomeno di venir meno alle mie responsabilità.»
Alberto gli andò davanti. Si guardarono per un momento, poi si abbracciarono, dandosi reciproche pacche sulle spalle.
«Mi sembra di conoscerti da una vita» aggiunse Roberto.
«Le amicizie nate in situazioni estreme, cementano più veloci. Credo d'averlo letto da qualche parte. Ma forse, è solo una gran stronzata!»
Roberto sorrise; poi sgranò gli occhi. «Sai dove potremmo trovare informazioni sui nostri due amici? In chiesa.»
«In chiesa?»
«Sono sposati, no? Se hanno celebrato il matrimonio qui a Castenaso, potremmo trovare l'atto, sul quale vengono scritti anche gli indirizzi. E la chiesa è proprio qui dietro.»
Alberto gli posò entrambe le mani sulle spalle. «Sei un genio! Perché non ci abbiamo pensato subito?»
«Il rischio è che si siano sposati in comune, cioè qui. Ma atti di matrimonio non ne abbiamo visti, giusto?»
Alberto scosse la testa. «Se ce ne sono, mi sa che sono là sotto.»
Indicava la parte dell'edificio crollata.
«A quel punto, saremmo fottuti!»
«Sì ma, come dici tu, noi siamo fortunati! Sono sicuro che questi due erano, anzi, sono due cazzo di cattolici! Oppure, l'hanno fatto per le loro madri! Sai come funziona, no?»
Sorrise, sentendosi rinascere nel petto una fiammella di speranza, timida, fioca, forse non in grado ancora di illuminare nulla, ma comunque accesa. Se non si era lasciato sopraffare dalla disperazione, era merito di Alberto.
«Mi fa piacere rivederti di nuovo qui con me!» gli disse l'amico, come se avesse scorto i suoi pensieri.
Roberto annuì, un po' imbarazzato. «Potrebbe essere una ricerca lunga però. Se sapessimo la data del matrimonio...»
Gli occhi di Alberto brillarono. «La sappiamo! È stato nel 2003! La mia Francesca era brava nelle ricerche. Pensa che, anche...»
«Shhh!»
Alberto zittì di colpo.
«Le senti queste voci?» Roberto girò la testa verso il corridoio.
«Enrico?» Anche Alberto tese le orecchie.
«Non sembra la sua voce...»
Aveva appena finito di parlare quando si sentirono gli sportelli dell'auto chiudersi, e il motore della Ford gracchiare. I due uomini si guardarono.
«Cazzo!» dissero, contemporaneamente.
Corsero alla finestra, a fianco della scala, facendo appena in tempo a vedere il didietro della loro macchina sparire in lontananza.
Quando uscirono dal municipio la strada era ormai deserta e il silenzio era tornato a far compagnia alla cappa di umidità che aleggiava nell'aria.
«Cazzo! CAZZO!» urlò Alberto, calciando un sasso in mezzo alla via. «Vedi a fidarti delle persone? E gli ho lasciato anche le chiavi a quel ciccione di merda!»
«No, aspetta Alby. C'era qualcuno che parlava con lui. Ho sentito la voce di una donna...»
«Di una donna? Forse hai sentito solo la sua vocetta di merda, mentre ci fotteva la macchina!»
«E parlava da solo? Dai! Te l'ho detto che c'è qualcosa di strano qui. È tutto così inquietante...»
Alberto non sembrava neanche ascoltarlo, in preda a rabbia e sconforto.
«Abbiamo perso l'auto e uno scrigno in un colpo solo. Ti rendi conto? Come facciamo, adesso? Come cazzo facciamo a trovare...»
«Ehi! Calma! Hai appena fatto la paternale a me, e adesso cominci tu? Non eri euforico per il fatto d'aver avuto fortuna?»
«E la chiami fortuna, questa? Come facciamo a ritrovarlo? Sempre che voglia farsi ritrovare...»
«Non lo so, ma non ci ha traditi. Su questo sono sicuro. Il problema è capire con chi se ne è andato, e soprattutto perché.»
«Dici niente! Qual è la prossima mossa?»
«Io direi di proseguire col nostro piano. Andiamo in chiesa e cerchiamo notizie su Eleonora e Rodolfo. Se li troviamo, probabile abbiano una macchina. E comunque un'altra auto non è difficile da trovare.»
Ce n'erano parecchie parcheggiate o abbandonate nei paraggi.
«Auto sì, chiavi per farle partire, presumo di no. Tu sai farne partire una unendo i fili? Come fanno nei film?»
«No!»
Roberto sospirò, adocchiando un invitante furgone rosso, fermo dall'altro lato della strada, poco più avanti rispetto alla loro posizione.
«Ma qualcosa ci inventeremo. Quel furgone, per esempio, ci farebbe proprio comodo. Andiamo in chiesa, dai. È proprio qui dietro.»
«Se veramente Enrico è stato rapito, speriamo non sia in pericolo di vita. Se dovesse morire sarebbe un bel problema rintracciare il nuovo scrigno. E quel ragazzo non mi sembra molto in grado di difendersi...»
«Il che, considerando che è uno dei nove che deve affrontare Ismel, è molto incoraggiante! Merda, che cinici che siamo diventati!»
«Dovresti conoscere Franco, allora! Ma se vogliamo avere anche solo una possibilità di vincere, non abbiamo altra scelta. Poi, se al ragazzo succedesse qualcosa, ovvio che mi dispiace. Anche se, in fondo, lo conosciamo da poco.»
«Anche io e te ci siamo appena conosciuti!» disse Roberto, mentre s'incamminavano lungo la strada a fianco del municipio. La chiesa era poco più avanti, sulla destra, e non era difficile da scorgere. Era un'enorme casermone di recente costruzione, sgraziata e squadrata come sanno essere solo le chiese moderne. La classica cattedrale nel deserto.
«Dio, che brutta! Sembra piuttosto nuova» disse Alberto.
«Lo è. Non ricordo con esattezza, ma mi pare l'abbiano inaugurata nel 2015 o nel 2016.»
Si fermò di botto mentre Alberto, che aveva già capito, annuiva con la testa.
«Merda! Hai detto che si sono sposati nel 2003 i tizi, giusto?»
«Non troveremo nulla lì dentro su quei due! Dev'esserci un'altra chiesa nei dintorni, suppongo. In genere, quello che non manca mai nei paesi sono le chiese!»
«Sì, San Giovanni. Si son sposati due coppie di amici là. Dieci minuti a piedi. Senti, andiamo comunque prima in questa, fin che siamo qui. Non è da escludere che abbiano spostato gli archivi.»
«Dici che potremmo aver fortuna, quindi?» chiese Alberto con un mezzo sorrisetto ironico sulla faccia.
Roberto sbuffò con lo sguardo divertito e infastidito allo stesso tempo.
Raggiunsero il portone d'ingresso della chiesa, rimasto spalancato. Nessuno dei due dovette sforzarsi molto per immaginare il perché lo fosse.
«Se non si sono sposati qui, temo che stiamo perdendo solo tempo» disse Alberto.
«Non è detto. Diamo un'occhiata veloce e se non troviamo niente proviamo ad andare all'altra.»
«Ed Enrico?»
«Una cosa alla volta, Alby. Una cosa alla volta» sospirò Roberto, entrando.
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