31 - IL FIGLIO DEL DIAVOLO (1)

«SVEGLIA! SVEGLIA! DAI, PI!»

Pietro aprì gli occhi, infastidito dalla vocina stridula della bimbetta che saltellava intorno al suo letto come una molla impazzita. Gli aveva già detto più di una volta di non chiamarlo Pi e che quel nomignolo lo mandava in bestia ma, evidentemente, non voleva capire! D'altronde, la sua sorellina aveva solo sette anni. Cosa si poteva pretendere da un piccolo rigurgito di carne, che saltava, correva e urlava per tutto il giorno?

«Sabrina, non urlare!»

«DAI! DAI! PAPA' È GIA' PRONTO!» lo ignorò.

E come era entrata in camera correndo, di corsa ne uscì, continuando a gridare, eccitata. Era già arrivata di sotto, in cucina, ma ancora la vocina acuta s'insinuava in ogni angolo della casa, soprattutto nelle sue orecchie intontite dal sonno, quindi più vulnerabili.

Suo padre e sua madre ridevano contenti quando lei aveva quelle esplosioni di follia, come le chiamava Pietro, e pareva quasi la spronassero a comportarsi in quel modo becero.

Lui non poteva sopportarla! Lo infastidiva anche solo guardarla, e non solo quando gridava e saltava. No! Non sopportava vederla mangiare e lasciare sempre metà della roba nel piatto; non sopportava vederla disegnare e assumere quell'espressione pseudo-impegnata, con mezza lingua che pendeva dalle labbra; non la sopportava quando, tutta soddisfatta, mostrava i suoi patetici scarabocchi alla mamma, che la lodava e li attaccava al frigorifero. Dio, che nervoso gli veniva! Per non parlare dei continui capricci, delle lagne, tutto sempre condito da urli e schiamazzi. E l'aveva sempre vinta! La voglia di rifilarle un paio di ceffoni era pressoché costante, ma l'unica volta che non era riuscito a controllarsi e frenarsi in tempo, l'aveva pagata molto cara.

Perché funzionava così, in casa Masi: a Sabrina veniva perdonato tutto, a Pietro nulla!


Era successo il Natale precedente, la mattina, all'apertura dei regali.

Lei aveva ricevuto due bambole e un'enorme scatola di colori assortiti ma, guarda il caso strano, era rimasta più affascinata dal grande "Megaloman" che aveva avuto lui, giocattolo che desiderava da tempo; per ottenerlo aveva dovuto rinunciare a ricevere regali all'ultimo compleanno e al Natale dell'anno prima, oltre che sopportare i commenti della madre, fatti a bassa voce al marito, ma sempre in maniera che venissero uditi dal figlio, su come non si meritasse nulla e su quanto la indisponesse spendere dei soldi per lui. In modo assolutamente inaspettato, però, era riuscito a convincere il padre, promettendo di comportarsi bene, anche se, nel suo caso, era più giusto dire "meglio".

«CHE BELLO! CHE BELLO! CI GIOCHIAMO PI? CI GIOCHIAMO?»

La bambinetta aveva cominciato a saltellargli intorno, come al solito urlando e strepitando.

Non poteva crederci! Era avvampato di rabbia all'istante, rabbia vera, pulsante, repressa; a stento, si era controllato.

«No! Voglio giocarci da solo. Te hai le tue bambole...»

«Pietro! Giocate insieme! Hai undici anni, Cristo! Sei grande ormai, e lei è più piccola!»

La voce di suo padre era parsa un avvertimento più che un rimprovero da "normale genitore", cosa, in effetti, che il signor Tommaso, rispettato e stimato notaio, con lui non era mai stato.

Quelle parole, sotto, sotto, significavano: "Occhio, ragazzo! Fai come vogliamo, altrimenti per te saranno solo dolori!"

L'esternazione non l'aveva lasciato minimamente sorpreso.

Chissà perché lui era grande quando pareva a loro, e Sabrina doveva sempre essere protetta e coccolata, come fosse una santa reliquia. Quella volta, però, aveva provato a non cedere.

«No! È il mio regalo e voglio giocarci da solo!»

La bimba, nelle sue consuete esibizioni da attricetta consumata, consapevole che avrebbe comunque ottenuto ciò che voleva, aveva cominciato a strepitare, in lacrime, sbattendo i piedini per terra.

«VOGLIO GIOCARE COL ROBOT! VOGLIO GIOCARE COL ROBOT!» e aveva afferrato il giocattolo per i capelli, lunghi e bianchi, proprio mentre Pietro lo tirava verso di sé.

Inevitabilmente, la lunga chioma, la caratteristica migliore di quel personaggio, si era strappata dalla testa ed era rimasta penzolante nella manina, sudata e rossa per lo sforzo, di quella stronzetta. Lo strappo improvviso l'aveva fatta sbilanciare all'indietro ma, solo per caso, Sabrina era riuscita a non cadere, afferrata al volo dalla madre.

Le lacrime erano arrivate agli occhi di Pietro nello stesso, preciso momento della rabbia, esplosa in lui come una bomba a mano. Quella scimmia urlatrice aveva rotto il suo giocattolo nuovo, prima che solo pensasse di poterci giocare, solo per uno stupido, stupidissimo capriccio! E non era nemmeno caduta! Nemmeno quella soddisfazione aveva voluto dargli.

Quella volta non era riuscito a trattenersi! I suoi occhi neri si erano inscuriti ancor di più, per quanto possibile; la sua mano si era mossa senza che lui le comandasse di farlo, governata solo da un'irrazionale e istintiva voglia di vendetta che covava da molto tempo, come un cagnaccio lasciato a marcire in una piccola gabbia dimenticata, sfamato da sparuti pezzi di carne avariata, gettati sporadicamente e a casaccio, e che si ritrova, all'improvviso, la porta spalancata proprio mentre il carceriere passa di lì.

L'aveva colpita col palmo, bene, come meglio non potesse sperare, e il ciocco che aveva prodotto la mano sulla guancia, era risuonato nelle sue orecchie meglio di una sinfonia d Mozart! Doveva averle preso anche il nasino, perché un rivolo di sangue era sprizzato nell'aria, andando ad appiccicarsi sul muro bianco.

Tutto era rimasto sospeso per un paio di secondi, come se qualcuno avesse congelato la scena.

Sabrina aveva silenziato la sirena, colpita più dallo stupore che dallo schiaffo, in attesa giungesse il dolore che avrebbe esternato con tutta la forza contenuta nella sua piccola e irritante gola; sua madre teneva ancora le spalle della piccina, e pareva non aver compreso ancora a pieno quello che era successo; suo padre invece, seduto sul divano accanto a lui, aveva compreso subito tutto, e Pietro aveva fatto in tempo a vedere la sua espressione mutare, quasi al rallentatore, da appena spaventata a enormemente infuriata. La risata che era uscita dalla sua bocca senza volerlo aveva solo peggiorato la sua situazione.

La prima sberla gli aveva smorzato il riso; la seconda, quasi contemporanea, aveva rafforzato le lacrime già presenti alla base degli occhi, che si mischiarono al sangue che prese a colare dal naso; il terzo schiaffo, vista la pesantezza della mano di suo padre, gli aveva fatto, per un momento, girare la testa.

«CRETINO, DEFICIENTE! LE POTEVI FARE MALE, IDIOTA DI UN RITARDATO!» aveva urlato il signor Masi, colpendolo una quarta volta, questa volta sull'orecchio sinistro.

Pietro, al culmine della disperazione, aveva tentato di alzarsi e uscire dal raggio d'azione del genitore, ma un quinto schiaffo l'aveva preso sul mento, facendolo crollare sul pavimento.

«IN COLLEGIO TI DOBBIAMO MANDARE! STRONZO IMBECILLE!»

Questa volta era la madre che gli stava urlando contro, mentre gli strilli di Sabrina coprivano tutto, cacciati fuori con tutta la potenza possibile. Non era la prima volta che veniva picchiato da suo padre e insultato da sua madre e, ogni volta, il dolore maggiore lo procuravano le parole che uscivano dalle labbra di lei. Per qualche assurdo motivo uno "stronzo" detto da sua madre, faceva molto più male di una sberla data da suo padre.

Fu afferrato per i capelli e trascinato letteralmente verso le scale.

«IN PIEDI!» gli aveva urlato Tommaso, giunti alla base del primo gradino.

Pietro si era alzato singhiozzando, ma senza dire una singola parola. Ricevendo altre due sberle sulla testa e tenuto stretto al braccio tanto forte, che la sera un penoso livido violaceo gli faceva da bracciale, con un poderoso calcio nel sedere era ruzzolato nella sua camera. Suo padre l'aveva di nuovo afferrato e gli aveva piantato la faccia a due centimetri.

«Se t'azzardi a colpirla di nuovo, te ne do tante da farti svenire! Ti è chiara la cosa?»

Pietro aveva stancamente annuito, guardando in basso.

Un ennesimo schiaffo l'aveva colpito.

«Ti ho chiesto se ti è chiara la cosa, piccola testa di cazzo!»

«Sissignore!» aveva bisbigliato, guardando poi suo padre andarsene e chiudere la porta a chiave.

Aveva passato l'intero Natale da solo, senza cibo, senza acqua e senza il suo giocattolo.

Li aveva sentiti, quella sera, salire e sussurrare parole dolci a quella cagnetta di sua sorella, mentre la mettevano a letto. Da lui, nessuno era venuto. Solo verso mezzogiorno di Santo Stefano, qualcuno aveva aperto la porta, senza mostrarsi. Pietro era uscito, affamato e assetato come non mai, con la vescica che scoppiava, timoroso di ricevere altre percosse, ma l'unica cosa che aveva visto era stata la schiena di sua madre che scendeva le scale, senza nessuno sguardo, nessun perdono, nessun abbraccio. Solo un «A tavola!», pronunciato freddamente.

Durante il pranzo nessuno l'aveva degnato di uno sguardo, nemmeno la sorella che, senza dubbio, era stata ammaestrata a dovere. Non ricevette il dolce e fu obbligato a sparecchiare e lavare i piatti. E, aprendo il bidone della spazzatura, aveva fatto la più tremenda delle scoperte: il suo "Megaloman" era lì, ridotto a pezzi, sommerso da bucce d'arancia, croste di formaggio e tutti gli avanzi del pranzo e della cena di Natale che lui aveva saltato.

Fu quello il momento in cui aveva deciso che avrebbero pagato!

Non per le sberle, non per gli insulti, né per la privazione di cibo e acqua, e nemmeno per le evidenti preferenze che venivano riservate a quella stronza di sorella che si ritrovava.

No! Avevano rotto e gettato via il suo giocattolo, il robot che desiderava da mesi e che si era meritato! E solo a causa dei capricci di quella puttanella.

"Pagheranno tutti! Lo giuro!"


Il ricordo del più brutto Natale della sua vita aveva insegnato tante cose a Pietro; sopportare, tacere, far sempre buon viso a tutti i cattivi giochi di merda che vedeva coi suoi occhi e sentiva con le sue orecchie, ogni singolo giorno. E aspettare! Aspettare il momento giusto.

Negli ultimi cinque mesi e mezzo aveva rigato dritto, dipingendosi sul volto la più falsa delle facce di cui disponesse.

Suo padre e sua madre, dopo l'episodio dello schiaffo, lo tennero segregato in casa per tutto il periodo delle vacanze, senza televisione, senza fargli vedere nemmeno uno dei suoi amici, senza mai uno sguardo o una parola che potesse suggerire un'amnistia vicina. La sorellina invece sembrava essersi già dimenticata dell'accaduto e lo cercava spesso; nonostante il desiderio di spaccarle quella sua piccola testolina fosse, a volte, irresistibile, aveva sempre abbozzato falsi sorrisi, ritenendo saggio accontentarla in tutto e per tutto.

Solo la domenica sera precedente al rientro a scuola, dopo che Sabrina era andata a letto, i suoi genitori l'avevano chiamato e fatto sedere in salotto.

«Vogliamo essere sicuri che tu abbia capito la gravità delle tue azioni...» aveva esordito suo padre. «Potevi fare molto male a tua sorella. In questa casa le mani non si alzano! Se la punizione è stata dura, è perché devi capire a fondo dove hai sbagliato.»

Pietro l'aveva fissato per un secondo, quasi incredulo.

"In questa casa le mani non si alzano" aveva detto? Aveva capito bene?

Era evidente che per lui (e per sua madre, che annuiva a fianco, con quello sguardo da stronza che aveva sempre avuto), schiaffi, calci, pugni, non erano tali solo quando venivano rifilati al primogenito della famiglia!

Ricordava ancora molto bene come gli era caduto il primo dentino da latte! Aveva solo osato dire che non voleva mangiare le verze, sbattute nel suo piatto come sbobba per un carcerato, dopo averle assaggiate e dopo aver scoperto che avevano un sapore orribile.

Il ceffone che suo padre gli aveva rifilato gli aveva fatto saltare il primo premolare che stava timidamente cominciando a dondolare. Aveva cominciato a piangere e sua madre, alzandosi di scatto e prendendolo per i capelli, gli aveva ringhiato in faccia: «Finisci questa cazzo di verdura, signorino, altrimenti te ne arriva uno anche da me!»

Aveva quattro anni.

Quella sera d'inizio gennaio, dopo anni di soprusi, ingiustizie, angherie, aveva capito finalmente come doveva comportarsi e cosa doveva fare per uscire del tutto dalle loro grinfie.

Suo padre gli aveva detto che aveva sbagliato? Era vero! Ora era tutto chiaro. Aveva sempre sbagliato. Aveva sempre cercato di ribellarsi in qualche maniera, ma non era la via giusta. Più protestava, più loro infierivano. No! Doveva essere paziente, tessere la sua tela nel modo più adatto e, al momento giusto... il ragno avrebbe colpito.

Aveva sorriso a suo padre, cercando di nascondere la malignità che sentiva montare dentro, facendo emergere invece qualcosa che somigliasse alla compiacenza.

«Sì, papà. Ho capito perfettamente. Vi chiedo scusa.»

Una sensazione di nausea si era affacciata nel suo stomaco, ma l'aveva repressa all'istante.

Tommaso l'aveva guardato e aveva annuito: era il massimo dell'affetto che era in grado di regalare al figlio. Anche sua madre lo fissava, come si fissa uno scarafaggio sorpreso sul cuscino del proprio letto. Ma, come sempre, aveva taciuto.


Pietro entrò in cucina e gli occhi caddero subito sul piatto vuoto che c'era sul tavolo; le briciole rimastevi suggerivano la presenza di brioche (sua madre andava dal fornaio tutte le mattine, piuttosto presto) ma, ovviamente, la sua non c'era. Non aveva dubbi che ne fossero state comprate quattro, una per ogni componente della famiglia; ma senz'altro alla piccola carognetta di nome Sabrina, una volta mangiata la sua e lamentatasi di volerne un'altra, era stato concesso di mangiare quella del fratello. Fa niente, fa niente! Pietro nascose il velato sorriso dietro al volto anonimo che aveva ormai imparato a indossare, mentre posava il suo piccolo zaino a terra e si sedeva davanti alla tazza di tè e agli anonimi biscotti secchi preparati per lui.

"Da domani nessuno mi romperà più le balle!"

Inghiottendo il primo sentì la gioia sfrigolare in lui, come olio in una padella, pronta per friggere.

«Cos'hai da ridere?»

Alzò gli occhi, e si ritrovò quelli di sua madre piantati nei suoi.

Di nuovo la sensazione che lo guardasse come fosse una cimice pronta a spruzzare, lo ricoprì dalla testa ai piedi.

«Oh... niente! Sono contento che sia finita la scuola, tutto qua!»

Aveva abbozzato la prima cagata che gli era venuta in mente.

«E sono felice di andare nel bosco con papà e la Sabri...» aggiunse.

Sua madre aveva continuato a fissarlo per qualche secondo.

«Cos'hai lì dentro?» chiese, indicando lo zaino.

Lo stava controllando perché non si fidava di lui, non si era mai fidata di lui. Sua madre lo detestava e una volta glielo aveva anche detto, molto serenamente, come una qualsiasi mamma, direbbe a suo figlio che gli vuole bene.

«Lo sai, vero, che mi stai sul cazzo? Mi sei stato sul cazzo dal primo momento che ti ho visto, appena ti hanno sfilato fuori da me, stronzetto! Non piangevi e mi guardavi con quegli occhietti di merda che ti ritrovi!»

Aveva sei anni quando Pietro sentì queste parole uscire dalla bocca della sua mamma, e un discorso del genere, fatto a quell'età, non si scorda più.

«Beh... c'è la borraccia, la mantella se viene a piovere e i guanti se fa freddo» rispose, ricambiando lo sguardo. "E un bel martellone, bello grosso. L'unica cosa che mi serve sul serio per questa cazzo di gita, stronza!"

Sorrise al pensiero, ma sua madre rimase seria.

«Allora, siamo pronti?»

La voce baritonale di Tommaso riempì all'improvviso il silenzio della stanza che si era venuto a creare, mentre entrava.

«Stai ancora mangiando, tu? Muoviti! Tra cinque minuti si parte.»

«ANDIAMO NEL BOSCO! ANDIAMO ALLA CASCATA!»

La sorellina era emersa dietro il padre e saltellava intorno al fratello, urlando come suo solito.

Pietro strinse gli occhi per il fastidio e mandò giù il pezzetto del secondo biscotto che aveva in bocca, sentendo che non ne avrebbe mangiati altri. Suo padre sembrava abbastanza di buonumore (l'incitamento a sbrigarsi era stato piuttosto tranquillo, cosa che, altrimenti, si sarebbe risolta per lo meno con la tazza infranta a terra!), e non voleva essere lui la causa di un probabile peggioramento della situazione, se l'avesse fatto aspettare più del dovuto. Aveva bisogno di tenerselo buono, quel giorno! In più, la cagnara improvvisa che Sabrina aveva spinto nelle sue orecchie, gli aveva chiuso lo stomaco.

Si pulì la bocca con una sorsata di the.

«Sono pronto!» disse, alzandosi sorridente.

Sua madre abbracciò con amore la figlia e diede un bacio al marito.

«State attenti!» gli disse. «E tu, comportati bene!»

Come al solito, per lui, non c'erano baci, abbracci o parole dolci, ma solo ammonimenti sgarbati o insulti, quando non veniva picchiato.

Sorrise, annuendo con la testa, mentre il più dolce dei pensieri continuava a galleggiare nella sua testa, come un gabbiano che si lascia guidare dal vento d'estate.

"È l'ultima volta che li vedi, stronza bastarda!"


Dalla casa dei Masi fino all'inizio del sentiero che avevano deciso di percorrere c'era un'ora di macchina. Il viaggio fu abbastanza tranquillo, se si escludono i ripetuti urletti di gioia di Sabrina e le continue domande su ogni cosa i suoi piccoli occhietti curiosi si posassero.

Giunti a destinazione, le orecchie di Pietro rimbombavano, da quanto quell'insulsa vocina gli era penetrata nei timpani, e l'impulso di attuare subito il suo piano era talmente forte che dovette quasi mordersi la lingua per riuscire a frenarsi.

"Stai calmo Pietro, stai calmo!" si disse. "Manca poco, ormai!"

Scesero dall'auto e Sabrina cominciò a correre come una pazza nello spiazzo in cui si erano fermati.

«Vieni qui, signorina, prima di prendere un raffreddore!» l'ammonì Tommaso, sorridendo bonariamente.

Nonostante fossero già ai primi di giugno, l'aria di montagna, soprattutto alla mattina presto, era ancora piuttosto fredda. Le infilò un k-way rosso, allacciandolo fino al collo, facendo lo stesso per sé stesso. Pietro invece, indossava una felpa in pile che gli stava piuttosto stretta; gliel'avevano comprata più di un anno prima, e da allora era esploso, sia in altezza che muscolarmente ma, com'era ovvio, doveva farsela andare bene.

Ogni giorno che passava assomigliava sempre di più a suo padre nell'aspetto e nel fisico; ma come il genitore si stava imbolsendo in fretta, a causa dell'età, lui era magro, slanciato, atletico al di sopra della norma per un ragazzino di undici anni. In segreto, tutte le sere, prima di mettersi a dormire, eseguiva regolari esercizi d'irrobustimento per il fisico, e gli effetti, sul suo corpo, si vedevano in maniera piuttosto evidente.

Sfilò i guanti dallo zaino e li indossò. Non erano molto pesanti, anzi, erano di semplice tela; in una giornata calda avrebbero fatto sudare le mani in un attimo ma, al momento, facevano al caso suo.

«Anch'io voglio i guanti!»

La voce irritante di sua sorella si fece subito sentire.

«Dai, Sabri. Non è giornata da guanti» le rispose subito Tommaso. «Vedrai che appena verrà più caldo, Pietro se li toglierà. Vero?»

Gli rivolse all'istante uno sguardo minaccioso.

«Tra un'ora al massimo me li sarò già levati. Appena l'aria si sarà scaldata un po'...» disse, sorridendo.

Pronti finalmente per partire, si diressero verso l'imboccatura del sentiero dritto davanti a loro che, dopo un breve tratto rettilineo, curvava a destra, infilandosi nel bosco che ricopriva quasi per intero i piedi della montagna sovrastante.

Il sentiero scelto da Tommaso, tra tutti i percorsi della zona adatti ai bambini, era il più lungo, ma pressoché sempre in pianura; dopo circa cinque chilometri di serpeggiamenti intorno agli alti fusti del sottobosco, sbucava sulla riva del fiume che scorreva nella valle e che lì riprendeva il suo corso, dopo essere precipitato con una meravigliosa cascata dal picco che lo dominava.

Non appena il sole si nascose tra i rami dei pini, dei larici e degli abeti rossi che stendevano i loro rami sopra di loro, l'aria si fece più fresca.

I tre viandanti camminavano di buon passo e per i primi venti minuti, nessuno aprì bocca. Anche Sabrina, stranamente, aveva smesso di far sentire la sua vocina, e sembrava godersi lo spettacolo di odori, rumori e sensazioni che la boscaglia intorno stava regalando. Non avevano incontrato ancora anima viva, ma Pietro pensava (e sperava) che presto, qualche altro intrepido podista si sarebbe rivelato.

Approfittando di un momento in cui la piccola sembrava rapita dal paesaggio, Tommaso si accostò al figlio.

«Ti sei comportato bene in questi ultimi mesi. I tuoi voti sono migliorati, e anche il tuo atteggiamento, sia in casa, sia con la Sabri. Mi fa piacere constatare che la lezione di Natale è servita.»

Pietro non rispose subito, quasi aspettandosi una carezza o una vecchia e sempre gradita pacca sulla spalla che accompagnasse quelle inaspettate parole, un po' stonate a dire il vero, considerando da che bocca uscivano. Ma il padre non aggiunse altro, guardandolo a sua volta con l'espressione dell'"ora tocca a te". Il discorso assomigliava senz'altro a quello che un normale padre farebbe al figlio, per fargli sapere che è fiero di lui, che tutto sta andando bene, e che gli vuole bene. Ma nel suo caso... Pietro sapeva bene cosa il genitore gli stava comunicando.

"Ti sei messo in riga, idiota. Vedi di continuare così, perché al prossimo sgarro finisci diritto all'ospedale!"

«Sì, papà. Ho capito tante cose» rispose, soffocando all'istante l'intenso bruciore agli occhi che sentiva salire.

Non era tristezza, né uno spasmo di contentezza per quel tono decisamente lontano da quello che di solito veniva usato contro di lui. Era rabbia, pura e semplice, incontaminata; il furore primitivo che tutti hanno dentro, ma che la razionalità riesce, il più delle volte, a controllare. Pietro invece, lo stava lasciando scorrere incontrollato, per essere pronto ad agire nel modo corretto, non appena la situazione lo avesse permesso.

Odiava suo padre, per tutte le botte che gli aveva dato nel corso degli anni, per tutte le ingiustizie, privazioni, per le umiliazioni costanti che gli aveva inflitto; e lo odiava ancora di più ora, mentre indossava quella patetica maschera da genitore che, immaginava con quale immenso sforzo, aveva messo per andare a parlare con lui.

Odiava sua madre, perché una donna che disprezza il proprio figlio solo per il semplice fatto d'averlo messo al mondo, merita di ricevere solo odio e sofferenza; lei nemmeno ci provava a fare il genitore, ma esternava lo schifo che lui le provocava in maniera palese.

Odiava sua sorella, piccolo e irritante strumento usato contro di lui, presenza costante in tutte le vessazioni che aveva subito; ingenua all'inizio, ma sempre più consapevole che, un semplice capriccio, le spalancava qualsiasi porta per ottenere quello che voleva. A scapito suo, era ovvio!

"Ma ormai ci siamo! A breve si bruceranno con il fuoco che loro stessi hanno appiccato in tutti questi anni!"

Ricordava d'aver letto, su un libro che gli era capitato tra le mani l'anno prima, una teoria piuttosto bizzarra riguardo a come l'anima s'impossessa di un corpo.

L'autore (un pakistano, se non ricordava male) sosteneva che ogni anima, poco prima di materializzarsi, scendesse sulla terra per dare un'occhiata da vicino alla famiglia con cui, il corpo che era in procinto di abitare, avrebbe convissuto. Nel caso non la ritenesse idonea alla propria natura, aveva la facoltà di sceglierne un altro.

In tutta onestà, gli era sembrata una cazzata di proporzioni giganti, una teoria assurda formulata da qualcuno che si era appena calato qualcosa di molto buono, o di molto cattivo, a seconda dei punti di vista. Ma, ipotizzando che potesse anche avere un qualche fondamento di verità, si era chiesto se la propria anima, una volta visto che razza di gente fossero suo padre e sua madre, non si fosse del tutto rincoglionita. E il pensiero l'aveva fatto ridere di gusto, anche se da ridere, in effetti, c'era ben poco!

«Ok, continua così.» aggiunse Tommaso discostandosi per raggiungere Sabrina, ancora immersa nei suoi pensieri bucolici.

«Papà...»

Il signor Masi si voltò.

«Appena troviamo la roccia giusta, mi aiuti a staccare qualche sasso per la mia collezione di minerali? Mi son portato dietro il martello» disse con la voce più melliflua che riuscisse a cavar fuori, indicando lo zaino che aveva sulle spalle.

Lo sguardo di suo padre si accigliò, forse troppo abituato a quell'espressione ogniqualvolta incrociava quello del figlio, per poi distendersi in un sorriso talmente scarno, che su nessun altro viso Pietro l'avrebbe notato; su quello di Tommaso invece risaltava come uno schizzo di sangue nella neve, almeno ai suoi occhi.

«È uno dei miei?» chiese.

«Sì. Scusa, forse dovevo chiedertelo prima di prenderlo...»

La falsità nel tono di voce suonava dolce alle orecchie di Pietro, ma temeva di aver esagerato e che suo padre capisse che lo stava prendendo in giro. Non fu così.

«Fa niente. Certo che ti aiuto! Dimmi quando...»

«Quella!»

Tutti e due rimasero sorpresi: uno non era abituato a essere interrotto, soprattutto dal figlio; l'altro si sorprese dell'intraprendenza avuta e ancora temette di aver tirato troppo la corda. Ma risultava evidente che suo padre fosse di buonumore quella mattina e sembrava non voler vedere la presenza del vecchio figlio, in agguato, nascosto dietro la figura del buon ragazzo che Pietro era riuscito a idealizzare nella sua testa.

«Quello?» chiese Tommaso, indicando un piccolo masso sporgente dal terreno, tra due grossi tronchi ai lati del sentiero.

«Esatto! Credo che potremmo trovarci del quarzo all'interno.»

Pietro si sfilò lo zaino, estrasse il grosso martello dal sacchetto in cui l'aveva riposto e lo porse al padre.

«Sabrina!» gridò. «Vieni qui. Cerchiamo dei sassi per Pietro.»

«SI'! SI'! BELLO!»

La proposta aveva risvegliato la sua gola e tutti i fastidiosi suoni che vi vivevano.

Tommaso piantò tre poderose martellate sulla roccia, ma non ottenne altro che rumore. La superficie del masso era piuttosto liscia, difficile da scalfire con un semplice martello.

«Dovevi prendere anche lo scalpello, furbo!» disse, sentendo appena accendersi una piccola scintilla dell'astio che gli procurava di solito il figlio. Provò altre due volte, ma a parte qualche minuscolo granello, nient'altro si staccò.

«Hai ragione, papà; non ci ho pensato. Fa niente, dai.»

Tommaso, ancora accovacciato, si girò a fissarlo.

«Grazie per averci provato.»

Il padre si alzò e gli restituì l'arnese. «Vicino al fiume potremmo trovare rocce più frastagliate. Magari ci riproviamo dopo.»

Per la prima volta stava provando qualcosa di molto simile al dispiacere per il figlio; non era in grado di spiegare il perché, ma sentiva forte, in lui, il desiderio di accontentarlo. Forse perché da qualche mese lo vedeva diverso, cambiato, e un piccolo germoglio di speranza aveva iniziato a crescergli dentro: la speranza che il ragazzo diventasse la persona che sempre aveva desiderato, e non l'arrogante teppistello che sempre era stato.

Sua moglie, già da anni, quasi lo implorava di rinchiuderlo in un qualche istituto di correzione.

«È un poco di buono! Vedrai che prima o poi farà la cosa grossa! Poi rimpiangerai di non avermi ascoltata...»

Molte volte era stato sul punto di accontentarla, ma nonostante i continui richiami dalla scuola (era stato anche sospeso per cinque giorni, in quarta elementare, per aver preso a pugni un compagno), le risposte insolenti in casa, le due volte che era stato pizzicato a rubare, e tanti altri piccoli episodi di bullismo vario, per qualche oscura ragione, Tommaso Masi aveva sempre voluto risolvere la questione in famiglia, ogni volta aumentando il grado di punizione, sperando contasse a qualcosa.

Quello che era accaduto a Natale era stato l'apice di tutto e l'ultima possibilità che aveva intenzione di concedere al figlio: mai si era azzardato a colpire la sorella e la nuova entrata, nel campionario delle stronzate di Pietro, l'aveva disturbato alquanto. Ma mai quanto sua moglie.

«Te ne devi disfare, cazzo! Ha colpito la nostra bambina quello stronzo, te ne rendi conto?» gli aveva sbraitato in faccia, in lacrime, la sera di Natale, mentre si infilavano sotto le coperte.

«Questa è l'ultima possibilità che gli do, te lo prometto. Alla prossima che combina, lo rinchiudo in collegio e faccio buttare via la chiave.»

Lei l'aveva fissato, col volto deformato dalla rabbia e dalla tristezza. «Se la ritocca, lo ammazzo!»

Invece, inaspettatamente, il ragazzo aveva cominciato a cambiare, a comportarsi bene, a studiare, a essere gentile con Sabrina e rispettoso con loro.

Un paio di sere prima, Tommaso aveva fatto notare la cosa a sua moglie, ma lei aveva sbuffato.

«Ci prende per il culo, secondo me! Glielo leggo in quegli occhietti di merda che si ritrova. Ha in mente qualcosa...»

Lui l'aveva guardata incredulo. «È nostro figlio, Anto! Io devo credere che prima o poi le cose migliorino...»

Lei gli aveva piantato in faccia uno sguardo che non le aveva mai visto. Gli occhi le sporgevano in fuori e aveva la bocca piegata in un ghigno quasi diabolico, o comunque molto lontano dall'essere umano.

«Non è mio figlio! Non lo è mai stato e mai lo sarà! L'hanno piantato dentro di me le forze del male.» Aveva cominciato a piangere.

«Antonella! Cosa dici?»

Il pianto era diventato un vero e proprio singhiozzo.

«La sera che l'abbiamo concepito... ho vomitato in bagno. Mi sentivo malissimo, come se avessi una palla di spine... dentro. Il giorno che ho scoperto di essere incinta pioveva a dirotto e il vento ululava. Me lo ricordo bene! Sentivo la voce del male entrare nelle mie orecchie. Era il diavolo! Il diavolo che aveva depositato il suo frutto nel mio grembo, e rideva! Rideva come un forsennato!»

Tommaso era rimasto molto scosso da quella conversazione, e aveva quasi sperato che la moglie fosse in preda a un forte esaurimento nervoso, pur di credere che le cose che diceva fossero solo mere suggestioni. Ma l'inquietudine, comunque, si era insinuata in lui.

"Eppure, il ragazzo è cambiato! Questo non si può negare" pensava.

Per questo aveva deciso di comportarsi con Pietro più o meno nello stesso modo con cui si approcciava a Sabrina, per dimostrare alla sua consorte che non si stava sbagliando; la gita che stavano facendo sarebbe stata un ottimo banco di prova.

«Niente sassi?» chiese la piccola, con una punta di delusione.

Pietro le arruffò i capelli, sogghignando. «Li cerchiamo dopo, al fiume.»

Quel gesto fece battere il cuore di Tommaso più forte, procurandogli uno sprizzo di felicità improvvisa che lo rese quasi euforico. Per la prima volta riusciva a osservare i suoi due figli con un amore grande quasi in egual misura.

«Forza, allora! Rimettiamoci in marcia. La cascata ci attende!»

Si girò e s'incamminò, seguito a ruota da Sabrina, ancora più eccitata.

Avrebbe dovuto soffermarsi con più attenzione sul sorriso di Pietro, più simile a un ghigno, ma soprattutto sulle sue mani, coperte dai guanti: non avevano riposto il martello nello zaino, ma nel tascone che aveva sul davanti della felpa.

Quando si attraversa un periodo felice, o anche solo spensierato, dopo la fatica e il peso di tante preoccupazioni, tante angosce, si tende a voler allungare quello stesso momento all'infinito, ignorando, magari inconsapevolmente, i segnali, palesi che il tormento è ancora vivo e non è passato.

Per quanto Pietro fosse preparato per quel giorno, e per quanto recitasse bene la sua parte, la sua natura, a fatica repressa dietro alla maschera che stava indossando ormai da cinque mesi, a volte riusciva a fare capolino.

Ma Tommaso non se ne accorse, ingannato dal figlio e anche dalla sua stessa ingenuità. E l'avrebbe pagata cara, molto cara.

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