32 - LA NEBBIA (1)

Circa quarant'otto ore prima che Pietro Masi si risvegliasse incatenato dentro alla FDS con un mal di testa da spavento, un robot avente la Torre degli Asinelli come corpo aveva distrutto il centro di Bologna. Tra la fine del massacro e il messaggio che Ismel aveva rivolto al mondo, usando qualsiasi dispositivo elettronico esistesse, passarono poco più di cinque minuti. In quel breve lasso di tempo, limitandoci alla sola zona felsinea, tutti sapevano cosa fosse successo. Tutti, tranne Alessandro Gallo e sua moglie Silvia.

Il loro figlioletto Antonio, ragazzino di dodici anni affetto dalla sindrome di Down, era nella villetta accanto a giocare con il figlio coetaneo dei loro vicini, come capitava spesso, e loro ne stavano approfittando.

Si erano rinchiusi nella tavernetta adibita a sala relax, al piano interrato della loro abitazione sita in una tranquilla zona residenziale di Casalecchio di Reno, non troppo lontani dal "Parco Talon". Avevano aperto il grande divano letto, avevano acceso lo stereo a palla, si erano denudati in tutta fretta e, accompagnati dalla musica dei Led Zeppelin, adorata da entrambi, si erano dati al sesso più sfrenato.

L'impegno che richiedeva la sfortunata condizione del figlio lasciava pochissimo tempo per loro due; ogni occasione che riuscivano a regalarsi era una manna dal cielo che non sprecavano mai e, quel giorno, non faceva differenza.

Forse cominciavano a diventare troppo vecchi per continuare a fare l'amore in quella maniera selvaggia, con la musica talmente alta da non sentire i loro stessi gemiti di piacere, e ogni volta si ripromettevano che era l'ultima. Ma quando poi si trovavano ad avere un paio d'"ore buche", come dicevano loro, evento che capitava di rado, il più delle volte all'improvviso e sempre grazie alla generosità dei loro vicini nonché amici più intimi, non potevano resistere. Quella musica li travolgeva, eccitandoli all'inverosimile, facendoli ritornare ogni volta indietro negli anni, quando erano capaci di farlo senza sosta anche per un'ora. Ormai non raggiungevano più certi livelli, ma erano senz'altro sopra la media di coppie della loro età. Fabri e la Cri erano gli unici a conoscere questa loro... piccola follia, e proprio per questo, quando potevano, si prendevano Antonio a casa loro per farlo stare un po' con il loro ragazzo, Matteo, che a dispetto dei suoi coetanei passava volentieri del tempo con quel ragazzino sfortunato ma affettuoso, con i tratti del viso tipici della sua sindrome, ma con lo sguardo da furbetto, accattivante, a volte irresistibile, come il sorriso che non abbandonava praticamente mai le sue labbra.

«Divertitevi!» diceva la Cri a Silvia quando, con un mezzo sorriso sulle labbra, veniva a lasciarle il ragazzino.

«Oh, piantala!» le rispondeva l'amica, rispondendo al sorriso e correndo via.

La Cri la guardava rientrare in casa, poi si sedeva sul divano accanto al marito e insieme contavano fino a cento. Potevano essere interrotti a novantasette o a novantotto, o arrivare al massimo a centotre, ma poi la musica partiva, talmente alta che riuscivano a sentirla fino a lì.

«Prima o poi qualcuno si lamenterà di questo chiasso!» aveva detto lei, una volta.

«Fin che lo fanno in orari leciti, direi di no.»

Si erano fissati e si erano messi a ridere.

Quel giorno di giugno, Fabri stava lavando l'auto in garage, la Cri stava preparando una torta, Matteo e Antonio giocavano a "Last of us" sul pc.

Tutti vennero interrotti da un fischio assordante, seguito da ripetuti boati e scosse improvvise del terreno.

Nel marasma di emozioni e inquietudini provocate da quegli eventi anomali, la Cri si era accorta che Antonio aveva smesso di sorridere, ed era la prima volta che vedeva quel visino così serio. Fu la cosa che la spaventò più di tutto.

Non capendo cosa stesse succedendo, avevano acceso la televisione, e il terrore più puro era entrato nelle loro vite con un'energica spallata.


«NON FERMARTI! NON FERMARTI!»

Silvia raggiunse l'orgasmo, il terzo di quel pomeriggio, in contemporanea al secondo di Alessandro. Godettero insieme, sudati fradici, lei supina, con i piedi appoggiati sulla spalla destra del suo uomo, inginocchiato davanti a lei con le mani sui seni, proprio mentre Robert Plant emetteva i suoi "Ooh-ooh, ooh-ooh, ooh-ooh" conclusivi, scanditi dai colpi di batteria rutilante di John Bonham.

«Quanto è bello avere un orgasmo mentre si ascolta Immigrant Song!» sentenziò Silvia ansimante, dopo aver emesso un profondo respiro e aver sorriso ad Alessandro. Lui si limitò ad annuire, rispondendo al sorriso mentre riprendeva fiato.

Era ancora dentro di lei; si chinò per baciarla e il pene, ormai moscio, sgusciò fuori. Le si sdraiò accanto spegnendo lo stereo con il telecomando che aveva sul comodino.

La musica assordante aveva coperto qualsiasi possibile suono, per cui nessuno dei due aveva udito fischi, né boati e scosse, attutite dalla terra in cui la tavernetta era incassata, e camuffate nel tremore del divano letto, provocato dalla loro performance.

Ignoravano quello che era successo non troppo lontano da loro, ma quando entrambi presero i cellulari per controllare se ci fossero chiamate o messaggi, la vita cambiò anche per loro.

Non fecero nemmeno in tempo a illuminare gli schermi che questi diventarono viola. Silvia lo lasciò cadere sul materasso con un urletto, come se si fosse scottata all'improvviso.

«Che succede?» fece in tempo a dire Alessandro, poi la voce di Ismel cominciò a rimbombare intorno a loro.


Non fosse stato per Silvia, Alessandro sarebbe corso in strada completamente nudo.

Appena l'ultima, terribile parola pronunciata da quella voce smise di echeggiare nella stanza, prima di qualsiasi domanda, prima di qualsiasi dubbio, prima di qualsiasi stupore, il pensiero era andato ad Antonio e al fatto che non fosse con loro.

Vestiti alla bell'è meglio, si catapultarono di sopra e si precipitarono fuori per andare a riprendersi il figlio. Lo trovarono già all'ingresso del loro vialetto, insieme a Fabrizio; Silvia lo abbracciò subito stretto senza fare caso all'espressione seria del suo ragazzo.

La strada, intanto, si era già riempita di gente, di terrore e di congetture.

«Ma che è Fabri? Cosa è successo a Bologna?» chiese Alessandro agitato, mentre accarezzava la testa del suo ragazzo.

«Non avete visto nulla? Non avete sentito il fischio, i boati?»

L'amico fece no con la testa.

A Fabrizio vennero in mente mille battute sul perché non si fossero accorti di niente, ma non era certo il momento adatto per scherzare. Raccontò quello che avevano sentito e visto alla tv, usando meno parole possibili. Ad Alessandro girava la testa, mentre Silvia continuava a ripetere "Oh, mio Dio!»

«Ppp... Papà... Do... Dobbiamo nnn... nas...»

«Aspetta, tesoro. Per favore.»

Gli accarezzò la guancia. «Dicevi, Fabri?»

«Credo sia meglio allontanarci da qui finché non capiamo che cazzo sta succedendo. Potremmo andare su a Gaggio dai miei. C'è posto per tutti.»

Alessandro e Silvia si guardarono; lei annuì. «Va bene! Anche i vostri telefoni non vanno più?»

«Già. Ho paura che non funzioni più nulla.»

«Paaa... Papà...»

«Scusa, Antonio. Ancora un momento, tato.»

Fabrizio diede un'occhiata al ragazzino.

«Dai...» disse poi, «tra dieci minuti qui fuori con le macchine? Ce la fate?»

«Sì. Buttiamo due robe in valigia e ci siamo» disse Silvia.

«Ok, a dopo.»

Fabrizio era già in fondo al vialetto. Si fermò un secondo, girandosi con il dito sollevato, come se gli fosse venuto in mente qualcos'altro da dire, all'improvviso. Ma la famiglia Gallo era già rientrata in casa. Alzò le spalle e corse verso casa, sparendo per sempre dalla loro vita.


«Tu prendi un po' di roba per noi. Io penso al bagno e a quella di Antonio.»

Alessandro era agitato, molto agitato. Nel giro di soli dieci minuti era passato dall'estasi dell'orgasmo al terrore più puro e, pur ignorando se su in montagna, nella casa dei genitori di Fabri, sarebbero stati veramente al sicuro, non vedeva l'ora di arrivarci.

«Ppp... paaa...»

«Preparati lo zaino tato.»

Non l'aveva quasi sentito, mentre metteva in una bustina spazzolini, dentifricio, deodoranti, raccattati dal bagno che avevano al piano terra.

«Prenditi i tuoi libri, i colori, il tablet... Se vuoi anche qualche macchinina.»

«Dooo... Dobbiii... Papà...»

«Anche il carica-batterie!» disse Silvia, mentre saliva le scale.

«Adesss... Paaa...»

Antonio era tutto rosso in faccia per lo sforzo di farsi ascoltare, ma nessuno sembrava notarlo.

Alessandro rientrò in sala e lo prese per mano. «Vieni! Andiamo su in camera.»

Antonio puntò i piedi. «Llll... scccc... sta... stannn...»

Sembrava regredito di dieci anni, ma ancora suo padre non riusciva ad accorgersene, preso dalla frenesia della partenza improvvisa e dalla paura per un qualcosa che non sapeva cosa fosse. Silvia aveva già messo sul letto un grosso borsone e lo stava riempiendo a casaccio di indumenti intimi e no. Nessuno dei due prestava attenzione al proprio figlio; nessuno dei due ascoltava il vocio sempre più forte della strada, né stava osservando quello che avveniva nel cielo.

«Antonio! Non adesso tato! Dobbiamo andare dai nonni di Teo. Dai, fai il bravo!»

«Arrr... Arriva... Nnnn...»

Opponeva una forte resistenza, indicando col dito fuori dalla porta. Era sempre più rosso in faccia e un accenno di lacrime era comparso alla base degli occhi.

Alessandro lo tirava con decisione verso le scale. «Per favore! Dobbiamo prepar...»

«Nascon... Dobbb... Gua... Gua...»

«Antonio! Insomma!»

Fu allora che il ragazzino ebbe la crisi.

«AAAHHH! ARR... ARRIVANO! DOBBB... DOBBIAAAMO... NAAA... NASCOOO...»

Alessandro gli mollò la mano terrorizzato. Antonio cominciò a picchiarsi la testa, pestando i piedi, girando intorno e continuando a indicare la porta aperta che dava sul vialetto. Erano anni ormai che non andava così in escandescenze e Alessandro si era convinto avesse ormai superato quella fase.

Era ovvio che si sbagliava.

«Cosa succede?»

Silvia comparve in cima alle scale con una gonna in mano, bianca in volto.

«Antonio, che succede?» Scese i gradini di corsa.

«NAAASCON... NAAASCONDEEERE!»

Le urla aumentavano di volume.

«Cosa è successo?» chiese la donna al marito.

Alessandro si era ripreso dallo shock improvviso e si era avvicinato al figlio, cercando di bloccarlo.

«Calma, tato. Calma.»

Antonio ora singhiozzava. «ARRIII... ARRIVANO UOOO... UOMINI!»

Continuava frenetico a indicare fuori, mentre girava intorno come una trottola impazzita.

Alessandro riuscì ad abbracciarlo, mentre Silvia tentava di tranquillizzarlo con delle carezze.

«Tesoro mio... È caldo! Ha la febbre?»

«Non adesso, cazzo! Chi sta arrivando, tato?»

Alessandro aveva cominciato ad ascoltare quello che diceva e a notare la mano che indicava fuori.

Antonio si fermò di colpo e piantò gli occhi dritti in quelli del padre. Non era più abituato ormai a vedere la faccia del figlio così seria, e altra paura si aggiunse a quella che già ristagnava in lui.

«Dooo... Dobbiamo naaa... naaascondeee...»

E ancora invitava i genitori a guardare fuori. Silvia fu la prima ad affacciarsi all'ingresso.

«Oh, cazzo! Ale!»

Si voltò con la mano sulla bocca e gli occhi sgranati. Antonio si era calmato, così Alessandro la raggiunse. Sentì mancargli il fiato e gelarsi il sangue nelle vene. Il cielo era arancione, completamente solcato da scie vicine e lontane, lasciate da...

«PA!»

Si voltarono entrambi di scatto. Antonio era sulla soglia della scala che scendeva in tavernetta e li guardava serio, indicando in giù con il dito.

Questa volta non se lo fecero ripetere. Corsero da lui e scesero di sotto, chiudendosi la porta alle spalle.


Il momento peggiore fu quando l'entrata in cima alla rampa venne scardinata con un colpo secco e volò di sotto facendo un fracasso tremendo. Sinistri rumori metallici suggerivano che qualcosa l'aveva seguita e ora si trovava nella stanza, insieme a loro.

«Dio mio, ma cos'è?» bisbigliò Silvia.

Alessandro le fece segno di tacere, accostando l'indice alle labbra, mentre stringeva tra le braccia un apparente tranquillo Antonio.

Erano rintanati nella "buffa", una nicchia piuttosto larga scavata nel muro dietro al divano, dove Silvia conservava le scarpe fuori stagione; era chiusa da uno sportello bianco che la rendeva praticamente invisibile. L'aveva chiamata così uno dei muratori, un giorno durante la costruzione della casa; sia a lui che a Silvia aveva fatto così ridere quel nome, che avevano continuato a usarlo.

Una sottile striscia di luce riusciva a penetrare da un'angusta fenditura, tagliando a metà l'oscurità del buco e illuminando i loro volti come le facce di attori su un palcoscenico buio.

Sentirono la "cosa" esplorare la stanza per un minuto circa; passò davanti al loro nascondiglio, interrompendo il fascio di luce per una frazione di secondo. Poi rifece il giro e quando ritornò davanti alla "buffa" s'arrestò, lasciandoli ciechi per qualche secondo. Il cuore di Alessandro batteva forte e Silvia, accanto a lui, piangeva in silenzio. Poi si mosse, la lama di luce tornò a brillare e i rumori metallici si spensero. Attesero nel caldo soffocante, quasi senza respirare.

«Poo... possiaaamo uuu... scire.»

La voce di Antonio li fece trasalire entrambi. Il ragazzino aveva riacquistato il suo solito sguardo da furbo, abbellito da quel sorriso che contagiava simpatia.

«Sei sicuro tesoro?» chiese la madre. «Potrebbe tornare...»

«Nnno. È annndaaato viii... via.»

Di colpo ad Alessandro tornò in mente la telefonata ricevuta il mese prima, la telefonata di una donna che diceva essere la nipote di Franco de Simone, il fondatore dell'FDS; una telefonata che l'aveva reso inquieto. Subito aveva pensato a uno scherzo, (l'FDS... de Simone... era come ricevere una chiamata dalla famiglia Agnelli! Insomma, piuttosto improbabile!), ma poi, appena riattaccato, Antonio gli aveva chiesto se Franco lo volesse vedere. Era rimasto impietrito, come se avesse avuto i piedi inchiodati al pavimento, confuso e stordito. Come caspita faceva suo figlio a conoscere quel nome? Come faceva a sapere che era stato pronunciato in quella strana telefonata?

«L'avrai accennato, parlando con la donna» gli aveva detto Silvia alla sera, dopo che le aveva raccontato l'accaduto.

«No! Sono sicuro.»

Lei aveva riso. «Dai! Non ti ricordi quel che hai fatto cinque minuti fa. Eri sorpreso dalla telefonata, magari un po' spaventato. Sicuramente hai ripetuto il nome a voce alta e Antonio l'ha sentito.»

Alessandro sapeva come, a volte, fosse inutile discutere con il suo amore, e aveva lasciato perdere. Ma lui era sicuro di quello che aveva o non aveva detto.

Il giorno dopo, all'insaputa della moglie, aveva richiamato la donna, e lei gli aveva annunciato una sua prossima visita insieme al fidanzato. Ma nessuno si era mai presentato. E il passare dei giorni, l'impegnativa e faticosa quotidianità a cui era sottoposto, il timore che gli germogliava per ogni cosa si discostasse dalla sua normalità, avevano calato un velo su quel fatto. Fino a quel momento.

Ancora una volta suo figlio dimostrava di "sapere" le cose. "Sapeva" cosa stava per arrivare dal cielo e ora "sapeva" che non c'era più nessun pericolo in vista. Così come aveva "saputo" che quella telefonata riguardava un certo Franco e che costui voleva parlare con suo padre. E nessuno toglieva dalla testa di Alessandro che tutto era collegato alla miracolosa guarigione di cui aveva beneficiato, più di vent'anni prima. Non era proprio di questo che voleva parlargli de Simone? Stando almeno a quello che aveva detto la donna. Se avesse avuto a portata di mano un foglietto di carta e una penna e avesse schematizzato i suoi attuali pensieri, il disegno sarebbe stato estremamente chiaro.

"GUARIGIONE - TELEFONATA - DE SIMONE - ATTACCO ALIENO", tutti collegati da una riga fino a formare un cerchio perfetto. E al centro, Antonio!

Non aveva prove, di fatto nessun'informazione concreta, ma solo supposizioni, sensazioni, teorie. Ma era così. Cazzo, se era così!

«Usciamo...» disse.

Silvia gli posò una mano sul braccio.

«Fidati di lui.»

Scompigliò i capelli del suo ragazzo che ridacchiò.

La porta divelta giaceva ai piedi della scala. Alessandro l'aggirò e mise il piede sul primo gradino.

«PA!»

Si voltò. Antonio scuoteva la testa.

«Reee... ressstiamo. Annn... diaaaamo sss... staseeeera.»

«Che significa, Ale?»

Silvia lo fissava e sul suo volto erano dipinti terrore e stordimento, mescolati insieme in un'unica maschera che la facevano sembrare più vecchia.

«Come fa a sapere queste cose?»

Alessandro si lasciò cadere sul divano letto; si massaggiò gli occhi con i palmi, poi si mise a fissare il soffitto, tenendosi le tempie.

«Non lo so. Giuro che non lo so. Ma credo centri qualcosa la mia guarigione.»

Salì anche lei sul materasso; il lenzuolo era tutto stropicciato e ancora umido del sudore che avevano versato in quella che sembrava ormai un'altra vita. Gli prese il mento con la mano e girò la faccia verso di lei.

«Cosa dici?»

Lui scostò la mano e si mise a sedere.

«Te lo ripeto. Non lo so, Silvia. Ma lui... Sapeva del cielo, sapeva che stava arrivando... qualcosa. Se non era per lui, quella cosa ci avrebbe preso. Non lo puoi negare, questo! E sapeva di quel Franco, sapeva che voleva parlarmi, quando mi ha telefonato quella donna. L'ho richiamata il giorno dopo... Non ti arrabbiare, ti prego.»

Silvia stava per aprire bocca, ma lui l'anticipò.

«Ero inquieto. Dovevo farlo. Mi aveva detto che sarebbe venuta qui, insieme al suo uomo. Ma non è mai venuto nessuno.»

Guardava il figlio che si era seduto al tavolino; aveva preso alcuni fogli e i colori dal cassetto, e si era messo a disegnare, sereno come se non fosse successo nulla.

Silvia gattonò a fianco del marito. «Perché non me l'hai detto? Pensavo avessimo chiarito quella storia...»

«Tu l'hai chiarita, forse!»

Lei si ritrasse un attimo. Aveva l'impressione che suo marito stesse perdendo il controllo.

«Quell'uomo voleva parlarmi della guarigione e Antonio lo sapeva... lo sa! Non chiedermi il perché, ma mi pare evidente che sia tutto collegato... Quella telefonata, l'invasione di questi cosi, la mia guarigione, lui...»

Non riusciva a togliere gli occhi di dosso da Antonio che continuava a scrivere e colorare, mugolando una canzone o chissà cosa la sua testa gli suggeriva in quel momento.

Non era certo la prima volta che il loro ragazzo si estraniava da tutto e da tutti all'improvviso, come stava facendo ora. Non avevano mai saputo se fosse una caratteristica tipica della sua condizione o fosse solo un aspetto della sua personalità, tant'è che avevano smesso di farci caso, soprattutto perché avevano sempre notato di come, quelli, fossero i momenti in cui Antonio riusciva a tirare fuori il massimo della serenità e della tranquillità che disponeva, sia che colorasse o che giocasse con le sue macchinine o con le sue costruzioni. Silvia a volte si perdeva a fissarlo, incantata di come, quasi per magia, quell'estraneità, probabilmente non volontaria, di cui lui si rivestiva, rallentasse gli effetti della sua sindrome, distendendogli il viso in un modo tale da far quasi scomparire i tratti caratteristici della sua condizione. Più di una volta si era chiesta se fosse veramente così, o se fosse solo quello che gli occhi di una mamma innamorata e addolorata allo stesso tempo, i suoi occhi, volevano che lei vedesse. Allora provava a chiuderli, come per azzerare tutto l'incanto in cui credeva di sprofondare, ma quando li riapriva Antonio, suo figlio, un ragazzino uguale a tutti gli altri ragazzi, era ancora lì davanti a lei.

Silvia fissava suo marito che fissava loro figlio, confusa, cercando di dare un senso a quello che aveva appena detto e a quello che stava accadendo intorno a loro; poi anche il suo sguardo si rivolse ad Antonio e vide, più chiaramente di qualsiasi altra volta, il suo viso come sarebbe stato se non avesse avuto quella maledetta coppia di cromosomi 21 in più.

Fu solo un attimo! Un fulmine che attraversò la sua mente; una folata di vento più forte; un grido improvviso in mezzo alla folla, capace di superare il brusio incessante che provocavano in quel momento i suoi pensieri. Vide il nesso anche lei, la connessione di tutto con suo figlio ma, al contrario di Alessandro, a lei fu tutto chiaro; solo per un infinitesimale frazione di secondo fu tutto limpido, cristallino, quasi ovvio.

Cercò di afferrare quell'improvvisa e impercettibile illuminazione, ma fu troppo breve e lei troppo lenta. Si sentì come chi cerca di fotografare un cervo maestoso comparso di colpo in lontananza, senza riuscirci, restando solo con il piacevole stupore della visione. La sua mente si richiuse portandole via tutto, tranne l'inspiegabile consapevolezza, la stessa, forse, che aveva suo marito.

«Ehi! Ci sei?»

Alessandro le stava sventolando le mani davanti agli occhi imbambolati.

«Scusa?»

«Dicevo che dovremmo andare a cercare questo Franco de Simone.»

Silvia non poté che annuire.

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