33 - SHOPVILLE GRAN RENO (1)

Alle due e un minuto antimeridiane di domenica 19 giugno 2022, la famiglia Gallo era pronta per partire.

Alessandro e Silvia avevano riempito due grossi borsoni con indumenti di ricambio, tutto l'intimo che avevano in casa e un paio di scarpe extra per ognuno. Caricarono tutto in auto insieme a una cassa d'acqua e una piccola sporta di ciò che era rimasto nella dispensa, alimenti che non andavano conservati nel frigorifero.

Antonio si sedette dietro, tenendo sulle gambe, ben stretto con le braccia, il suo prezioso zaino; guardava i suoi genitori con il solito sorriso beato dipinto sulle labbra, in contrasto con l'espressione rabbuiata del padre, salito dopo aver appurato che i loro amici Fabrizio, Cristina e Matteo erano spariti, e la loro casa, come la maggior parte di quelle che avevano intorno, presentava un grosso buco al posto dell'ingresso.

«Sembrano spariti tutti, a dire il vero» disse Silvia, guardando in giro.

La loro via appariva deserta e silenziosa come doveva sempre essere stata a quell'ora di notte, ma sia lei, sia Alessandro, vedevano e, soprattutto sentivano molto bene che c'era qualcosa di diverso. Il silenzio che regnava non era quello prodotto da persone che dormivano; era più denso, più tetro, come se mancasse ogni suono, come se tutti i rumori del mondo fossero stati rinchiusi in un unico file e cancellati per sempre. Davanti a loro, nella direzione che dovevano prendere, uno strano riverbero color arancio vibrava nel cielo, spuntando da dietro i tetti delle ultime case che costituivano il loro borgo.

Alessandro schiacciò l'acceleratore dirigendo l'auto in quella direzione, ma subito s'arrestò.

«Cazzo!» Aprì lo sportello e fece per scendere.

«Cosa c'è?» chiese Silvia.

«Ho dimenticato la mia borsa» e corse verso la casa.

«Doove va pp... papà?»

Silvia si voltò. «Arriva subito, tato.»

Antonio si era messo a canticchiare a bocca chiusa, cosa che in genere le regalava buonumore. Ma in quel frangente non riusciva a sentirsi allegra; percepiva un velo di panico attorno al cuore ed era terrorizzata all'idea di scoprire cosa o chi producesse quella luce, e cosa fosse successo a tutti quanti.

Alessandro tornò dopo un minuto.

«Sono un medico. Potrebbe esserci bisogno di me, soprattutto vista la situazione» disse, riponendo la borsa con i suoi strumenti medici sul sedile a fianco di Antonio.

«E anche questa...» ripose una grossa torcia elettrica nel vano portaoggetti. «Può sempre servire.»

Risalì e l'auto si mosse.


Erano partiti da meno di due minuti e avevano superato le ultime case, quando davanti ai loro occhi si palesò tutta la realtà con la quale erano obbligati a convivere. Mancò loro il fiato, sentendo quasi il battito del cuore fermarsi. D'istinto si presero per mano e si voltarono a guardare Antonio che continuava a canterellare con le labbra, sorridendo alla sua maniera, fissando fuori dal finestrino come se stesse rimirando un prato fiorito illuminato dal sole.

«I fili...» disse Alessandro, distogliendo gli occhi dal figlio e posandoli sulla moglie.

«Già, i fili...» rispose lei.

Si voltò di nuovo, controvoglia, verso la bolla, e vide Cristina.

I riflessi arancioni, accentuati dall'oscurità presente, giocavano impietosamente sul suo volto, donandole una parvenza d'abbronzatura che stonava con l'espressione vacua incollata sulla sua faccia. L'allegria e la voglia di vivere che l'amica aveva sempre avuto erano sparite, succhiate fuori in quel filo rosso che le usciva dalla bocca.

«Ti prego! Andiamo via da qui.»

La visione di quell'orrendo spettacolo aveva diradato un po' la nebbia nella sua testa, ma le sensazioni che le arrivavano erano brutte e angoscianti.

«Subito!»

Alessandro non indugiò oltre, schiacciò sul pedale e l'auto si allontanò nella notte.


Scoprirono subito che non era per nulla facile sottrarsi a quelle macabri visioni. Le bolle erano ovunque, ovunque ci fossero case o condomini o villette, la maggior parte sventrate e danneggiate; qualsiasi spazio abbastanza largo, fosse una piazza, un campo o un cortile, era occupato da quegli assurdi palloni arancioni; e all'interno la stessa, identica, penosa scena di persone e fili rossi, fili rossi e persone inebetite. E la presenza che nella bolla vicino casa non avevano notato: un uomo, più alto e grosso del normale, dentro il quale convogliava tutto l'intreccio che quelle linee rosse formavano.

Alessandro rabbrividì ora che poteva vedere cosa fosse entrato nella loro tavernetta, e ripensando a quanto quell'affare fosse stato vicino a sua moglie e a suo figlio. Si chiese se non fosse rischioso passarci così vicino.

"Po... Possiii... amo aaannndare ora."

La voce di suo figlio riecheggiava ancora nella sua testa; se Antonio sosteneva che non ci fossero pericoli a stare fuori di casa, lui ci credeva. Non fosse stato per lui, sarebbero stati là sotto pure loro.

Non incontrarono nessuno che non fosse rinchiuso in una di quelle cupole; non videro anima viva in giro, non incrociarono nessun'altra auto. Il senso di desolazione e disperazione aumentava a ogni metro che percorrevano.

«Sarà così per tutto il viaggio?»

«Non lo so, amore. Non lo so. Ehi, campione!»

Alessandro cercò il viso del figlio nello specchietto retrovisore. Gli occhietti furbi e vivaci lo trovarono subito.

«Tutto bene, lì dietro?»

Antonio annuì, senza smettere di canticchiare.

«Almeno lui sembra sereno.»

Silvia lo fissò. «Non ti inquieta questo fatto? Non accenna nemmeno la più piccola reazione a tutto... questo. E sapeva dei fili. Sapeva che stavano arrivando, sapeva quando potevamo uscire, quando quei cosi avrebbero smesso di dare la caccia... Come, Alessandro? Come?»

«Sai che non ti so rispondere. È inutile scervellarsi. Arriviamo dove vogliamo arrivare e forse qualcuno potrà chiarirci i dubbi.»

Silvia fu tentata di raccontare al marito le sue visioni e provare a spiegargli l'oscura consapevolezza di sapere il perché suo figlio fosse così informato. Voleva esternare l'incubo che aveva avuto, condividere con lui quell'orgoglio misto a terrore che aveva provato vedendo... Non ricordava più cosa avesse visto, ma le sensazioni che il sogno le aveva lasciato erano vive in lei, e pungevano, lievemente ma senza interruzione. Era sul punto di aprire la bocca, ma la voce del marito la interruppe.

«Mio Dio...»

Erano giunti nell'area commerciale di Casalecchio e alla loro destra si estendeva l'enorme parcheggio che collegava Leroy Merlin e IKEA, occupato per quasi tutta la sua estensione dalla bolla più grande che avessero visto fino a quel momento; un intricato perimetro di lamiere contorte e aggrovigliate, gomme, spuntoni di ferro e quant'altro, la circondava, come a proteggerla. Sembrava che ogni singola auto, posteggiata lì, fosse stata allungata e annodata a un'altra, come normalissimi pezzi di corda.

«Merda! Faccio quasi fatica a credere a ciò che sto vedendo! Quanta gente ci sarà lì dentro? Duemila? Tremila?»

Silvia non rispose; la sua attenzione era tutta assorbita dall'enorme palla rossa che stazionava nella parte superiore della bolla, come un enorme occhio posizionato su tutti e dal quale non si poteva sfuggire. Un'infinità di fili la collegavano alle bocche degli sventurati sotto di lei, come i tentacoli di una micidiale piovra rossa.

Sull'altro lato della strada sorgeva, invece, l'Unipol Arena, con un inquietante riflesso arancione che gli tremolava dietro, come se, là davanti, si stesse svolgendo un qualche pirotecnico spettacolo luminoso.

«Mi sa che ce n'è un'altra nel parcheggio del palazzetto...» disse.

Dopo qualche metro il riflesso si materializzò e la base superiore della cupola fu visibile ai loro occhi.

«Sembra un brutto sogno. Un brutto sogno causato da un film di merda visto al cinema!»

«È vero» rispose Alessandro, sospirando.

«Solo qualche ora fa stavamo facendo l'amore, ascoltando i Led... Come è possibile che in un attimo siamo stati catapultati in tutto questo? Non abbiamo avuto nemmeno il tempo di prepararci...»

Cominciò a singhiozzare, tenendosi la fronte appoggiata sulle dita.

Le braccia di Antonio la cinsero da dietro all'istante.

«Nnnon piaaa... angere mmaaa... mmma!»

Lei strinse le mani nelle sue. «Grazie, tesoro!»

«Dai! Stai su. Vedrai che si risolverà tutto» provò a dirle Alessandro, ma nemmeno lui ne era troppo convinto.

La macchina arrivò a una rotonda, imboccò la prima uscita e s'infilò a destra sotto ai parcheggi coperti del Gran Reno. L'oscurità era totale e l'unica luce proveniva dai fari della loro auto. Alessandro si fermò a ridosso di uno degli ingressi.

«Voi aspettate qui. Cerco la cartina e torno subito» disse, recuperando la torcia dal cassetto sopra le gambe di sua moglie.

«Sarà un po' più complicato solo con questa luce, ma cercherò di sbrigarmi.»

«Sai già dove andare?»

Alessandro la guardò con un mezzo sorriso, esponendo in avanti le labbra.

Più spesso di quel che avrebbe voluto, gli capitava di assumere l'espressione di suo figlio, e che una volta aveva avuto pure lui; Silvia gliel'aveva fatto notare varie volte, e altri prima di lei. Non lo faceva apposta, era la sua faccia, la sua espressione, i suoi tic, tracce indelebili di ciò che era, prima che quel Nicolas lo toccasse, quel giorno ormai lontano.

Aveva riflettuto a lungo su questo fatto e i suoi genitori prima di lui. Nell'anno successivo al miracolo l'avevano fatto visitare da diversi specialisti, anche se, a parte quelle sporadiche espressioni che comparivano sulla sua faccia, nessuno poteva negare che Alessandro Gallo non era più affetto da mongolismo. Ma sua mamma, in particolare, sembrava non volersene convincere e sembrava credere che da un momento all'altro potesse avere una ricaduta, come se la sindrome di Down fosse una comune malattia e non una semplice anomalia genetica.

«Signori Gallo, dovete smetterla e accettare il fatto che è stato compiuto un miracolo. Non l'unico, tra l'altro...» aveva detto finalmente un giorno il dottor Buzzi, l'ennesimo e ultimo medico che consultarono.

«Diciamoci la verità. Non si può guarire una persona affetta dalla Down... Scusate. Ho usato un termine sbagliato. Guarire... Non è una malattia. Diciamo così... Chi nasce down, muore down, purtroppo il più delle volte prima del dovuto. Ma qui, con vostro figlio, è successo. Come, non sono in grado di spiegarvelo. Nessuno lo è. Ma vi garantisco sulla mia stessa laurea e sul mio onore di medico stimato che Alessandro è, a tutti gli effetti, un normalissimo ragazzo, senza più nessuna patologia. Accettatelo e basta e cominciate a godervi serenamente la nuova vita che vi è stata donata. Soprattutto, fatela vivere a lui.»

La madre si era messa a piangere, e suo padre l'aveva imitata. Fu quel momento, quelle lacrime che sancirono il suo prodigioso cambiamento, più del giorno stesso in cui era successo.

«Come no? Sai che io vengo qui tutti i giorni e conosco questo posto come le mie tasche!» rispose Alessandro, ritirando dentro le labbra non appena se ne accorse.

Il sarcasmo non sembrava proprio adattissimo in quel frangente, ma non riuscì a trattenersi. La realtà era che odiava posti come quello: centri commerciali, Ipercoop, o qualsiasi locale che avesse più di tre corsie in cui fosse esposta la merce.

Nonostante il miracolo ricevuto fosse accaduto in un luogo come quello, (anche se il suo, il Centronova, si trovava dall'altra parte della città), aveva sviluppato da subito un'autentica avversione per la "grande distribuzione" e, se ci andava, era solo per esigenze inderogabili.

Silvia era l'esatto contrario; adorava fare shopping al Gran Reno con le sue amiche, e lì, era praticamente di casa.

«Cercherò l'edicola o una cartoleria» aggiunse, infine.

«E tu vuoi comprare una cartina stradale in edicola o in cartoleria?» Silvia alzò gli occhi al cielo. «Devi andare da Feltrinelli. Si trova al primo livello, tra Clayton e la Vodafone, proprio di fronte a Tezenis.»

Alessandro la guardava come se stesse parlando una lingua morta da millenni.

«Oh, per carità! Dammi la torcia, dai. Vado io»

Lui ritrasse la mano. «No! Non ti lascio andare da sola là dentro, al buio, con quello che è successo, con quello che c'è in giro.»

Guardò versò l'ingresso scuro che pareva attenderli come le fauci spalancate di un enorme mostro.

«Quei cosi potrebbero essere ancora in giro.»

«Secondo tuo figlio, no.»

Lo sguardo di Silvia era di sfida, forse curiosa di vedere se il suo maritino era disposto a smentire quello che Antonio diceva.

Lui guardò il ragazzo che ora sembrava stesse ascoltando; le pupille guizzavano di curiosità e di furbizia.

«Va bene, ma non voglio che vai comunque.»

Lei sorrise e gli diede un bacio sulle labbra.

Ma, nel momento stesso in cui la mano di Alessandro si posò sulla leva di apertura dello sportello, la voce di Antonio riecheggiò nell'abitacolo. «Ho ff... fame!»

«Ci sono dei biscotti, tato. E qualche merendina» disse Silvia.

Il ragazzo scosse la testa. «Ppp... paniino MMM... McccDooo...»

«Vuole un hamburger del Mac!» La voce di Alessandro aveva assunto un tono rassegnato.

«Va bene. Dopo ci fermiamo...»

«Sai che non esiste "dopo"!»

La guardava cercando di parlarle con gli occhi. Per alcune questioni ad Antonio non si poteva dire di no e nemmeno "lo facciamo dopo". Il cibo era una di quelle. E nessuno dei due era dell'animo adatto per sopportare una delle sue crisi.

Silvia sospirò. «Dentro c'è un McDonald. È all'ultimo livello.»

«Abbiamo una torcia sola e io voglio ripartire prima possibile. Fare entrambe le cose insieme ci porterebbe via più tempo. Meglio se ci dividiamo.»

Lo diceva a malincuore e con una punta di preoccupazione.

«Io e Antonio andiamo in quello che c'è qui fuori, davanti al parcheggio dell'Unipol; all'esterno almeno c'è un po' di luce, tra lampioni e luna. Tu vai a prendere la cartina e, mi raccomando, amore... Stai attenta!»

«Non si preoccupi, comandante!» rispose lei sorridente, battendosi la fronte con il lato della mano. «Sarò velocissima, anche al buio! Sarà tutto spento al Mac. Fornelli, forni, friggitrici...»

«Sì, ci avevo pensato. E forse distrutto, più che spento. Se quei cosi si sono introdotti là dentro, come nelle case... Magari troviamo panini già pronti, che stavano per essere venduti.»

«Sicuro di non voler andare tutti insieme?»

Alessandro scosse la testa e abbassò la voce. «Non voglio portarlo lì dentro.»

«Fff... fame!» Antonio cominciava a essere irrequieto.

La baciò. «Dieci minuti! Ok? Tra dieci minuti ci ritroviamo qui.»

Silvia gli fece l'occhiolino e stringendo forte la torcia, scese dall'auto.


L'ingresso del McDonald era un cumulo di macerie. Alessandro temette di scorgere dei cadaveri sotto al pietrisco sparso ovunque, preoccupato per la reazione che avrebbe potuto avere Antonio, soprattutto nel caso di sangue. Ma c'erano solo polvere e muri rotti. Pensò che tutti quelli che si trovavano all'interno, quando... era successo, fossero finiti sotto alla bolla che riluceva splendente a una trentina di metri da loro, nell'enorme parcheggio dell'Unipol Arena.

"Oppure sono riusciti a scappare..." tentava di convincersi, senza riuscirci un granché.

Una lampada montata su un alto palo, di fronte all'ingresso del locale, riusciva a illuminare un poco anche l'interno, nel quale s'intrufolarono facendo lo slalom tra i detriti.

Alessandro teneva per mano il figlio. Lo fissò, poi arrischiò la domanda che aveva sulle labbra da quando erano scesi dall'auto.

«Sai cos'è successo qui, tato? Cosa sta succedendo dappertutto?»

Il ragazzino lo guardò a sua volta e si strinse nelle spalle.

«Sai cos'è quella?» Indicò la bolla. «Cosa sta succedendo a tutta quella gente?»

Antonio gli rispose con uno dei suoi sorrisi, uno di quelli che talvolta faceva e che mostravano in tutta la sua triste realtà, gli effetti della sindrome con la quale era nato. Era soprattutto in quei momenti, più che in altri, che lo stomaco di Alessandro si chiudeva a riccio attorno al gomitolo di pungenti sensi di colpa che gli pareva d'avere dentro, sentendo quasi gli aculei infilzare la carne, facendogli provare il rimorso come fosse vero dolore fisico.

Gliel'avevano detto tutti: Silvia, i suoi genitori, i suoi suoceri, gli amici, i vari dottori consultati... Lui non aveva nessuna colpa per la situazione del figlio. Era stata sfortuna! Nient'altro che pura e maledetta iella. E, era ovvio, la genetica.

Ma lui sapeva che non era così. Sapeva che la sindrome del figlio era la sua; sapeva che Nicolas non gliel'aveva cancellata dal corpo, ma solo messa in pausa, pronta a ripartire dentro al primo bambino avesse avuto. E così infatti era stato. Ne era certo al mille per mille.

Aveva pianto litri e litri di inutili lacrime, di nascosto, fin dal giorno in cui l'ecografia aveva rivelato il problema nel feto che si stava sviluppando dentro all'utero di sua moglie, e anche in quel momento, all'interno di un McDonald quasi del tutto distrutto, mentre osservava il sorriso ingenuo di suo figlio come risposta alla sua domanda, sentiva fortissima la voglia di lasciarsi andare. Ma si trattenne, incuriosito, più che addolorato, dal fatto che ora Antonio paresse ignorare del tutto ciò che stava succedendo. Solo poche ore prima aveva dimostrato il contrario.

"Che ci stia nascondendo qualcosa?" pensò.

Non sarebbe stato da lui, sempre aperto, spontaneo, sincero... per quel che poteva, almeno. L'inganno e la falsità non erano mai riusciti a entrare nella sfera di Antonio Gallo. E nemmeno sembrava spaventato o timoroso di rivelare cose segrete. No. A dirla tutta, dava realmente l'impressione di non avere risposte, come se ci fosse qualcuno nella sua testa che accendeva la luce sulla verità a intermittenza.

Alessandro decise di non pensarci più per il momento, o almeno provarci, sperando di trovare risposte esaurienti da Franco de Simone, se e quando fossero riusciti a trovarlo.

Furono fortunati! Il bancone era integro e anche la parete dietro che lo divideva dalla cucina. C'erano degli spazi nel divisorio, dove gli addetti alla cottura inserivano man mano gli alimenti cotti ordinati dai clienti. Alessandro adocchiò quattro cartoccini bianchi e due scatole.

«Stai qui un momento, tato.»

Con un salto montò sul piano e scese dall'altro lato. Dalla cucina giungeva un forte odore di olio bruciato, probabilmente intrappolato dentro al rivolo di fumo nero che saliva da una delle friggitrici. Aprì uno dei cartoccini e diede un morso al panino: era freddo, ma buono. Prese un sacchetto da uno degli scompartimenti sotto al registratore di cassa e vi infilò gli altri pacchetti e le due scatole, un Crispy Mcbacon e una confezione di crocchette di pollo. Su una mensola trovò anche alcune lattine di coca e un paio di birre. Riempì un secondo sacchetto e riscavalcò il banco.

«Andiamo.»

«Ppp... paaanino!»

Alessandro gli consegnò uno dei cartoccini e tenne per sé quello che aveva assaggiato. Mangiarono mentre camminavano, dirigendosi verso l'auto che attendeva nell'oscurità del parcheggio.


«Aspettiamo la mamma! Credo che ne mangerà volentieri uno anche lei.»

Alessandro guardò l'orologio: avevano impiegato esattamente otto minuti per andare e venire. A breve anche Silvia sarebbe spuntata dal nero ingresso che avevano davanti, preceduta dal fascio di luce della torcia.

Si appoggiò allo schienale, con la nuca contro il poggiatesta e una delle due birre in mano; era calda, ma in quel momento riuscì a trovarla comunque dissetante.

Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi, ascoltando il tenebroso silenzio che li avvolgeva, interrotto solo dal lento masticare di Antonio che aveva appena iniziato il secondo panino.

Ogni quindici secondi, che a lui parevano quindici minuti, apriva gli occhi sull'ingresso, convinto, ogni volta, di ritrovarsi accecato dalla luce della torcia puntata nei suoi occhi, mentre Silvia camminava verso di loro. Ma il buio continuava a regnare e ad Alessandro pareva quasi di sentirlo ridacchiare, sempre più forte, sempre più subdolo.

Guardo di nuovo l'orologio, sicuro fossero già passati almeno venti minuti da quando erano rientrati, ma la lancetta dei minuti aveva fatto solo un misero passo in avanti, come se l'ansia che cresceva inesorabile in lui, allungasse i suoi tentacoli e la trattenesse con la forza.

"Stai calmo, Ale. Stai calmo. Potrebbero volerci anche più di dieci minuti... È entrata, ha cercato il negozio, ha dovuto girovagare per trovare la cartina... e solo con una torcia."

Ma non riusciva a convincersi, né a calmarsi. Silvia conosceva quel posto a memoria, per le innumerevoli volte in cui ci era stata.

"Cosa vuoi che ci metta ad andare su, prendere una cazzo di carta stradale e tornare giù?"

Riguardò l'orologio e gli parve non si fosse spostato di un millimetro, ma sapeva che non era così. Cominciò quasi a credere che il tempo si fosse accordato con l'oscurità, solo per agitarlo e divertirsi alle sue spalle.

"Fossero almeno arrivati di sera quegli stronzi di ferro! Almeno le luci sarebbero rimaste accese! Dovrebbe essere già qui."

L'ansia cresceva.

"Non dovevo lasciarla andare da sola..."

Di nuovo buttò lo sguardo sull'ora. La lancetta si era spostata di un altro minuto. Antonio continuava a mangiare, tranquillo, lo sguardo fisso in avanti.

Alessandro si sistemò meglio sul sedile, svuotò la lattina con un'unica sorsata, soffocando in gola il susseguente rutto, gli occhi fissi sul nero, speranzoso di vederlo dividersi all'improvviso, tagliato dal raggio di luce gialla. Ancora sollevò il polso, poi di nuovo si rivolse sull'ingresso, sempre più teso.

In quel momento suo figlio urlò.

Ogni singolo pelo sul corpo di Alessandro si sollevò, diritto, rigido come un soldato sull'attenti, mentre la pelle s'increspava nella pelle d'oca più dura che gli fosse mai venuta. La sentì correre in ogni direzione e quando arrivò alla base della nuca si dissolse in una potente scarica elettrica che gli alzò la cute, tanto che ebbe l'impressione di perdere lo scalpo.

Si voltò di scatto col cuore che precipitava: il ragazzo aveva lasciato cadere il panino e gridava con quanto fiato aveva in gola, le mani sugli orecchi, lo sguardo angosciato. Alessandro si sporse prontamente tra i due sedili e lo afferrò.

«Antonio! Che succede?»

L'urlo si smorzò. «La mmm... maaammma!» Cominciò a piangere.

Un improvviso intontimento si gonfiò nella testa di Alessandro, premendogli contro i timpani. Era terrorizzato all'idea di chiedere, di sapere...

«Ha... ha ppp... paaaura!»

«La mamma ha paura?» Il cuore di Alessandro batteva all'impazzata. Antonio annuì.

«E di cosa ha paura? Degli uomini viola»

Il ragazzo fece no con la testa. «Ooo... ommmbre.»

«Ombre? La mamma ha paura delle ombre?»

Di nuovo Antonio assentì. «È... naaasss... scooosta.»

Alessandro gli prese il viso tra le mani. «Come fai a saperlo, tesoro? Lo dici a papà?»

Ma questa volta il ragazzo si limitò a fissarlo, dritto negli occhi.

«Devo andare a cercarla e aiutarla, allora» disse, lasciandogli il volto e mettendogli le mani sulle spalle.

Antonio annuì.

«Devi restare qui da solo. Hai paura?»

Fece no con la testa.

«Bravo il mio ometto!» Gli diede un buffetto sulla guancia. «Ti chiudo dentro. Antonio, guardami! E ascoltami bene. Non muoverti da qui finché non torniamo, capito?»

Il mento del ragazzo si abbassò due volte.

«Per nessuna ragione. Nemmeno se ti viene la pipì. La tieni e ci aspetti. Chiaro?»

«Sss... sì ppp... papà.»


Alessandro s'infilò nel buco nero che era l'ingresso, tenendo la torcia del telefono accesa davanti a lui. Aveva solo il 27% di batteria carica e sapendo quanto quella luce succhiasse energia, non aveva moltissimo tempo.

"Perché non l'ho caricato oggi, cazzo!" Maledisse sé stesso. "Con tutto il tempo che ho avuto!"

Giunse davanti alle grandi porte elettriche; i vetri erano sfondati e, quella di destra, piegava un poco in avanti, come se qualcosa di molto pesante vi si fosse schiantato contro.

Sbucò all'interno e cercò di illuminare più lontano possibile, tenendo il telefono alto sopra la testa.

"Ci sarà un cazzo d'interruttore da qualche parte" pensò, rendendosi conto di non aver mai saputo (e nemmeno gli era mai interessato!) come si accendesse la luce all'interno di un centro commerciale.

"Non sai nemmeno salire al piano di sopra e speri di trovare il quadro comandi?"

Per un momento, gli balenò in testa il pensiero che forse le luci, e in generale tutto quello che era elettrico, non avrebbero più funzionato.

"Chi starà dietro a tutto, adesso? Son tutti là sotto, o quasi!"

Ricordò il lampione davanti al McDonald's.

"Quello era acceso... Boh!"

Scrollò la testa, cercando di liberarsi di quei pensieri che gli stavano facendo venire mal di testa. Non poteva sapere, ancora, di come fossero reali, e che, da lì a poche ore, si sarebbero avverati.

"Silvia ha detto che la Feltrinelli è al primo livello."

Era stato lì solo due volte e se doveva dire di ricordarsi dove fossero le scale, avrebbe detto una balla colossale.

Alla sua destra si stendeva diritto un largo corridoio con negozi sia su un lato che sull'altro, con le porte spalancate, almeno di quelli che la sua torcia riusciva a illuminare, segno tangibile di un normalissimo pomeriggio di shopping interrotto bruscamente. In mezzo scorgeva alcuni carrelli della spesa abbandonati, altri rovesciati, con le sporte e il loro contenuto sparso tutt'intorno.

«SILVIA!» gridò, ma s'accorse subito che non era stata una buona idea. La voce si allontanò all'istante da lui, immergendosi nella coltre nera che lo circondava, la sentì vagare in lontananza, ovattata, e tornare da lui più debole, quasi strascicata, come se appesantita da un carico eccessivo di oscurità. Rabbrividì.

Naturalmente era ben conscio che il buio fosse impalpabile, etereo, di fatto solo semplice assenza di luce. Nulla di più. Ma questo sembrava diverso e lui lo percepiva in maniera differente. Se lo sentiva appiccicato addosso, ed era pesante, molto pesante, tanto da sentire le spalle appena incurvate in avanti, come se portasse un enorme zaino colmo di pietre.

"Piantala! Smettila! Sei sudato fradicio, preoccupato, ansioso... Non c'è niente, qui. Solo tua moglie, forse più suggestionata di te, spaventata e nascosta. Adesso la trovi, ve ne tornate dal vostro ragazzino e ve ne andate. Con o senza cartina!"

Ma non servì. Il discorsetto interiore risultò inutile. Aveva paura, una fifa tremenda. Forse stava provando la paura più grande della sua vita.

"E se ne esco non ne proverò mai più, perché la sto consumando tutta oggi!"

Quasi sorrise per il pensiero bislacco avuto e scegliendo a caso una delle due direzioni, solo per un momento, gli parve d'aver ritrovato un po' di coraggio. Ma fu solo un momento... Si sentiva osservato, spiato, bramato. Quasi certamente qualcosa sarebbe sbucato all'improvviso da chissà dove per prenderlo e (portarlo nella bolla?) ridurlo a brandelli.

"Basta, Ale! Hai visto troppi di quei cazzo di film horror! Sono solo stupidate!"

Quello che c'era fuori, però, non pareva tanto una stupidata.

Un rumore echeggiò nell'aria e, contrariamente alla sua voce, risultò limpido, secco, forte. Sembrava lontano, ma come poteva dirlo con certezza in quell'echeggiante oscurità? In quel mondo che non gli apparteneva? La paura si trasformò in panico.

Aumentò il passo senza sapere dove andare e cosa fare.

Chi poteva aver prodotto quel suono? Silvia? Allora perché non aveva risposto? E che rumore era? Qualcosa che cadeva? Che strisciava? Che avanzava verso di lui con la bocca aperta piena di zanne appuntite?

Quasi inciampò sul primo gradino della scala mobile e dovette afferrare forte le due balaustre per non perdere l'equilibrio. Sentì lo schiocco, secco, di vetro infranto, e un'imprecazione piuttosto blasfema salì sulle sue labbra. Riuscì a non cadere, ma lo schermo del telefono si era tutto crepato, schiacciato contro la gomma del corrimano dal peso del suo corpo, tutto compresso nelle sue braccia.

Non aveva tempo per commiserare il suo cellulare e prese a salire le scale, ringraziando che la luce della torcia continuasse comunque a funzionare.

Il rumore si ripeté, più forte e, forse, più vicino.

Si fermò a metà scala e, senza volerlo, si voltò tenendo la luce in avanti, illuminando in basso. D'istinto la sua mente cominciò a proiettargli la scena della metropolitana de "Un lupo mannaro americano a Londra" e la pelle gli si accapponò.

«Ma che cazzo fai?» disse a mezza voce ma, per qualche motivo, le gambe non si decidevano a ripartire. La luce fendeva il buio, illuminando i primi gradini della scala, vuoti. Non c'era niente laggiù, eppure Alessandro percepiva delle presenze.

I suoi piedi ripresero a salire, all'indietro, mentre, con la mano tremante, continuava a illuminare la scala sotto di lui, certo che da un momento all'altro uno di quegli assurdi guardiani delle bolle sarebbe sbucato nel cono di luce, e dopo averlo fissato per un istante, si sarebbe scagliato su di lui con ferocia inaudita. Cosa avrebbe fatto a quel punto?

Il piede destro toccò l'ultimo gradino e pestò qualcosa. Alessandro sentì uno scricchiolio sotto la suola, come se stesse camminando su una scatola di uova sode.

Abbassò il braccio e illuminò i suoi piedi.

Sentì un urlo formarsi in mezzo alle viscere e salire furiosamente verso la gola, tirandosi dietro il panino e la birra che aveva bevuto. Sotto di lui c'era una mano, tranciata di netto all'altezza del polso, con un frammento di osso spezzato che sbucava dalla carne, sopra a una larga macchia di sangue che sembrava ormai secco. In una delle dita una fede brillò alla luce del telefono.

Alessandro, ormai in cima, indietreggiò nell'atrio, continuando a illuminare il macabro resto, tenendo la mano libera sulla bocca. Forse era riuscito a rimandare giù il fiotto di vomito, ma l'urlo premeva forte sulle sue labbra per uscire.

Non appena la bocca gli si aprì, sentì due braccia afferrarlo da dietro e una mano stamparsi sulle labbra, mentre qualcosa gli sibilava nell'orecchio. Già impietrito dall'orrore, la sorpresa lo sconvolse del tutto, e il suo cervello impiegò diversi secondi a elaborare quel sibilo, finché non vi scorse la dolce e rassicurante voce di sua moglie.

«Non urlare, Ale! Non urlare. Credo ci siano due cani che scorrazzano qui intorno. Forse sono più spaventati di noi, ma sai come può reagire un animale quando ha paura?»

Alessandro si divincolò e si voltò, afferrandola per le spalle.

«Silvia! Dio mio, che spavento! Ma cosa è successo? Di chi è quella mano?»

«Non lo so. Ma non c'è tempo. Hai lasciato Antonio da solo?»

«Sta bene, non ti preoccupare. È stato lui a dirmi che eri nascosta e spaventata.»

Lei gli illuminò il viso con la torcia. «Sul serio?»

«Sì. Ma perché...»

«Shhh!» Spense la luce. «Spegni anche la tua.»

Lo prese per mano e s'infilarono dentro alla Feltrinelli, acquattandosi dietro a un espositore.

«Speriamo di non emanare troppo odore» bisbigliò.

Alessandro respirava a bocca aperta, sentendo il cuore esplodergli nel petto; gli pareva d'avere dentro un tamburo, percosso con violenza da un batterista troppo su di giri. Stringeva forte la mano di sua moglie di cui riusciva appena a distinguere i contorni nella fitta oscurità in cui erano piombati spegnendo le due torce.

Dal corridoio proveniva un lento ticchettio che si ripeteva a intervalli più o meno regolari: sembrava avvicinarsi.

Alessandro sentiva aumentare il battito cardiaco e i colpi ovattati, rimbombanti nel suo petto, parevano risuonare per tutto il centro commerciale, urlando "Siamo nascosti qui! Siamo nascosti qui!".

Silvia doveva percepire l'agitazione del marito e gli strinse più forte la mano, posando la testa sulla sua spalla. Ad Alessandro pareva tranquilla, forse con un po' d'ansia, ma sicuramente senza quel terrore che a lui si era appollaiato sulle spalle, come un avvoltoio in attesa. Provò vergogna: ancora una volta sua moglie si dimostrava più forte e più coraggiosa di lui.

Un ringhio soffocato venne dal corridoio; qualunque cosa ci fosse di terribile e pericoloso in quel centro commerciale, adesso era lì, a pochi metri da loro. Sentì come raspare, e sbuffare, poi di nuovo ringhiare, ma pareva più uno stanco lamento, forse un uggiolio. Sembrava, a tutti gli effetti, un cane, forse venuto al Gran Reno con il suo padrone, o padrona, o entrambi, portati via da uno di quei "cosi" viola; ora, spaventato e disorientato, poteva essere piuttosto pericoloso, proprio come aveva detto Silvia.

E quella mano? Qualcuno che si era rifugiato lì dentro per scappare e scampare alla cattura? Finito però nelle grinfie di un animale terrorizzato e affamato? Poteva essere. Dipendeva dal tipo di cane, era ovvio, ma immaginava non dovesse essere un barboncino o un chihuahua. Nella sua mente si materializzarono all'istante immagini di pastori tedeschi, alani, pitbull, rottweiler... Rabbrividì. Se tutto era vero, erano nei guai. Guai seri. Dovevano andarsene da lì, alla svelta.

Ma, tra pensare di alzarsi e fuggire, e farlo veramente, ci passava un intero oceano. Se si sbagliavano? Se non erano cani, ma qualcosa di molto peggiore? Forse quegli sgraditi e non invitati visitatori alieni non si limitavano a prelevare la gente e a chiuderli in una bolla...

Deglutì, ma a vuoto; ormai le sue ghiandole non erano più in grado di produrre nemmeno un'ombra di saliva.

Il cane, o qualunque cosa fosse, continuava a emettere i suoi strani versi.

Poi, d'un tratto, ci fu silenzio, un silenzio strano, come l'attesa del tuono dopo il balenare del lampo; d'improvviso riprese il ticchettio, più frenetico; e in un attimo, sparì.

«Dobbiamo muoverci» sussurrò Silvia, tirandolo per la mano.

Alessandro dovette compiere uno sforzo immane per obbligare le proprie gambe a muoversi, impietrite contro il pavimento sul quale si erano seduti. L'idea di uscire fuori aggiungeva terrore al terrore, e temeva che, una volta che la torre fosse stata troppo alta, sarebbe miseramente crollata. A quel punto sarebbe morto d'infarto? O si sarebbe solo pisciato sotto?

"Sei patetico!"

Non si considerava più un uomo, se il suo desiderio più profondo, in quel momento, era di starsene rintanato in un buco e aspettare... cosa? Che facesse mattina, e vedere con cosa avevano a che fare? E Antonio?

"Lo lasceresti giù, da solo tutta notte?"

Di sicuro il ragazzino non avrebbe avuto paura. Già!

"Anche tuo figlio è più coraggioso di te!"

Poi, mentre la mano di Silvia lo tirava con forza e lui, volente o nolente, si alzava, si ricordò che, impaurito, terrorizzato, era comunque arrivato fin lì da solo, per cercare sua moglie.

"Se vuoi lo tiri fuori il coraggio! Continua allora, cagasotto."

Uscirono fuori dalla libreria e Silvia riaccese la torcia, facendo sobbalzare Alessandro. Lei lo guardò e sorrise.

«Calmo, su! Vedrai che andrà bene. Vieni.»

Si diressero verso la scala mobile, la stessa dalla quale era salito lui cinque minuti prima.

D'istinto abbassò lo sguardo per rivedere la mano mozzata che non avrebbe voluto rivedere, sul primo gradino. Era sparita. Cinque minuti prima era lì, ora non c'era più.

Non vide che Silvia era ferma, immobile con il piede già sul secondo gradino, e le andò a sbattere contro la schiena.

«Via! VIA!» gridò lei, girandosi e quasi spingendolo di lato.

«Infilati lì.»

Nello stesso momento in cui un ringhio pauroso risuonava dal basso, Silvia illuminò per un attimo la vetrina del negozio che avevano di fronte mentre ci si tuffavano dentro, e la torcia veniva spenta.

Alessandro sentì l'affannoso slittare degli artigli sui gradini di ferro della scala, mentre correvano a nascondersi nel buio del locale. Silvia trovò la porta di un camerino, l'aprì con violenza e lo tirò dentro, richiudendo subito, bloccandola con la minuscola stanghetta di ferro sotto la maniglia. Gli mise una mano sulla bocca, segno di non emettere nemmeno il più piccolo dei fiati.

Il cane abbaiò. Era entrato, e subito un ululato echeggiò sinistro per tutto il Gran Reno. Silvia aveva ragione. I cani erano due. Ci fu un sommesso ringhiare e di nuovo un confuso abbaiare.

«Cazzo!» disse lei, sottovoce. «C'è anche l'altro.»

I due animali sembravano stessero litigando, ma d'improvviso ci fu silenzio, tranne che per l'affannoso respiro che rimbalzava a destra e a sinistra, intersecandosi. Li stavano fiutando. Li stavano cercando.

«Puzziamo di sudore e di paura...» alitò Silvia, nel bisbiglio più sottile che Alessandro avesse mai udito. «.. e loro ci sentono. Non so se la porta può reggere se ci trovano...»

"E ci troveranno!" pensò lui.

Le strinse le spalle, lei si voltò e lo abbracciò.

«Ci siamo intrappolati in uno stupido camerino, senza nemmeno qualcosa da usare come arma» aggiunse.

Proprio in quel momento, un ringhio, roco e continuo, giunse da dietro la sottile porta, seguito dal raspare affannoso degli artigli. Alessandro sentì il corpo di Silvia fremere nell'oscurità.

«Oh, mio Dio, Ale! Come ne usciamo?»

Il ringhio raddoppiò, le raspate erano intervallate da secchi colpi alla porta; era giunto anche l'altro cane e, insieme, i due animali cooperavano, per spartirsi le prede che avevano scovato.

Alessandro non sapeva cosa rispondere; gli pareva di vivere in un corpo non suo, in una dimensione parallela, soprattutto ora che era venuto meno anche il coraggio di sua moglie, l'ultimo disperato appiglio prima di lasciarsi abbandonare in maniera definitiva alla disperazione più totale.

Tastò la porta con la mano; la sentiva vibrare, scossa da quei colpi famelici che venivano inferti.

«Che ne sarà di Antonio?» continuava Silvia, con la voce sempre più flebile, mentre le dita di Alessandro scendevano, toccando il piccolo pomello che faceva da maniglia. Scese ancora fino ad arrivare a sfiorare la stanghetta di ferro, l'ultimo, impalpabile baluardo che li divideva dall'essere sbranati da due cani impazziti.

Il ferretto saltò fuori dalla sua asola e la porta si spalancò di colpo. Silvia si strinse ancora di più a lui, mentre i ringhi crebbero in un abbaiare furioso. Veloce come un lampo, agendo di puro istinto, Alessandro afferrò il pomello al buio tirando con decisione verso di loro, proprio nell'esatto momento in cui il primo dei due animali si tuffava dentro. Sentì un rumore sordo, come di una valigia piena che cadeva a terra dalla rastrelliera di un aereo, seguito da un lamento di dolore. La porta si richiuse, ma subito i ringhi ripresero, più rabbiosi di prima. Con forza i due cani tiravano, graffiavano, grugnivano e lui faticava a trattenere la porta.

«Aiutami, Silvia! Cerca di rimettere il paletto!»

La sentì muoversi; la sentì armeggiare con le mani; la sentì imprecare, forse per la prima volta da quando la conosceva.

«Non riesco! La porta trema troppo!»

Alessandro faticava a tenerla chiusa, visti i colpi che le due bestie infliggevano.

"E se anche riuscisse a rimetterlo? Probabilmente verrebbe via subito!"

«Aspetta! Forse riesco... Nooo! È scivolato ancora.»

Ormai era questione di secondi. Alessandro sentiva dolere la mano, peraltro tutta sudata. Stava per mollare la presa, dopodiché i cani sarebbero entrati e, al buio, in uno spazio angusto com'era quel camerino, per loro due non ci sarebbe stato scampo.

«Ale! Non riesco!»

I ringhi sembravano crescere sempre più d'intensità, somigliando ora più a profondi gorgoglii, come se la bramosia, la furia cieca, lo spavento, forse la fame, avessero azzerato i due animali, trasformandoli in bestie assatanate quando, fino a qualche ora prima, erano stati, senza dubbio, docili e mansueti cani di casa; ora parevano regrediti al più basso stadio della selvatichezza, più feroci che se fossero nati e cresciuti direttamente in natura, e avessero dovuto, da sempre, pensare da soli alla propria sopravvivenza.

E proprio mentre la sua mente era attraversata da questi pensieri, il pomello si staccò dalla porta, sbilanciando Alessandro all'indietro, e Silvia con lui. Nel tentativo di non perdere l'equilibrio, appoggiò la mano sulla parete di fondo, cercando di sostenere la moglie, completamente abbandonata a lui, con l'altra.

La porta si spalancò, ma nessuno dei due si era accorto che i ringhi erano cessati; l'oscurità nascondeva alla vista i due animali, fermi immobili davanti all'ingresso, con la testa girata all'indietro. Fu nel momento in cui Alessandro riuscì ad assestarsi che cominciarono i guaiti, acuti, tanto da sembrare gli strilli di un bambino spaventato.

«Che succede?» chiese Silvia, ancora aggrappata al suo uomo.

I due cani piangevano come vitelli e si stavano ora allontanando. Poi, con un ultimo e agghiacciante lamento, i loro versi si persero in lontananza, nei meandri del centro commerciale.

Silvia recuperò la torcia e l'accese, illuminando l'interno del negozio. C'era qualcuno, in piedi, davanti all'entrata.

«Ma...» riuscì solo a pronunciare.

«Tato!» proruppe Alessandro, uscendo quasi di corsa dal camerino. «Cosa...?»

«Ppp... Paaapà! Mmmm... Maaammma! Vvv... vi ho sa... saa... saalvati!»

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