36 - IL CAMPEGGIO (1)

Franco giunse a riva in una ventina di minuti e si accasciò sfinito sul bagnasciuga, ansimante, con lo sguardo vitreo fisso sul cielo azzurro sopra di lui. Era stato un ottimo nuotatore da giovane, e anche fino a non molto tempo prima a dire il vero. Adesso arrancava in acqua senza più fiato, coi muscoli flaccidi e indolenziti e che iniziavano a bruciare già dopo le prime bracciate.

"Chissà perché?" fu il pensiero ironico che gli aveva turbinato nella mente per tutta la nuotata, accompagnato dal tintinnio delle bottiglie che sembravano scandire il patetico ritmo della sua performance.

Quando gli parve d'aver recuperato quel po' di fiato, si mise a sedere e si guardò intorno. Aveva nuotato di proposito verso la spiaggia di Scaglieri, da cui poteva arrivare al campeggio nel modo più veloce; ma se anche così non fosse stato, avrebbe comunque evitato d'approdare alla Biodola, e ritrovarsi in mezzo allo spettacolo più terrificante del mondo: una moltitudine di corpi immobili, riversi nella sabbia, ustionati dal sole e sballottati a faccia in giù dalla risacca; uomini, donne, ragazzi, anziani... ma soprattutto bambini, diventati il pasto di un branco di cinghiali affamati.

Aveva visto da lontano, col binocolo, com'era la situazione al di là della roccia, ed era sicuro d'essersi garantito già un buon numero di incubi notturni.

Dove si trovava ora non c'erano morti, né animali affamati, ma erano rimasti innumerevoli segnali di vacanze bruscamente interrotte, e i brividi d'inquietudine, d'angoscia, che aveva voluto evitare, lo raggiunsero lo stesso.

La piccola porzione adibita a spiaggia libera, subito a ridosso del crostone, era disseminata di teli da mare perlopiù arrotolati e pieni di sabbia, borse abbandonate, ciabatte e vestiti sparpagliati ovunque. A poca distanza da lui, proprio sul confine tra sabbia asciutta e bagnata, c'era un piccolo castello mezzo distrutto, circondato da secchielli, palette e formine.

Le lacrime tornarono in fretta a far visita agli occhi di Franco; riusciva quasi a vedere le persone che si stavano godendo il meritato riposo, rilassate, serene e felici, sulle quali erano piombate, senza preavviso, quelle terribili creature volanti; ma più di tutti, vedeva il bambino giocare spensierato, magari aiutato dal papà, mentre l'uomo viola planava su di loro imprigionandoli in una di quelle atroci bolle. Aveva visto la stessa scena al suo ristorante, osservando impotente i suoi amici venire trascinati via urlanti.

Si lasciò cadere di nuovo, in ginocchio, e pianse, pianse le ennesime lacrime di una vita condita da tanti momenti difficili. Eppure si accorgeva di non essersi mai sentito così triste in vita sua e non riusciva a spiegarsi perché l'immagine di quel bambino, frutto della sua fantasia (anche se quasi sicuramente molto simile alla realtà), lo facesse stare così male, più di quando suo padre aveva chiuso gli occhi per sempre davanti a lui, o di quando gli avevano comunicato d'aver ritrovato il cadavere di sua mamma sulla strada, o di quando la targa della Fiesta azzurra di sua moglie rimpiccioliva sempre più, portandola via dalla sua vita; per non parlare poi del momento in cui il dottore gli aveva comunicato l'esito degli esami, annunciandogli, in pratica, di essere prossimo a morire.

Ma la scena di ciò che doveva essere successo su quella spiaggia gli perforava il cuore: immaginare le grida disperate di quella creatura innocente, la paura che aveva dovuto provare nel vedersi sollevare e portare via dai suoi genitori... Sentiva nella sua testa le urla del bimbo e dell'altra gente, e d'improvviso gli tornò in mente il perché fosse lì. Qualcuno era nei guai, qualcuno aveva bisogno di lui ma, soprattutto, c'era qualcuno, qualcuno di vivo, una persona fisica che poteva distruggere la solitudine in cui era piombato e che, solo in quel momento, s'accorse di soffrire.

Non stava eseguendo proprio un salvataggio da manuale visto che da quando aveva udito il grido era passata almeno mezz'ora.

"Se era nei guai, chiunque fosse, ormai potrebbe essere morto!" pensò, asciugandosi le lacrime e cercando di scacciare i pensieri sul bambino.

«Fa lo stesso!» disse, questa volta a voce alta. «Non è detto. Non dar nulla per scontato!»

"E Beatrix?"

Doveva correre da lei e quella sosta non prevista l'avrebbe fatto tardare di parecchio.

"Se è viva, potrebbe essersi nascosta, essere impaurita, sconvolta, ferita."

In fondo, era una signora di sessant'anni!

"Che cazzata sto facendo? Perché perdo tempo con i fantasmi mentre mia moglie potrebbe aver bisogno di me? Non l'ho fatta soffrire abbastanza?"

Era già deciso a tornare subito alla barca, quando gli occhi si posarono di nuovo su ciò che restava del castello di sabbia, e di nuovo vide il bambino che giocava, canticchiando. La visione cambiò di colpo, mostrandogli il cadavere del piccino in riva al mare, metà faccia mangiata da un cinghiale sopra di lui, con le zanne arrossate...

Chiuse gli occhi e scrollò la testa. Il senso di pena, di profonda tristezza e d'orrore lo riassalì di colpo, alimentato dagli ombrelloni e i lettini abbandonati alla sua sinistra, nello stabilimento che occupava la restante porzione di spiaggia. La scena era pressoché la stessa e raccontava di persone prelevate con la forza e portate a morire, nemmeno lui sapeva come e perché. Si diede dell'egoista.

"Tutti hanno bisogno di tutti in questo momento!" pensò. «Beatrix dovrà aspettare! Se c'è qualcuno in difficoltà, io lo aiuterò!»

Parlava con il bambino; lo vedeva, davanti a lui, con i piedini nell'acqua, mentre annuiva sorridendo.

Si rialzò e successe una cosa strana.

Un calore intenso, molto diverso dal caldo afoso dell'estate, invase tutto il suo corpo, dandogli una vitalità che non si sentiva addosso da moltissimo tempo. La sensazione era piacevole e inquietante allo stesso tempo; era come se miliardi di minuscole bollicine stessero sfrigolando dentro e intorno a lui. Si formavano, tremolavano, scoppiavano e rinascevano, di continuo.

Franco restò inchiodato con i piedi nella sabbia, travolto da quell'inspiegabile e improvviso tsunami di sensazioni, in cui la cosa più incredibile era riuscire a distinguere ognuna di quelle sferette, una per una, come se agissero una alla volta.

E si sentiva bene! Non aveva un filo di mal di testa, non aveva voglia di bere, era forte, energico; poteva fare tutto e affrontare chiunque.

Si guardò le mani e strabuzzò gli occhi. Aveva la pelle gialla, ma la cosa più sorprendente era il colore che cambiava di continuo, ora schiarendo, ora diventando più scuro; assumeva tonalità ocra, poi scendeva fino al color dello zolfo, sfumava in un giallo limone e di nuovo scuriva fino alla tonalità sabbia. E poi cambiava ancora, e ancora, ruotando velocemente di tonalità in tonalità, assumendo a tratti, Franco ne era sicuro, gradazioni mai viste da un occhio umano.

Abbassò gli occhi per controllarsi le gambe e i piedi, e quasi cacciò un urlo. Sia a destra che a sinistra, alcuni piccoli granchi sbucavano dalla sabbia e si precipitavano verso il mare in tutta fretta.

«Ma che cazz...?» esclamò Franco, allungando il braccio verso quello più vicino, che scartò e si tuffò nell'acqua. Parevano spaventati da lui!

«Che cazzo è?» quasi gridò.

Di nuovo si portò le mani davanti alla faccia, a bocca aperta; sia sui palmi che sui dorsi il fenomeno era intensissimo; non provava dolore, ma il piacere si stava leggermente attenuando; il calore era un po' aumentato, così come il formicolio, sempre più fastidioso.

Immerse le mani nel mare, d'istinto, sperando che il contatto con l'acqua gli donasse un po' di sollievo; ma le sensazioni non si spegnevano, anzi, continuavano ad aumentare. L'acqua cominciò a ribollire e a circa un paio di metri, branchi di minuscoli pesciolini cominciarono a saltare verso il largo, come terrorizzati dalla sua presenza. A Franco scappò una risata isterica.

«Assurdo!» disse, mentre nella sua mente cominciarono a formarsi pensieri di malattie recidive, litri e litri di alcol che forse non avrebbe dovuto bere, pesce avariato.

Lo sguardo cadde di nuovo sui resti del castello di sabbia, e fu come se qualcuno accendesse una lampadina nella sua testa.

"Cazzo! È ovvio!"

Si riguardò le mani che si erano asciugate nell'esatto istante in cui le aveva tolte dall'acqua.

"Ci hanno fatto qualcosa. Quest'energia non è umana... Starò per morire?"

Eppure, lui non aveva avuto nessun contatto, con nessuno di loro, almeno non direttamente.

"Aspetta! L'energia..."

All'improvviso gli tornò in mente la telefonata di mesi prima.

Quella donna gli aveva raccontato qualcosa, una storia confusa e sconclusionata di cui non ricordava un granché, ma parlava di energia. Su questo era sicuro!

"Cazzo! Perché non l'ho ascoltata con attenzione?"

"Non c'entra niente. Solo coincidenze. Sono gli alieni che hanno sparso qualcosa nell'aria."

D'istinto, cominciò ad annusare.

"Chi è scampato alla bolla viene ucciso da un virus!"

Allora perché si sentiva così bene?

"Perché sei solo all'inizio. Vedrai che tra un po'..."

«PIANTALA, CAZZO!»

Si guardò subito intorno, come se fosse speranzoso di vedere qualcuno attirato dal suo urlo.

«Non inventarti cose di cui non sai nulla!»

Tutto cessò. Il calore si spense, il formicolio sparì, la pelle tornò del solito color vinaccia. Tornò il mal di testa, lieve, ma pesante se paragonato alla leggerezza che aveva la sua testa fino a un secondo prima; tornò la voglia di farsi un bicchiere, e il bar che aveva davanti esercitava una forte attrazione; si sentiva stanco e aveva paura.

Ma aveva già perso anche troppo tempo. Diede le spalle al castello di sabbia, cercò di non pensare a quello che gli era appena successo, alle paranoie che si era inventato, a tutta quella gente, appena al di là della piccola roccia, che stava riempiendo gli stomaci voraci di quelle bestie... S'accorse che quest'ultima cosa era la più difficile da togliere dalla mente!

S'avvio, quasi trascinandosi, fuori dalla spiaggia.


La strada che portava a Scaglieri correva parallela al mare e, scendendo, finiva contro il minuscolo borgo di Forno, sparpagliandosi in un labirinto di viottoli percorribili solo a piedi. Dall'altro lato invece, saliva piuttosto ripida, girava sotto e intorno al campeggio, e proseguiva serpeggiando su per la collina, fino ad arrivare alla strada provinciale che portava a Portoferraio a sinistra, verso Marciana a destra.

Di fronte all'uscita del bar della spiaggia, dall'altro lato della strada, un cancello, aperto in quel momento, segnava l'ingresso del camping "Scaglieri". Da lì partiva una lunga e difficile scala con una prima rampa che portava alla piazzola più esterna, su un piccolo terrazzino a picco sulla strada; si poteva poi proseguire a destra, come fece Franco, percorrendo un sentiero ghiaiato, il più basso del camping, o proseguire le scale e raggiungere le terrazze superiori. Tutte quante, o direttamente o con qualche giro più tortuoso, si congiungevano con la piccola via asfaltata che partiva dal parcheggio, posto in cima, vicino alla reception e al belvedere con piscina e ristorante, e scendeva serpeggiando tra le piazzole, i bungalow, i cottage e gli chalet, il tutto coperto da numerosi lecci e ornato da piante di corbezzolo e rosmarino.

Franco era chino sulle ginocchia davanti a una fila di tende abbandonate, con una mano appoggiata al muro alla sua sinistra e il respiro affannoso, come se avesse appena finito di correre una maratona; aveva solo affrontato la rampa di scale, insieme al breve tratto di salita per raggiungerla, e tanto era bastato per seccargli l'aria dai polmoni. Il caldo non aiutava, ma almeno gli aveva già asciugato i vestiti che aveva addosso, tranne l'interno delle scarpe che era ancora piuttosto umido.

Tirò su la testa e deglutì, guardandosi attorno a bocca aperta.

"Bel salvatore che sono!" pensò. "Non reggo nemmeno due gradini!"

Si alzò e riprese a muoversi sul sentiero, rimpiangendo la vigoria che si era sentito addosso sulla spiaggia.

"Chissà che cavolo era quella roba che mi è venuta..." continuava a chiedersi, sempre più propenso a pensare che centrassero gli alieni, o qualunque cosa fossero.

Raggiunse l'intersezione con la via e si fermò, per decidere come procedere. A dire il vero non ne aveva la minima idea; non sapeva cosa cercare, chi cercare, tantomeno come.

Si chiedeva perché fosse salito fin lì, togliendo tempo prezioso a Beatrix. I buoni propositi che l'avevano spronato a non tornare subito sulla barca sembravano essere spariti insieme a quello strano calore che aveva provato e la tentazione di andarsene lo fece vacillare. Ma aveva il bambino che costruiva il suo castello di sabbia nella mente, e la visione felice del gioco, veniva di continuo interrotta da quella più agghiacciante del suo corpo dilaniato dai cinghiali; quell'immagine non voleva schiodarsi da lì, come fosse un appunto sottolineato più volte di rosso e appeso a una bacheca. E pure il fiato, denso e pesante che ancora gli opprimeva la gola, gli stava ricordando quanto meno lo sforzo che aveva fatto e le energie che aveva consumato per arrivare dove si trovava adesso.

Fece qualche passo in su, per arrestarsi subito, di nuovo.

"Potrei controllare ogni tenda, ogni cottage..." pensò, ma il campeggio pareva bello grande e la via era intersecata da continui viottoli, sentieri, piccole rampe che portavano alle varie terrazze che degradavano verso il mare. A occhio potevano esserci non meno di un centinaio di strutture e già alcune se le era lasciate alle spalle.

«C'È NESSUNO?» gridò all'improvviso, facendo sussultare anche sé stesso.

Si accorse subito di non aver avuto un'idea brillante. All'istante gli parve che tutto quello che aveva intorno lo stesse fissando minaccioso, persino gli alberi, le piante, i sassi. Ogni finestra di ogni fabbricato, ognuna delle tende piantate nelle piazzole, sembrava aver acquisito un paio d'occhi, minacciosi, fissi su di lui. Cominciò a sentirsi a disagio e il battito del cuore si fece pesante.

Dalla sua posizione riusciva a vedere il mare, anche se parzialmente coperto dai rami, e là, solitario, era ancorato il peschereccio; ai suoi occhi, in quel momento, appariva come il rifugio più sicuro del mondo. Ma anche il più lontano.

Adocchiò la casa di fronte a lui.

"Da qualcuna dovrò pur iniziare!"

Insieme a quella speculare che aveva a fianco, erano le due costruzioni situate più in basso nel campeggio, elevate di circa una decina di metri sopra la strada sottostante.

"Cominciamo con questo... cottage? Bungalow? Boh! Non ho mai capito la differenza!".

Salì i pochi gradini che le rialzavano rispetto alla via del camping, trovandosi davanti un viottolo, formato dalle pareti posteriori dei due fabbricati e il muretto che sorreggeva la terrazza soprastante, dove sorgevano altri due (bungalow? cottage? chalet?).

«Case!» disse a voce alta. «Sono comunque case!»

S'infilò a destra, sotto al minuscolo pergolato dell'abitazione e le tracce, penose per i suoi occhi e per il suo cuore, di vacanze serene bruscamente interrotte, si ripresentarono davanti a lui.

In un angolo c'erano delle ciabattine eleganti da donna e un paio di scarpe da tennis, con i calzini appallottolati dentro; due sedie erano ribaltate e alcuni indumenti erano sparsi per terra; un tavolino era ribaltato a gambe all'aria nel terrazzino che sorgeva nel lato anteriore. Franco vi si affacciò: vide un ombrellone chiuso e due sdraio, molto vicine alla recinzione di legno che separava la zona dal terrazzo dell'altra casa.

La porta d'ingresso era spalancata, ma sembrava non esserci nessuno.

"Ovvio! Dove vuoi che siano!" pensò, mentre le immagini dei corpi mossi dalla risacca del mare, mezzi mangiati, nella spiaggia trenta metri sotto di lui, scorrevano come diapositive.

Entrò comunque, spinto da quella curiosità autolesionistica tipica dei film di paura.

Il primo ambiente era una cucina, piccolissima, arredata con un altro tavolino e un divano sul quale certamente ci si poteva dormire. Seguiva una stanza appena più grande con un letto matrimoniale incastonato in un armadio, e poco altro. Infine, c'era il bagno, in fondo, più piccolo del cucinotto.

Franco si fermò sulla soglia della camera, scoprendo di non riuscire a sopportare la vista di tutto quell'abbandono che raccontava la storia di due persone, forse due fidanzati, o marito e moglie, felici in vacanza, magari sognata e aspettata da mesi.

Non c'era comunque nessuno in casa e questa era l'unica cosa che doveva e poteva appurare. Si voltò e si diresse all'uscita.

Fu in quel momento che sentì il rumore.

Si bloccò e tese l'orecchio, ma il suono cessò subito, lasciandogli nei timpani solo il battito accelerato del suo cuore terrorizzato. Poi ripartì: un basso grugnito, intervallato da piccoli sbuffi; sembrava provenire dalla casa a fianco.

Franco restò fermo per un minuto, sessanta secondi che a lui parvero sessanta ore, mentre qualcosa al di là della parete del bagno bofonchiava e raspava e soffiava, ora più forte, producendo a volte secchi schiocchi, ora meno, lasciando solo un basso borbottio quasi impercettibile. I suoi sensi erano tutti allertati e l'udito era appuntito dalla paura che lo avvolgeva; era in grado di sentire, in quel frangente, anche il ronzio di insetti fuori dalla casa.

Si chiese cosa o chi potesse produrre un suono simile ("Cosa vuoi che sia, bischero!"), e nel suo cervello si visualizzarono mille e più figure ("Cinghiali?"), una più terrificante dell'altra.

Si voltò, ma ebbe la netta sensazione di fare perno sulle gambe, tanto si erano irrigidite; avanzò di nuovo verso la camera e il bagno, con la testa rintronata come se stesse vivendo un sogno. Era quasi certo che, se avesse abbassato lo sguardo, avrebbe visto solo il busto, sospeso nell'aria, e le gambe rimaste inchiodate al pavimento, davanti all'uscita.

Accostò l'orecchio alla sottile parete di laminato plastico, facendo attenzione a non fare il minimo rumore; il suono era lì, in tutta la sua misteriosa inquietudine e Franco sapeva che, qualunque cosa fosse, non era una cosa bella.

L'urlo sentito dal mare era venuto da quella casa? Con tutta probabilità sì, anche perché, se la persona in pericolo si fosse trovata più in alto e più all'interno del campeggio, difficilmente sarebbe giunta fino al peschereccio. Sembrava abbastanza ovvio che fosse morta e chi l'aveva uccisa adesso era lì, a pochi centimetri da lui, separati solo da quella insulsa parete.

Aveva fatto rumore venendo lì? Ripensò a quando aveva gridato, solo pochi minuti prima.

"Imbecille che sei!"

Era in serio pericolo anche lui... Ma in pericolo da cosa? ("Lo sai già cos'è!") Gli alieni? ("Li hai visti all'opera!") Animali? ("Un bel cinghialotto...") Un serial killer? ("Magari il suo prossimo pasto sarai proprio tu!")

La sua fantasia galoppava ormai, in preda a un panico sottile che gli vibrava alla base del collo.

"Non sei venuto qui per salvare qualcuno?" si chiese, staccando l'orecchio dal muro.

"Qualcuno già morto!"

"Devi comunque controllare!"

L'idea di entrare nella casa a fianco lo terrorizzava, ma la voce nella sua testa, quella che non voleva cedere del tutto alla vigliaccheria, quella che l'aveva sempre spronato a smettere di bere, a richiamare sua moglie, a mollare la vita patetica in cui si era infilato, la voce alla quale non aveva mai dato retta, stava prendendo il sopravvento. Poteva chiamarla coscienza, anche se non aveva mai capito cosa fosse e da dove venisse; l'aveva sempre percepita come un individuo diverso, insediatosi nel suo cervello chissà quando, al solo scopo di rompergli di continuo le palle, armato di feroce pazienza, di una perseveranza fuori dal comune nel continuare a tentare di migliorarlo, venendo sempre e costantemente ignorato. Forse era solo un grumo composto da tutti i rimpianti per gli sbagli che avevano costellato la sua esistenza, solidificato, e che ora tentava di ribellarsi, facendolo sentire sempre in colpa, invitandolo a riflettere su cosa era diventato.

"Sei in tempo per cambiare..."

Ma, il più delle volte, se non sempre, zittiva questo fastidio con una buona e sana bevuta.

Ma adesso era diverso. La vista di quei corpi sulla spiaggia, l'urlo, il mezzo castello di sabbia abbandonato sulla riva, sembravano aver spalancato la porta che lo divideva da questo... uomo (coscienza? grumo?), la stessa porta che aveva tenuto chiuso per anni, a volte spingendoci contro le mani, con forza.

Scoprì di essersi già mosso; scoprì di essere già fuori dalla casa; stava già lasciando il pergolato e si trovava nello stretto viottolo, diretto verso i tre gradini che salivano all'altro porticato. Vedeva i piedi muoversi in autonomia e si chiedeva se stesse osservando sé stesso o quelli di un'altra persona a lui sconosciuta.

E fu in quell'esatto momento che tornò il calore, questa volta non gradualmente ma in una botta unica, tanto che dovette fermarsi un secondo e appoggiare la mano sulla balaustra per non cadere, una mano luccicante in vari colori che parevano rincorrersi tra loro, come se la pelle fosse illuminata da una strobosfera gialla appesa sopra la sua testa. Non provava nessun dolore, nonostante gli sembrasse avere tutti gli organi interni infuocati e, forse più per la sorpresa, sentì un urlo profondo formarsi nello stomaco e risalire di volata verso la gola. Ma si strozzò e si spense all'istante quando la sensazione, quasi nello stesso momento in cui era arrivata, divenne piacere, quando tornò a distinguere ognuna delle bollicine che scoppiavano sulla sua pelle, tremolavano e si riformavano, provocandogli un'infinità di piccoli brividi meravigliosi.

Si drizzò, sorridendo come quando ci si infila sotto a un piumone caldo mentre fuori dalla finestra scroscia una pioggia fredda autunnale. Ed era tanto assurdo quanto bello, considerando che era giugno e c'era un caldo soffocante.

"No! Non è una malattia. Senza ombra di dubbio!"

E pure pensare fosse un fenomeno causato dagli alieni gli suonava strano. Non aveva senso venire sulla Terra, distruggere una città, uccidere praticamente tutti e donare un potere simile a chi era sopravvissuto. A differenza del primo episodio sulla spiaggia, ora gli piaceva tutto di quella strana cosa e si trovò, all'improvviso, ad aver paura sparisse di nuovo. E, subito, gli parve stesse svanendo sul serio.

Notò di sfuggita una scarpa abbandonata sul pavimento e una strisciata di sangue fresco che arrivava fino alla porta spalancata del secondo cottage; si affacciò e, mentre inorridito fissava due enormi cinghiali sulla soglia ("Ma guarda che strano?"), tra il cucinotto e la camera, cibarsi di ciò che restava del corpo di una donna, dilaniato come mai si era anche solo sognato di vedere, le piccole bolle scoppiavano sulla sua pelle senza riformarsi più, e la pesante fiacchezza dovuta alla salita, alle scale, all'alcol, agli affanni dei suoi anni, stava tornando, dando poderose spallate a quella fantastica vigoria inaspettata.

I due animali sollevarono il muso gocciolante rosso scuro e dopo averlo fissato per un istante, lanciarono due mugghi spaventosi, gutturali e acuti allo stesso tempo, arretrando verso il bagno con le pupille dilatate da un subitaneo terrore, abbandonando il fiero pasto nel lago del suo stesso sangue.

Al contempo anche Franco fece due passi indietro, incapace perfino di gridare, tanto l'orrore gli aveva seccato la gola. Mise il piede sulla scarpa e sentì l'equilibrio vacillare; roteò in tempo per attutire la caduta con i palmi, tornati del solito, triste colore, sbatté il ginocchio sulle assi di legno e si ritrovò lungo disteso, sentendosi più stanco e più vecchio di prima. Voltò di scatto la testa mettendosi in posizione supina per adocchiare quello che facevano i due animali.

Il lamento che avevano lanciato si era interrotto di colpo e ora lo fissavano immobili; la paura era svanita dal loro sguardo, sostituita dalla ferocia e dalla stessa brama di carne vista anche dalla donna che era stata quell'ammasso di carne sanguinolenta.

Il più grosso dei due grugnì, mostrando a pieno le lunghe zanne che spuntavano dalla bocca, mentre l'altro annusava l'aria, facendo vibrare il muso molto simile alla canna di un fucile. Cominciarono ad avanzare, sadicamente lenti, come se fossero attori pagati sul set di un film.

«Merda!»

Franco fece leva con le mani, spingendo verso l'alto, mentre i talloni slittavano sul legno bagnato dal sangue della donna.

Credette d'aver perso l'attimo propizio e il panico aumentò. I cinghiali proseguivano nel loro lento incedere, come fossero indecisi se attaccare o no.

Franco riprovò e stavolta riuscì a sollevarsi, precipitandosi giù dagli scalini mentre ancora era chinato. Il ginocchio pulsava di dolore, ma si sforzò di ignorarlo. Sapeva che era sbagliato fare gesti inconsulti davanti a un animale e, ancor di più, mettersi a correre, quasi sicuro che il cinghiale corresse veloce (certamente più di lui!); ma in quel momento l'idea di restare fermo davanti a quelle due bestie che avanzavano verso di lui con le zanne sporche di sangue umano, gli pareva una cazzata colossale.

Percorse il viottolo in un lampo, scese i gradini che portavano sulla via del camping e s'indirizzò verso lo stesso sentiero che aveva fatto per arrivare fin lì. Voleva tornare sulla spiaggia e poi veloce raggiungere la sua barca, la sua meravigliosa e sicura barca, magari stavolta prendendo in prestito uno dei pedalò ancorati a riva e che nessuno avrebbe usato più. Avrebbe corso, pedalato o nuotato fino alla sua meta, senza mai voltarsi indietro, a costo di farsi scoppiare il cuore nel petto dalla fatica.

Invece dovette fermarsi subito. A metà dello stradino ghiaiato c'erano altri due cinghiali, grossi quanto i primi, se non di più; lo fissavano, mentre gli venivano incontro, lentamente. Si voltò e vide gli altri due animali già scesi dal pergolato, fermi sul viottolo.

«E adesso che faccio?»

L'unica direzione rimasta era salire verso la parte alta del campeggio. Rifugiarsi in una delle altre case era da escludersi, visto che aveva già potuto appurare di come riuscissero a entrare con facilità ("Sanno fare anche le scale, questi stronzi!") e rischiava di trovarsi come il topo dentro a una trappola. L'unica era andare sulla terrazza più alta, dove immaginava esserci la reception e sicuramente un ristorante o un bar e forse qualche negozio, strutture comunque più solide di quelle cazzo di case precostruite. Cosa avrebbe fatto una volta giunto lassù, ci avrebbe pensato poi. Non poteva mettersi a correre e rischiare di invogliarli a fare lo stesso; l'avrebbero acchiappato in un secondo, vista la sua lentezza, la salita e il ginocchio dolorante.

"Senza contare il fiato che hai lasciato dentro alle bottiglie in tutti questi anni!"

Cominciò quindi a salire all'indietro, senza togliere gli occhi di dosso ai quattro animali che ora, si erano riuniti all'incrocio dove aveva sostato anche lui, meno di dieci minuti prima.

«Non mettetevi a correre, vi prego! Non correte» disse, mentre avanzava a passo di gambero, stando attento a dove metteva i piedi.

Il cuore batteva all'impazzata, come mai gli era successo. Desiderava ardentemente che quel portentoso potere tornasse a visitarlo proprio in quel momento. Con quella forza, quella meravigliosa sensazione di benessere che gli infondevano quelle bollicine e quel calore, si sarebbe messo a correre, anzi, a volare, ed era sicuro che quei quattro stronzi non l'avrebbero mai raggiunto.

Ma non successe; anzi, la paura, mescolata alla stanchezza, gli appesantiva ancor di più i muscoli, già flaccidi di loro e gli rendeva difficoltoso procedere nel modo innaturale con cui stava salendo la strada.

Si voltò di scatto, perforato da un orrendo pensiero: vedere altri cinghiali scendere per la via dalla quale lui saliva. Ma dietro di lui era tutto sgombro.

I quattro animali intanto avevano preso la sua direzione, fissandolo, emettendo talvolta corti e secchi grugniti e facendo vibrare il loro lungo muso nell'aria. Parevano incuriositi da quell'individuo comparso all'improvviso nelle loro vite, ma continuavano a mantenere una certa diffidenza. Non c'era dubbio, però, che erano pronti a sferrare l'attacco, non appena il momento fosse stato propizio.

Lo strano balletto proseguì per alcuni minuti, finché, girandosi per l'ennesima volta, Franco vide la rampa di scale che saliva alla terrazza. In quel punto la via proseguiva con una curva a sinistra (in base alla posizione che aveva Franco), arrivando al parcheggio del camping, posto alla stessa altezza della reception.

«Sto per fottervi, bestiacce!» disse, deciso a continuare così fino al primo gradino, per poi scattare su, cercando di ignorare le sicure fitte che il ginocchio avrebbe lanciato, e rifugiarsi nel primo buco disponibile. Ma, come è risaputo, la differenza tra fantasia e vita reale è sempre netta, e malvagia nel suo indirizzarsi in modo ostinato verso la parte più dispiacevole! E anche questa volta, non fece eccezione.

Gli mancavano circa venti passi quando, proprio dal parcheggio alla sua sinistra, sentì grugnire.

Quasi incredulo girò la testa per osservare un quinto cinghiale, il più grosso di tutti, che sbuffava e grufolava, raspando l'asfalto con la zampa. Sollevò il muso e lo vibrò nell'aria emettendo un sordo lamento, come fosse la sirena di una nave. Poi caricò. I quattro compagni, ancora a una quindicina di metri dall'uomo, fecero lo stesso, come avessero risposto all'ordine dato, emettendo gli stessi suoni gutturali del loro capo.

Franco esitò, sorpreso sia dall'arrivo del nuovo animale, sia dall'attacco improvviso; in quel secondo intercorso prima di capire che doveva voltarsi e correre alle scale, poté constatare con i propri occhi di quanto fossero veloci quelle luride bestie, nonostante la più piccola di loro, a occhio, pesasse non meno di cento chili.

Preso dal supplemento di panico aggiuntivo, fece i primi passi di fuga all'indietro, dando modo ai cinghiali di accorciare la distanza. Muovendo gli occhi ora a sinistra, ora davanti, finalmente si girò, conscio di non avere scampo; il capobranco era ormai a meno di dieci metri e gli pareva già di sentire i miasmi dell'alito fetido, un respiro che sapeva di morte. Le scale erano a un passo; si voltò, vedendo l'animale ormai troppo vicino e scorgendo, con la coda dell'occhio, anche gli altri prossimi ad afferrarlo.

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