35 - LA BIODOLA (1)

Il riflesso del sole scintillava sull'acqua in tanti puntolini accecanti, creati dalle increspature di un mare un poco agitato. Piccole onde si creavano e morivano subito, a volte schiumando, a volte in piccole pieghe, rincorrendosi o allontanandosi, senza un preciso schema logico.

In un punto non bene precisato del mar Tirreno, appena al largo delle coste settentrionali dell'Isola d'Elba, alcuni di questi flutti sbattevano sciabordando contro la chiglia e i fianchi di un piccolo peschereccio bianco e blu, che roteava intorno all'ancora calata, a seconda della corrente che lo catturava in quel momento. Sulle due fiancate, ai lati della prua, c'era scritto "BICE", ma nella parte destra il nome era alquanto scolorito e prossimo a sparire.

A bordo il rollio era piuttosto fastidioso per chi non fosse avvezzo al mare e al suo caratteraccio; Franco Trudi, addormentato sul pavimento della cabina, sbronzo come al solito, non era uno di quelli.


Era nato sull'isola e, tranne che per i quattro mesi più brutti della sua vita, sull'isola aveva sempre vissuto.

Aveva iniziato a lavorare come cameriere nel ristorante dei suoi genitori ad appena quindici anni, ma già accompagnava il padre a pescare quel che servivano ai clienti, fin da quando era piccolo; e questa era la cosa che più amava fare.

Adorava soprattutto pescare di notte; l'atmosfera presente sul mare, al buio, con la sola luna e una vecchia lampada cigolante, penzolante da un gancio appeso alla balaustra, a far da luci, era qualcosa di indescrivibile e magico. Gli piaceva immergersi in quel silenzio totale, rotto solo dai timidi sciaguattii dei flutti che accarezzavano la barca e la facevano rollare con dolcezza, come fossero tante piccole mani che dondolavano una culla. Lui e suo padre pescavano uno a fianco dell'altro, in armonia e assoluto silenzio.

Per Franco, sia per il bambino, sia per il ragazzo che divenne poi, quei silenzi racchiudevano tutto l'amore che c'era tra loro due, tutte le parole che non avevano bisogno di dirsi. Si erano sempre capiti al volo, con uno sguardo, con un gesto, poiché entrambi avevano la tendenza a parlare poco, preferendo i fatti alle parole. Solo una volta era successo che il suo vecchio rompesse l'incanto.

«La senti la voce del mare?» gli chiese.

Aveva risposto di sì.

La madre, che era l'esatto contrario, li prendeva spesso in giro per la loro poca loquacità, ma a volte invidiava il piccolo e silenzioso mondo che i suoi due amori più grandi si erano costruiti e nel quale lei faticava a entrare.

Erano comunque una famiglia serena e felice.

Quando il padre si ammalò e, in soli due mesi, li lasciò, fu un colpo molto duro; per Franco, a cui venne a mancare il sostegno più solido nella sua vita; ma soprattutto per sua mamma, che non riuscì a reagire come avrebbe voluto e come il figlio provò ad aiutarla a fare. Dopo meno di un anno, una notte in cui Franco era fuori a pescare, si gettò dal terrazzo del loro ristorante e morì sulla strada, dieci metri più sotto.

A soli venticinque anni Franco si ritrovò proprietario de "Le luci di Bastia", uno dei ristoranti più rinomati e frequentati dell'isola; le responsabilità piovutegli addosso furono parimenti grandi al doloroso senso di perdita e afflizione che avvolgeva il suo cuore; ma l'esperienza che aveva accumulato in quegli anni, insieme ai consigli e alle maestrie che i suoi genitori gli avevano lasciato in eredità, oltre al ristorante e a un cospicuo conto in banca, lo aiutarono a continuare lo splendido operato fin lì fatto. Inoltre, non era solo.

C'erano i due cuochi, marito e moglie, che lavoravano con i Trudi fin dall'apertura del locale, ed erano chef eccezionali, oltre che persone squisite. Avevano un figlio, Michele, coetaneo di Franco e suo migliore amico, che lavorava nel ristorante come cameriere da tre anni. Oltre a lui, a servire i tavoli, c'era il signor Bruno, come l'aveva sempre chiamato con affetto il padre di Franco, suo compagno di scuola e amico di vecchissima data, e la figlia Angelica, amore disperato e mai corrisposto di Franco.

Lo staff si chiuse a riccio su di lui, ognuno a proprio modo, per aiutarlo a superare il momento difficile, sia nel lavoro, che nella vita. Lui apprezzò e capì che, anche se in un modo diverso, aveva ancora una famiglia.

Dove la solitudine si faceva sentire e lo colpiva con tutta la sua forza, era nelle battute di pesca serali. Michele aveva insistito tanto per accompagnarlo, fin da quando era ancora viva la signora Trudi, ma Franco aveva sempre rifiutato. Quello era sempre stato un momento tra lui e suo padre, e doveva continuare a esserlo, anche adesso che il genitore non c'era più.

I silenzi della notte parevano diversi ora, più profondi, più assoluti, come se anche il mare si fosse zittito, per dargli forse l'opportunità di ascoltare meglio la voce che aveva nel cuore. Era la voce del silenzio, era la voce di suo padre, muta, eppure così fragorosa. E averlo così vicino dentro, lo rendeva terribilmente solo fuori, ampliando il vuoto intorno a lui.

Ma, se da un lato prevalevano tristezza e malinconia, dall'altro scoprì di percepire ancora di più gli odori, i suoni del mare che solo i pescatori più esperti potevano conoscere; comprese a pieno cosa intendesse suo padre quando gli aveva chiesto se sentisse la voce del mare. Ora, la sentiva sul serio; non con l'udito, come aveva creduto all'inizio, ma con il cuore.

E questo l'avvicinava ancora di più all'amato genitore, regalandogli una serenità interiore che non aveva mai provato.

Nessuno doveva spezzare quell'incanto, così doloroso e amorevole allo stesso tempo.


Il destino, però, era ancora in agguato, con un disegno più atroce, beffardo e complesso, nel bene e nel male.

A trentatré anni gli fu diagnosticato un tumore al pancreas, maligno e molto aggressivo, vista anche la giovane età. Dovette trasferirsi a Bologna per curarsi ma, dopo il primo ciclo di cure, il medico gli comunicò che non erano riusciti a sconfiggerlo. Il cancro si era ingrossato, le metastasi erano aumentate; gli restavano sì e no due mesi.

«Resta qui, Frank» gli consigliò il primario, che aveva preso l'abitudine di chiamarlo così sin dal primo giorno. A Franco non piaceva, ma non glielo disse mai.

«Possiamo provare a fare un altro ciclo e, nel caso, ti aiuteremmo a morire bene.»

Franco pensò che fosse una proposta generosa e agghiacciante allo stesso tempo. Sorrise al dottore, col quale aveva instaurato un discreto rapporto d'amicizia, si alzò e gli allungò la mano.

«Ti ringrazio! Ringrazio tutti. Mi avevano detto che l'ospedale Maggiore di Bologna è all'avanguardia... e l'è vero!»

Non sempre riusciva a nascondere il suo accento toscano, soprattutto quando le emozioni, di qualunque genere fossero, prendevano il sopravvento. Si sforzava, senza comprenderne a pieno il motivo, e alla fine biascicava solo un italiano sporcato dall'accento.

«Ma soprattutto lo è per la gentilezza delle persone che ci lavorano. Ho incontrato solo e sempre persone squisite. Ma manco dalla mi' isola da quasi quattro mesi. Ho voglia di rivedere il mio mare, il mi' ristorante, i miei amici. Respirare la mia aria. Se morirò, voglio sia là.»

«Certo che è assurdo se pensi che, proprio qui, in questa città, c'è una persona in grado di guarire i malati come te e come tanti altri, usando solo il potere delle mani!»

Franco aveva pensato più volte a Nicolas, l'uomo del momento ormai da diversi mesi; le televisioni, i giornali, la gente... non si parlava d'altro, strumentalizzando i fatti, com'era abitudine dei media, esaltando, polemizzando, riferendo alla propria maniera le cose dette o scritte da altri, come faceva la gente comune.

Nel marasma di notizie vere e inventate che venivano dette, era risaputo che il guaritore operava a caso, lasciando che fosse il destino a decidere chi potesse salvarsi e chi no. Non andava negli ospedali, sebbene molti l'avessero implorato di farlo, ma quando sentiva di essere pronto a un nuovo miracolo, si camuffava e girava per le strade, parlava con la gente nei bar, sulle panchine del parco, a fare la spesa, come succede ogni giorno in ogni posto del mondo. E quando s'imbatteva in qualcuno che aveva bisogno, sprigionava i suoi poteri. Dal primo caso dell'ottobre precedente, aveva guarito appena quattro persone in quattro mesi e c'è chi lo accusava di egoismo, chi addirittura gli dava dell'assassino per aver lasciato morire tanta gente che poteva essere guarita. Ma il motivo principale era che, a ogni guarigione, s'indeboliva sempre più e impiegava sempre più tempo a riprendersi.

«Il destino dà, il destino toglie. Ormai l'ho imparato molto bene» rispose Franco. «Non può guarire tutti; l'è già molto che possa farlo con alcuni.»

Ma proprio il destino, dopo essere stato infame con lui per l'ennesima volta, aveva deciso di farsi perdonare.

La notte prima di partire, lasciare Bologna e tornare all'Elba, una delle tante notti insonni che avevano costellato gli ultimi, dolorosi mesi, Franco, dopo aver tormentato le lenzuola per un'ora, si alzò e si diresse verso la sala tv con un caffè in mano.

Trovò una donna sul divanetto, con lo sguardo fisso sulla finestra.

«Buonasera», disse Franco, educatamente.

Lei si voltò e sorrise. «Ciao!» E batté la mano sul cuscino a fianco.

Lui si sedette, un po' imbarazzato, e la fissò. Era molto bella, anche se aveva lo sguardo sbattuto di una persona ricoverata in ospedale.

Aveva una massa di capelli neri ricci un po' spettinati e, nonostante la vestaglia che indossava, si notavano le forme un po' arrotondate del suo corpo, anche se non si poteva definire una donna grassa. Era più vecchia di lui, o almeno così pensò Franco, battezzando potesse avere tra i trentacinque e i quarant'anni.

Ma la cosa che più lo colpì furono gli occhi; erano grandi, luminosi, pieni di una vivida speranza che nemmeno la patina di stanchezza di cui erano permeati era riuscita a scalfire. Erano gli occhi di una donna che sapeva di dover morire, ma che si opponeva con tutte le forze al terribile destino.

«Ti osservo già da qualche settimana, sai?» disse lei, con una pronuncia strascicata, tipica straniera, assolutamente deliziosa.

Franco fu colto di sorpresa; lui non l'aveva mai vista, ma non voleva offenderla. Esitò, per decidere in fretta cosa fosse meglio rispondere, ma lei gli venne in aiuto.

«Tu non mi ha mai notato, lo so. Tranquillo! Visto il motivo per cui siamo qui, non è deplorevole non accorgersi di una donna nera, malata, che ti guarda!»

Parlò con il sorriso, ma gli occhi, quei meravigliosi occhi che aveva, si erano velati per un momento di tristezza.

Franco non riusciva a smettere di fissarla e avrebbe voluto chiederle di continuare a parlare all'infinito; la sua voce, la pronuncia arrotondata che dava alle parole, erano una melodia celestiale per le sue orecchie.

Col lavoro che faceva, in una delle isole più turistiche d'Europa, aveva conosciuto, o anche solo visto, molte donne di colore; lei le batteva tutte di parecchie lunghezze. Non era la bellezza da fotomodella alla Naomi Campbell, o comunque una di quelle super modelle che si vedono nelle pagine patinate delle riviste (il più delle volte ritoccate). Era una normalissima donna che potevi incontrare in qualunque angolo di una qualunque città del mondo, ma agli occhi di Franco pareva circondata da un'aura di magia luminosa, che ne esaltava i lineamenti anche più di com'erano nella realtà.

Era l'amore! Il più grande potere che esisteva su quel tossico tozzo di terra, capace di distorcere ogni cosa e di mettere insieme, a volte, elementi anche opposti tra loro. A Franco non era mai successa una cosa del genere, mai, in tutta la vita, ma aveva capito di essersi innamorato di quella donna all'istante, non appena i suoi occhi si erano posati su di lei. Ed era assurdo, visto che aveva sempre sostenuto che l'amore può arrivare solo dopo essersi conosciuti a fondo. Eppure, ora, era sicuro del sentimento che sentiva. Pensò fosse la malattia, che in qualche maniera aveva accelerato il processo, ma stava solo cercando d'ingannarsi.

"La ami, Franco! E non perché sei malato!"

«Ti sto notando ora» riuscì a dire, finalmente. «Sei molto bella!»

Rimase stupito lui stesso; da dove gli veniva tutto questo ardimento, proprio lui che ci aveva messo mesi per chiedere ad Angelica di uscire.

La donna sbatté le palpebre e il velo di tristezza sparì per magia. Si aprì in un sorriso radioso, mostrando una fila di denti bianchissimi che luccicavano al riflesso della lampada della sala.

«Grazie! Sei molto carino.»

"Dio mio! Che voce meravigliosa!" pensò Franco. "Sarà americana? O canadese? Cazzo! Chiediglielo, bischero!"

«Io torno a casa tra due giorni» aggiunse lei, interrompendo i suoi pensieri.

«Io, domani!»

Chissà perché se lo stavano dicendo!

«Mi chiamo...»

«No! Non me lo dire!» disse in fretta lei.

Lui rimase con la mano a mezz'aria e si sentì un po' stupido.

«Quanto ti resta da vivere?»

Quella domanda lo sconvolse e spense per un attimo l'atmosfera magica creatasi su quel divanetto. Per un momento ebbe l'impulso di alzarsi, andarsene e piantarla lì ma, per sua fortuna, non lo fece.

«Du' mesi» disse, infine.

«A me meno.»

Due grosse lacrime cominciarono a scendere sul suo viso.

«Mi piacerebbe passare il tempo che mi resta con te e col tuo splendido accento toscano, se tu vuoi...»

Nonostante tutto, stava sorridendo.

«Ma non voglio sapere niente, né il tuo nome, né da dove vieni o cosa fai. E lo stesso farò io con te. Così, quando ce ne andremo, non rimarrà traccia della nostra storia e del nostro amore, se amore sarà! Ce lo potremo portare con noi e sarà solo nostro. Questo voglio. Come ultimo desiderio!»

Franco rimase senza fiato. Non riusciva a capire, né a credere cosa stesse capitando. Aveva sempre pensato che certe cose succedessero solo nei film o nei romanzi, ma era tutto vero; erano lì, uno di fronte all'altra, nella saletta di un ospedale, e lei gli stava chiedendo di farle vivere l'ultima storia d'amore della sua vita. E l'aveva fatto regalandogli quella che, forse, era la più bella dichiarazione della storia. Era triste, ma terribilmente eccitante allo stesso tempo. Franco deglutì e aprì la bocca, ma lei gli pose la mano sopra.

«Mi faccio dimettere domattina, insieme a te. E insieme andiamo a visitare Bologna. Non dirmi di no» e lo baciò con trasporto, per quanto l'oppressione e la fatica delle loro malattie permettessero.

«Potremmo essere fortunati, e incontrarlo» disse poi, dopo essersi staccata.

«Di chi parli?»

«Del guaritore...»

Furono interrotti dalla porta della saletta che si aprì all'improvviso; un'infermiera mise dentro la testa.

«Tutto bene?»

«Non riusciamo a dormire» disse Franco.

«Ma a me è venuto sonno, adesso.»

La donna si alzò.

L'infermiera bofonchiò qualcosa, continuando il suo giro per il corridoio.

«Allora a domani.»

Di nuovo si baciarono, poi lei s'avviò all'uscita.

«Anch'io adoro il tu' accento. Tu hai capito che sono toscano, dimmi almeno tu di dove sei.»

«Non sono toscana!» rispose, facendogli l'occhiolino. E uscì.

Franco rimase qualche minuto sul divano, imbambolato, chiedendosi se in realtà non si fosse addormentato nel suo letto e quello non fosse solo uno strano, bellissimo sogno.


La mattina arrivò.

Franco si preparò, con l'eccitazione tipica di un adolescente che gli premeva il petto; aspettò l'infermiera con i documenti di dimissione, salutò tutti con calore e non senza lacrime, poi si avviò all'uscita.

Non vedeva la donna da nessuna parte; scrutò ogni faccia presente nel corridoio, lanciò lunghe occhiate dentro a ogni camera davanti a cui passava. Prese l'ascensore insieme a tre persone bianche, ma continuava a fissarle con la coda dell'occhio come se, a ogni nuova occhiata, pensasse di essersi sbagliato e che una di loro si trasformasse in quella misteriosa e meravigliosa creatura notturna.

Si avviò verso l'uscita, convinto ormai che fosse stato sul serio solo un bellissimo e alquanto doloroso sogno, quando la vide a fianco delle porte d'uscita, in piedi, con una piccola valigetta color cuoio in una mano.

Il suo cuore cominciò a battere all'impazzata. Indossava una giacchetta primaverile, aperta sul davanti su una maglietta rossa che ne esaltava il seno abbondante, e un paio di jeans attillati. Ai piedi aveva scarpe da tennis. Era ancora più bella di come Franco l'aveva rivista nel tormentato dormiveglia che l'aveva accompagnato al sorgere del sole.

«Ciao, caro» gli disse, schioccandogli un bacio sulle labbra. «Non hai cambiato idea, vero?»

«No» rispose, pensando al biglietto aereo acquistato e che aveva nella tasca della giacca.

"Fanculo! Ne comprerò un altro!"

Era il due marzo, e nonostante fosse ancora inverno, un sole gentile aveva deciso di dare un anticipo di primavera con una giornata meravigliosa, priva di umidità nell'aria.

Quando uscirono all'aperto, sia Franco che la sua compagna sorrisero ai raggi caldi sul viso, e alla brezza tiepida e piacevole che svolazzava intorno. Sembrava che la natura fosse felice per quell'incontro e avesse predisposto tutto per il meglio, per far passare loro la giornata più bella possibile.

E fu effettivamente così.

Presero l'autobus e scesero proprio sotto le due famose torri bolognesi; percorsero via Rizzoli e raggiunsero Piazza Maggiore, attraverso piazza Re Enzo. Visitarono la basilica di San Petronio, poi andarono in via D'Azeglio, a cercare il campanello con scritto "Domenico Sputo", ingresso della casa di Lucio Dalla, di cui Franco era un grande fan; dovette trattenere l'impulso di suonare. Si persero nella contemplazione della statua del Nettuno, dopodiché percorsero tutta via Indipendenza fino al parco della Montagnola, guardando le vetrine, sempre mano nella mano, fermandosi spesso per scambiarsi teneri baci, come fossero una coppia che stava insieme da anni, ancora innamorati come la prima volta. Nessuno dei due conosceva il nome dell'altro, né l'età, né di dove fossero.

Quando lei fu stanca trovarono un ristorante dove pranzare.

«Cosa vuoi fare adesso?» chiese lui, mentre tormentava l'ultimo pezzetto di dolce con il cucchiaino.

«Voglio trovare un bell'alberghetto, rintanarmi in una camera e fare l'amore fino a domattina.»

E così fecero.


«Devo tornare a casa, domani.»

Erano abbracciati nell'oscurità della camera, nudi e felici. Nonostante fosse quasi mezzanotte, dall'esterno giungevano ancora i rumori della strada.

«Devi proprio?» sussurrò lei.

«So che non vuoi sapere nulla di me, ma ho un lavoro da mandare avanti. C'è chi l'ha fatto in mia assenza, ma adesso devo tornare.»

La luce del comodino s'accese. Quegli occhi grandi di cui già Franco non poteva fare a meno, lo fissavano pieni di straziante paura.

«Ti prego! Non lasciarmi! Non lasciarmi morire da sola. Ho solo te.»

Le lacrime cominciarono a sgorgare copiose e lui sentì il cuore stringersi in una morsa dolorosa.

«Vieni con me. Vivo in un posto splendido. Te ne innamoreresti al primo sguardo.»

«Come mi è successo con te?»

Franco sorrise. «Anche di più.»

«Venire con te vorrebbe dire imparare chi sei. Non voglio. Ti prego, non chiedermi il perché, ma sento che non è la cosa giusta. La nostra storia deve procedere come oggi. È tutto così... magico. Non credi anche tu?»

A Franco pareva di essere salito su una barca sballottata dalle onde di un mare in tempesta.

«È tutto bellissimo. Non credevo che nella vita reale potesse accadere una cosa come quella che è successa a noi. Che sta ancora succedendo... Ti amo, chiunque tu sia, qualunque nome tu abbia. Ti amo da morire!»

Lei si asciugò le lacrime e ridacchiò.

«Nel nostro caso è proprio così, infatti. Il nostro amore ci accompagnerà fino alla morte.»

Appoggiò la testa sul suo petto. «Se veramente mi ami, non andartene.»

Franco chiuse gli occhi e sospirò. Come poteva fare? In realtà non voleva lasciarla, voleva disperatamente restare con lei. Ma il suo ristorante... la sua isola... le persone che lo stavano aspettando... Anche per casa sua provava amore, in maniera diversa, ma lo provava.

«Ho un mese, dicono. Forse meno» aggiunse lei.

Il cuore di lui sobbalzò.

«Non devi attendere molto per liberarti di me.»

«Non dire così. Non voglio liberarmi di te. Vorrei vivere con te, invece. Per sempre. È così ingiusto! Perché non ci siamo conosciuti prima?»

«Perché non eravamo ammalati. Si vede che era destino che ci incontrassimo in un ospedale, solo perché la malattia ci ha condotti lì.»

"Il destino! Sempre e solo questo cazzo di destino!" pensò Franco. Sospirò di nuovo.

«Come vuoi tu. Resto con te.»

Lei sollevò la testa e lo fissò con gli occhi colmi di una delle ultime gioie che le restavano.

«Sul serio?»

Franco annuì, felice nel vedere la felicità che le stava regalando.

«Ma dove andremo?» le chiese.

«Possiamo anche rimanere qui, se per te va bene. Io posso permettermi un mese d'albergo e, se tu no, offro io. Voglio che ogni singolo giorno che mi rimane, sia come oggi. Per me e per te. E quando comincerò a stare male, ci sarai tu con me. Morirò felice.»

«E se fossi io il primo ad andarmene? I dottori danno delle scadenze, ma non sempre vengono rispettate.»

Lei s'adombrò. «Sarà quel che sarà, amore mio. L'importante è stare insieme, finché ce lo viene permesso.»

Franco rabbrividì, percependo la magia e la terribile realtà di quell'amore, combattere furiosamente uno contro l'altra.

La baciò, lei spense la luce e si rintanarono nuovamente sotto le coperte.


«Ti va di andare ai Giardini Margherita?»

Mentre la donna si faceva la doccia, Franco era sceso nell'atrio dell'albergo per chiamare Michele e raccontargli quello che era successo, pregandolo poi di inventarsi una qualche storia da propinare agli altri; ne aveva approfittato, poi, per chiedere consigli alla reception su dove poter trascorrere un po' di tempo tranquilli, in mezzo alla natura. Il giorno prima avevano un po' esagerato nel fare i turisti; lui si era sentito parecchio affaticato a un certo punto, lei molto di più. Per un attimo l'aveva vista come supponeva sarebbe stato, quando il tumore avrebbe preso il sopravvento totale.

«Non so cosa siano» aveva risposto lei, mentre si asciugava i capelli con un asciugamano.

«Un parco, appena fuori il centro. Il tizio giù mi ha detto che sono grandi, tranquilli, bellissimi.»

«Ci sto!»

La giornata prometteva bene, ma l'aria era notevolmente più fresca del giorno prima.

Mano nella mano la coppia passeggiava lungo uno dei viali del parco, accompagnati dal cinguettio di qualche uccello solitario e dal rumore del traffico che, un po' ovattato, giungeva comunque alle loro orecchie.

Non c'era molta gente in giro: qualche pattinatore, qualcuno che correva, un paio di intrepide coppie stese su un telo nell'erba.

Franco lanciava continui sguardi preoccupati alla sua compagna; era silenziosa, a parte i colpi di tosse molto frequenti; aveva il volto tirato e, a volte, aveva l'impressione quasi di doverla trascinare con la mano, come se il suo incedere si facesse all'improvviso più pesante.

«Tutto bene, tesoro?»

Lei sorrise, ma il sorriso era più un piccolo sgorbio sul suo viso.

«Mi sento un po' stanca. Ci riposiamo?»

La panchina più vicina a loro era occupata, su un lato, da un tizio incappucciato che leggeva un libro con le gambe stese in avanti. Ce n'era un'altra, del tutto libera, qualche metro più avanti. Franco fece per dirigersi verso quella, ma lei si era già diretta verso la più vicina, tirandolo per la mano.

La sensazione sgradevole che gravava nello stomaco di Franco, si accentuò. Qualcosa non andava. Possibile che la sua ora fosse già così vicina? Aveva parlato di un mese, ma cominciava a sospettare che la realtà fosse molto più tragica. La donna di cui si era innamorato in quattro e quattr'otto stava sfiorendo sotto i suoi occhi, proprio in quel momento, e mentiva a sé stesso se diceva di non essersi accorto di niente, fin da quando si erano svegliati quella mattina.

Lei si lasciò andare sulla panchina, accasciandosi sullo schienale. Poi si voltò verso il tizio che leggeva, che aveva alzato appena lo sguardo su di loro.

«Disturbiamo?»

Lui fece no con la testa e si rituffò nel libro, ma Franco poteva giurare che non stava più leggendo.

«Sicura di stare bene?»

Lei tacque, si guardò intorno, respirò a pieni polmoni e cominciò a piangere.

«Questo è un posto adatto, sai? Grazie d'avermi portato qui.»

Franco capì e sentì il cuore quasi uscirgli dal petto, tanto batteva. Lo stomaco era un groviglio di serpi che si contorcevano, formando una palla pesante e velenosa.

«Avevi detto un mese...» disse, sentendo un accenno di lacrime spingere sotto le palpebre.

«L'hai detto anche tu, ieri. I medici, a volte, danno scadenze sbagliate.»

«Chiamo un'ambulanza...»

Lei lo bloccò, afferrandogli la mano che già armeggiava in tasca, in cerca del telefono. «Non t'azzardare!»

«Amore... io...»

«Non t'azzardare!» ripeté lei.

L'individuo al loro fianco aveva chiuso e riposto il libro. Li fissava e si schiarì la voce.

«Avete bisogno d'aiuto?»

«Solo se può guarire i tumori allo stadio terminale» rispose lei, quasi senza pensare a quel che diceva, immersa nell'ascolto dei cinguettii che aveva intorno, godendosi più che poteva la brezza sulla faccia e il calore del sole sulla pelle; vedeva le formiche, laboriose, ai piedi della panchina, che s'affaccendavano nei loro lavori, mentre un'ape ronzava lì vicino. E gli odori. Mio Dio, gli odori che arrivavano al suo naso! Il profumo inebriante degli alberi, dei fiori, dell'erba, della terra. Ogni senso del suo corpo era sveglio, attivo come non era mai stato, pronto a carpire e regalarle ogni minima sensazione la sfiorasse.

Ma, per quanto anche il suo udito fosse teso a ogni suono, non sentì la risposta del tizio, che intanto si era abbassato il cappuccio. Si sentiva incredibilmente spossata e qualcosa, di subdolo, di minaccioso, cominciava a pungerle il petto.

Con la coda dell'occhio vide Franco mettersi una mano sulla bocca e aggrottò la fronte, perplessa; il ragazzo (solo ora si era accorta che, seduto a fianco a lei, c'era un ragazzo) la fissava.

"Mamma mia, quant'è brutto, questo!" pensò, soffocando quasi una risata.

E più lo fissava, più ne provava pietà.

Aveva il volto scavato, occhiaie profonde colorate di nero, una barba ingrigita, a chiazze; la pelle era emaciata, i pochissimi capelli sembravano attaccati con la colla; lo sguardo era vitreo, spento, stanco. Era giovane e vecchio allo stesso tempo e, comprensibilmente, nella sua mente si disegnò l'ipotesi che pure lui fosse malato.

«Come, scusa?» si sentì chiedergli.

Il ragazzo aprì la bocca, ma non ne usciva nessun suono. Sembrava stesse facendo il pesce. La donna continuava a sentire solo i rumori della natura.

«... umore?»

«Come dici?» ripeté lei.

Poi, all'improvviso, i suoni intorno s'abbassarono, come se qualcuno avesse girato una manopola; sentì un "click" nelle orecchie, come quando si stappano scendendo da una montagna, e la voce del ragazzo le giunse in tutta la sua sgradevolezza e rochezza. Ebbe l'impressione d'aver assunto un'espressione di disgusto, e sperò con tutto il cuore di non averla realmente fatta emergere sul viso.

«Sono Nicolas, tesoro. Dove ce l'hai il tumore?»

L'informazione e la domanda giunsero insieme al cervello della donna, ma solo la prima attecchì subito, squarciandole il cuore, seccandole la gola e riempiendole gli occhi di calde lacrime.

L'amore che c'era in lei, vero, potente e sincero, ruppe gli argini ed esondò come un fiume ingrossato da troppi torrenti in piena.

«Anche lui è malato!»

Indicava Franco, con un dito tremante. «Guariscilo, ti supplico!»

Nella sua mente c'era spazio solo per l'uomo che amava, senza rendersi conto che lo stava vedendo solo nella sua testa, quando era lì, in lacrime, in piedi davanti a lei.

Il ragazzo si chinò e le prese le mani.

«Credo che morirò se vi guarisco tutti e due, ma il vostro amore è grande. Riesco a vederlo, riesco a sentirlo, sia in te che in lui.»

Le lacrime di lei erano ormai incontrollabili, proprio come quelle di Franco che pure si era inginocchiato e le accarezzava la testa.

«Dimmi, cara. Dove hai il tumore?»

Lei cominciò a singhiozzare. Le parve di vedere un uomo in pantaloncini, fermo dietro di loro col telefono all'orecchio, ma le emozioni che stava provando erano enormi e capiva di non poter essere sicura ormai di niente, né di ciò che vedeva o sentiva.

«Al... al seno» balbettò.

«Come ti chiami?»

«Beatrix...» disse lei, senza pensare che Franco stesse sentendo.

«Chiudi gli occhi, Beatrix...»

Sentì qualcuno che le sfilava la giacca; sentì la maglietta che le veniva sollevata e le braccia che le venivano alzate sopra la testa. Un brivido di freddo le corse lungo la schiena, ma la sensazione era piacevole, e fece emergere un timido sorriso sulle sue labbra.

«Tieni chiusi gli occhi, Beatrix, e non preoccuparti di nulla.»

Sentì il ferretto del reggiseno venire slacciato e una seconda ondata di fresco, più pungente, le circondò il seno. Due mani si posarono con dolcezza sulle sue grosse mammelle nere e Beatrix rabbrividì, questa volta percorsa da un piccolo brivido di piacere.

«Per favore, state indietro.»

Il freddo svanì all'istante, sostituito da calore, tanto calore, calore molto intenso. Beatrix stava quasi per urlare, ma di nuovo la voce parlò.

«Occhi chiusi, cara. Occhi chiusi.»

Non sembrava più la voce gracchiante che aveva udito poco prima; ora era pulita, limpida e squillante, anche se le sembrava di percepire una leggera inflessione d'affaticamento.

Il calore aumentò ancora e, all'improvviso, una luce fortissima esplose; Beatrix strinse di più le palpebre, nonostante fossero già chiuse. Vedeva una grossa macchia gialla davanti a lei, crescere di pari passo con la sensazione di caldo che provava. Si chiese se fosse rimasto qualcuno, oltre a lei e Nicolas su quella panchina, perché non sentiva nulla se non il calore spaventoso sul petto e il giallo accecante che le bruciava gli occhi. Voleva chiedere aiuto al suo uomo, ma non ne sapeva il nome e le pareva fosse lontano, molto, molto lontano. Sentiva la pelle friggere e qualcosa che scorreva in lei, qualcosa di bollente che faceva male. Provò a muovere le braccia, ma qualcuno (qualcosa?) la bloccava. In un attimo il dolore aumentò vertiginosamente; tutto il suo corpo bruciava, tranne sul seno dove percepiva una strana sensazione di bagnato e di freddo pungente. Sentì un urlo crescerle in gola mentre la luce gialla veniva risucchiata in un vortice, lasciando solo oscurità tutt'intorno.

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