28 - UNA PIOGGIA DI DOLORE (1)
La devastazione causata da Ismel e dal suo terrificante robot improvvisato non aveva colpito solo il centro di Bologna e le zone subito adiacenti, ma si era propagata per un raggio di quasi un chilometro, in tutte le direzioni. Le onde d'urto delle esplosioni e le scosse causate, avevano procurato danni più o meno gravi in moltissime zone della città.
Durante l'estrazione, alcuni dei superstiti, quelli più audaci e più disperati, si aggiravano per le strade vuote, tra macerie, polvere, i pochi cadaveri umani (perlopiù morti per i crolli), i molti animali domestici abbandonati senza colpa dai loro padroni, e quelli selvatici, attirati dall'assenza imprevista dell'uomo che, di ora in ora, s'ingrandiva sempre più.
In luoghi dove fino a qualche giorno prima s'ingorgavano auto, camion, motorini, mezzi pubblici e quant'altro, ora si potevano scorgere cinghiali che grufolavano e daini che correvano.
E bolle ovunque; piccole, di media grandezza, grandi e grandissime. Molti, tra chi era scampato alla cattura, finirono dentro nel tentativo estremo di salvare i loro cari, chissà con quale fiducia nella riuscita dell'operazione, semplificando di fatto il lavoro alle sentinelle.
Gli animali selvatici, forse più scafati e istintivi, se ne stavano alla larga, captando la pericolosità di quelle strane fonti di energia che non avevano mai visto, limitandosi a occupare le zone più sgombre; ma quelli domestici, cani e gatti soprattutto, si avvicinavano, riconoscendo il padrone all'interno o forse semplicemente perché ormai troppo abituati alla compagnia dell'uomo. Una volta entrati nella bolla, si accasciavano al suolo senza emettere un fiato, e morivano, in silenzio.
Man mano che le estrazioni finivano, la caccia riprendeva e nuove bolle, più piccole e meno numerose, venivano create per i nuovi ospiti sorpresi per strada o nelle loro case, usciti dai nascondigli con la speranza di essere ormai fuori pericolo.
La mattina del terzo giorno dopo l'inizio dell'invasione, nella zona intorno al centro di Bologna si potevano contare una cinquantina di grandi bolle, appartenenti alla prima ondata (la più estesa conteneva oltre duecento sventurati), e altrettante, o poco più, di quelle nuove, contenenti tre o quattro persone al massimo.
Quelle rientrate nelle mani delle sentinelle avevano lasciato una distesa di corpi inermi a terra, un macabro tappeto di bambini, donne, uomini, anziani, tutti accasciati con la stessa espressione vuota che avevano avuto nei due giorni precedenti; ma se prima potevano aver dato l'apparenza di essere vivi, anche se simili a immobili zombi, adesso nessun dubbio poteva contrastare l'assoluta mancanza di vita in quei corpi, privati della loro essenza.
Molte sentinelle, finito il primo compito e non avendo scovato nessun'altro, erano tornate dal loro padrone. Entrate nella grande bolla, si erano rimpicciolite e posizionate sull'erba, intorno alla palla, in una rigorosa fila ordinata, in attesa di nuove disposizioni.
Su tutto il pianeta, tra estrazioni che finivano, cacce che riprendevano, nuove bolle che si formavano e sentinelle che rientravano, il flusso era ormai pressoché continuo.
Ismel, all'interno della sfera, assorbiva e pianificava.
Sentiva il potere accrescere, percepiva nuove conoscenze scorrere in ogni centimetro di fibra del corpo fittizio che l'energia gli aveva plasmato addosso e in cui era ormai assuefatto. Aveva acquisito nuove abilità e poteva percorrere nuove vie; la massa rossa gli parlava, sussurrava e lui gongolava di piacere nell'apprendere cosa poteva fare, scoprendo poteri che non avrebbe mai pensato di poter avere.
Poi c'erano le idee; quelle non smettevano mai di arrivare.
Si formavano, vagavano un po', sgomitavano per farsi notare; molte scoppiavano come bolle di sapone, altre ristagnavano, per poi fare la stessa fine. Le pochissime che resistevano venivano ponderate con attenzione.
Grazie alle estrazioni la quantità di energia dentro a Ismel aumentava di continuo, e questo forniva prospettive di analisi sempre più complesse e capaci. Un pensiero in particolare lo assillava già da un po', nutrito anche dai fallimenti prodotti dai tre individui a cui si era affidato e che, per ora, lo stavano deludendo enormemente.
"Uccidi i portatori dell'energia di tua sorella. Sbarazzati di loro e del potere stesso in maniera definitiva. Sarai comunque il più forte!"
All'inizio aveva scartato l'idea, considerandola folle. Voleva quel potere, doveva essere suo, in barba a suo padre che l'aveva sempre disprezzato e umiliato, e a sua sorella e al suo insopportabile buonismo.
Ma poi... Più energia assorbiva e più questa gli parlava, lo calmava, lo faceva ragionare, facendogli acquisire una saggezza che contrastava in modo netto con i suoi impulsi iniziali. E aveva ragione. Perché rischiare? Se quegli individui si fossero uniti sarebbero stati in grado di distruggerlo, per sempre. Questo lo sapeva. Ma era così sicuro che non sarebbe successo anche presi a uno a uno?
Aveva ordinato a Bito di portargli la ragazzina; ammesso ci fosse riuscito (al momento l'impresa pareva lontana dal successo), cosa avrebbe fatto se, una volta che lei fosse stata al suo cospetto, avesse scoperto di non potere estrarre da lei il potere? Se non fosse riuscito a eliminarla? Se ci avesse provato addirittura lei? L'avrebbe disintegrato o, peggio, poteva anche farlo diventare come uno di loro, un uomo normale, meschino, nudo, costretto a vivere per sempre su quello schifo di pianeta, fino a morirne. Rabbrividì al solo al pensiero.
"Cambiamo strategia!" si disse o gli disse l'energia.
Decise di dare ancora fiducia a Masi, nonostante continuasse a fare di testa sua, ignorando i suoi ordini. Bastava la più piccola distrazione, sia esterna, sia fosse anche solo un pensiero dentro di lui, che la sua effimera obbedienza si sgretolava. Si era sbarazzato del tedesco senza battere ciglio e lo aveva rassicurato sul fatto che fosse una cosa positiva. Eppure, qualcosa in quell'ingovernabile uomo lo attirava a continuare a pensare fosse la persona giusta per portare in fondo il compito che gli aveva assegnato: uccidere quel pericoloso vecchio e catturare la donna, preziosissima per arrivare a uno dei portatori.
Bito, invece, era inutile. Era stato capace solo di rapire una bambinetta, ma non sarebbe mai stato in grado di catturare anche la ragazzina, tanto meno distruggerla.
Aveva poi individuato una nuova risorsa, a stretto contatto con i suoi obiettivi; era debole, senza nessun potere, ma piena di rancore. Ismel percepiva l'odio che covava e vedeva a cosa potesse spingere un tale livore. Poteva fare un tentativo e, tramite lei, raggiungere lo scopo senza alzare un dito.
C'era un'ulteriore idea rimasta nel setaccio, troppo grande e affascinante per essere scartata, ma rischiosa da attuare senza prima averla ponderata per bene.
Aveva tempo e, ora, pure pazienza.
Si rilassò e sorrise.
Camilla fissava il paesaggio sfrecciare veloce fuori dal finestrino abbassato, cercando di trarre godimento dall'aria tiepida, ma già piuttosto umida, che le accarezzava la faccia. La ferita sulla spalla le bruciava in modo sopportabile, al contrario della lacerazione che le tormentava il cuore, molto più profonda, molto più straziante. Un dolore che colava sempre più a fondo e aveva già iniziato a trasformarsi in rabbia.
La tragica e improvvisa visita di quel Bito aveva interrotto la penosa discussione che stava avendo con Andrea, e i tragici accadimenti avvenuti non l'avevano più fatta riprendere.
L'ultima cosa uscita dalle labbra traditrici che l'avevano resa felice più volte e in tanti modi, era che lui amava Veronica da sempre. Avevano fatto l'amore cinque volte in poco più di un giorno, avevano dormito nudi per due notti, abbracciati, e lui le aveva confessato a più riprese di amarla, guardandola negli occhi, baciandola con dolcezza e trasporto. Mentre, però, pensava all'altra! Una ragazzina di undici anni, bella, anzi, molto bella, con dei capelli a dir poco splendidi, questo glielo riconosceva. Ma insignificante ai suoi occhi. Magra, col seno piccolo, praticamente una bambina. Come poteva preferirla a lei? Come poteva rinunciare alle sue tette, grosse, morbide, perfette, che gli aveva in pratica sbattuto in faccia da subito e che lui aveva tanto apprezzato? Come poteva pensare di stringere e accarezzare il corpo acerbo e secco di quella là, quando poteva avere il suo, pieno, formoso e formato? Stavano così bene insieme! Avevano una complicità fantastica, sotto ma anche sopra le coperte. Parlavano di tutto e ridevano per niente; come aveva potuto prenderla in giro in quel modo?
Aveva fatto un estremo tentativo quando si erano rinchiusi in bagno, prima di lasciare i "Ginepri".
Andrea aveva insistito per disinfettarle e fasciarle la bruciatura sulla spalla, così si era tolta la maglietta, rimanendo a seno nudo. Lui, in apparenza impassibile, l'aveva fatta sedere e le era scivolato dietro, medicandola.
«A posto!» aveva detto, una volta fissata la fascia.
A quel punto Camilla gli aveva afferrato le mani e se le era posate sul petto, baciandogli le braccia.
«No!» aveva subito reagito, allontanandosi. «Non voglio più prenderti in giro, Camilla. Mi dispiace.»
Lei non era riuscita a dire niente e, affranta, aveva taciuto.
Si erano dati una veloce lavata nel più totale e imbarazzante silenzio, poi erano usciti. Fuori dalla porta aveva incrociato lo sguardo di Veronica e, senza pensarci, si era dipinta un falso sorriso compiaciuto sul viso.
Il cipiglio della ragazzina era stato l'unico momento bello, in quella schifosa mattinata.
Lo stomaco di Camilla si contorceva e pulsava di rancore. Si sentiva calda come se avesse la febbre e si accorse di essere tutta sudata.
La giornata era afosa, come da accadeva un po' di tempo ormai, ma la causa del suo malessere non era il clima. No, c'era qualcos'altro. Sentiva qualcosa spingerle dentro, a partire dalle viscere fin su alla gola; qualcosa che, in qualche modo, le stava parlando e le mostrava il tradimento di Andrea per intero, chiaro e limpido come l'acqua di un ruscello di montagna.
Fissò il ragazzo, seduto a fianco, con la coda dell'occhio, mentre anche lui pareva godersi l'aria che entrava dal finestrino.
Poteva veramente credere di provare odio per quel ragazzo? Sì, dell'odio c'era, ma lottava con l'amore che provava e, in tutta sincerità, non era sicura sull'esito di quella battaglia.
Provava forte l'impulso di prendergli la mano, baciarla, appoggiarsi a lui e lasciare che l'accarezzasse tutta. Ma non sarebbe successo.
Lo sguardo cadde poi su Veronica, seduta a fianco della silenziosa Laura, concentrata nella guida ma, più probabilmente, con la testa rivolta alla piccola Marta. Camilla sentì il sangue ribollirle nelle vene e l'amore che provava per Andrea finire sbattuto in un angolo dalla spallata del disprezzo più livido che si potesse provare nei confronti di un'altra persona; scoprì con terrore, ma anche con un sottile e perfido piacere, che per la prima volta nella sua vita poteva concepire pensieri violenti.
Veronica si voltò e la fissò, quasi percepisse le onde di cattiveria che arrivavano da quella ragazza. Si guardarono per un paio di secondi, senza dire nulla. Veronica le sorrise e parve sul serio un sorriso sincero, carico dell'ingenuità che solo una ragazzina di undici anni può avere.
L'oscurità nel cuore di Camilla fu rischiarata da una piccola e flebile luce, ma capace di distenderle appena le labbra e ricambiare il gesto d'affetto.
Veronica tornò a fissare la strada e la lucina si spense. L'odio si riversò nel cuore di Camilla con ancora più veemenza e il timido sorriso sulle sue labbra si tramutò da benevolo a maligno, quasi un sogghigno.
Non si accorse che Andrea la stava fissando, perplesso, con la fronte striata dalle rughe.
«È qui, Laura.»
Veronica ruppe il silenzio e indicò una stradina alla loro destra che, superato il piccolo ponte sullo Zena, si arrampicava con una curva a gomito, sparendo tra gli alberi. Era la strada che portava alla capanna di Bito.
«Fermati un momento.»
Laura arrestò l'auto, voltandosi verso la ragazzina accigliata.
«Perché dobbiamo fermarci?» chiese Laura. «Saliamo con l'auto. Non abbiamo già perso troppo tempo?»
«Non possiamo andare su allo sbaraglio!» rispose Veronica, girando e cercando appoggio anche dai due ragazzi. «Potrebbe sentire il rumore della macchina e prepararsi o, peggio, far del male a Marta.»
«Concordo. Dobbiamo essere cauti» s'intromise Andrea.
«Come cauti? Dobbiamo agire in fretta invece e riprenderci la piccola.»
«Ha ragione Laura!»
Camilla guardava Andrea, quasi con aria di sfida. «È probabile che già ci stia aspettando e già sia preparato.»
Veronica si voltò. «Aspettate un attimo. Non sappiamo nemmeno se è alla capanna.»
«Appunto. Andiamo a scoprirlo.»
Laura non attese nessun'altra obiezione. Inserì la marcia e partì.
«Ah, allora va bene» ridacchiò Andrea, con ironia.
«Almeno ti fermi un secondo prima di imboccare il sentiero?»
«Quale sentiero?»
«Quello che porta alla capanna. È poco più avanti, stretto e corto.»
Il tono di Veronica era abbastanza alterato.
«È un collo di bottiglia, senza alcuno spazio di manovra. Se ci aspetta lì e ci attacca, saremo completamente esposti. Vado a piedi, mi affaccio un momento e vedo se c'è la macchina. Poi, decidiamo cosa fare. Ti va bene così?»
Laura notò il tono sarcastico di Veronica e la fissò con un certo fastidio. Voleva controbattere o solo ricordarle di portare rispetto a una persona molto più grande di lei, ma ritenne che ne sarebbe nata un'ulteriore discussione inutile e che avrebbe fatto perdere altro tempo. Si limitò quindi ad acconsentire con uno stanco cenno della testa.
«Eccolo! È questo.»
La macchina si fermò proprio all'imbocco dello stradino in sterrato sulla loro destra. Il sentiero proseguiva diritto per un centinaio di metri, poi svoltava dall'altro lato.
«Vado, controllo e torno. Datemi cinque minuti.»
Veronica aprì lo sportello e uscì.
«Accompagnala, Andrea. È meglio che nessuno di noi rimanga solo» disse Laura, fissandolo dallo specchietto.
«Va bene.»
Guardò Camilla prima di uscire dall'auto. La ragazza aveva assunto uno sguardo imperturbabile. Gli sorrise appena, poi si rivolse al finestrino.
Col cuore che batteva all'impazzata, Andrea raggiunse Veronica, già arrivata alla svolta del sentiero.
Camilla li osservò camminare e parlottare finché non sparirono alla vista; sentiva lo stomaco pesante e la rabbia che le montava dentro, sempre di più. Ebbe la sensazione quasi di non riuscire più a contenerla; la sua pelle era bollente, sudava, e si accorse che stava stringendo il tessuto del sedile con le dita, talmente forte che cominciò a sentire dolore. Mollò la presa e si impose di calmarsi, facendo lunghi respiri profondi.
«Tutto bene, ragazza?»
La voce di Laura le arrivò da una stanza lontana, ovattata, come se fosse passata attraverso diverse porte chiuse.
Camilla guardò di nuovo verso il sentiero, fissando il punto in cui Andrea e Veronica erano spartiti.
«Sì, tutto bene. Grazie» rispose, mentendo.
Veronica avanzava con cautela, seguita da Andrea.
«È dietro a quella semicurva. Da quell'albero si dovrebbe vedere la radura, senza essere troppo esposti.»
Raggiunto il tronco si appoggiò, allungando il collo per scorgere la capanna.
Andrea le era subito dietro, ma non sembrava interessato alla macchina, né a Bito o alla capanna, nemmeno alla povera Marta. Erano spariti gli alberi, il sentiero, i rumori del bosco, il caldo; non c'erano più bolle nè sentinelle che le creavano; non pensava più a suo padre e alla missione impossibile che stava affrontando, né tantomeno a sua mamma che, forse, non avrebbe mai più riabbracciato. C'era solo Veronica, davanti a lui, a galleggiare nel vuoto più assoluto, coi capelli, ora sciolti, che ricadevano sulle spalle nude e rilucevano di mille tonalità tra il rosso, l'arancione e il rame. Guardava le sue braccia, lunghe, magre, ricoperte da pelle liscia appena increspata da minuscoli peli biondi, talmente nitidi ai suoi occhi che gli pareva quasi di poterli contare, a uno a uno. Lo sguardo scese sulle natiche, piccole e sode, racchiuse in un paio di stretti jeans tagliati al polpaccio, che rivelavano le gambe che...
«Ehi! Andy?» Veronica lo fissava un po' stranita.
Tornò tutto, in un solo colpo: i rumori, le immagini, il caldo, i pensieri, come se qualcuno gli avesse rovesciato addosso la piccola scatola in cui erano stati rinchiusi. Andrea abbassò la testa strizzando gli occhi, spaesato; poi li riaprì e si ritrovò quelli di Veronica, piantati nei suoi.
«Stai bene?»
«Sì, sì. Una botta di calore.»
«La macchina non c'è. Non è qui. Forse è a casa sua.»
«Ah, ok. Bene.»
Era confuso e dovette compiere un notevole sforzo per capire di cosa stesse parlando. Lei lo stava fissando con intensità, come se lo stesse esaminando. I loro visi erano a meno di dieci centimetri l'uno dall'altro.
«Sicuro di stare bene? Sembri turbato.»
Il cuore di Andrea martellava forte, tanto che temette lei ne sentisse il rumore.
"Che ti succede?" si disse. Ma lo sapeva bene. Sapeva cosa aveva e cosa voleva.
«Torniamo alla macchina?» disse Veronica, facendo l'atto di avviarsi.
Lui le prese le mani con dolcezza, ma tanto da bloccarla. Veronica lo guardò di nuovo, ma nei suoi occhi non scorse alcun segno di sorpresa e un sorriso affiorò sulle sue labbra. Andrea non diede modo alla timidezza di riproporsi e lo soffocò con un bacio a cui lei rispose, rimanendo con le braccia penzoloni. Lui la cinse attorno ai fianchi tirandola verso di sé, mentre le loro lingue si accarezzavano molto sensualmente. Veronica si avvicinò del tutto, appoggiando il suo corpo a quello del ragazzo e mettendo le braccia sulle sue spalle.
Nessuno dei due seppe per quanto si baciarono. Trenta secondi? Un minuto? Forse due. Quando si staccarono si guardarono negli occhi per un attimo, poi entrambi sorrisero e si tuffarono in un secondo bacio, più intenso del primo.
«Forse dovremmo tornare» disse infine lei.
«Sì, è meglio.»
Si presero per mano e si avviarono.
«Vero?» Lei lo guardò. «Ti amo.»
La ragazzina deglutì e gli strinse più forte la mano.
«E Camilla?»
«Gliel'ho detto stamattina. Mi dispiace molto, le voglio molto bene e mi piace un sacco ma... ecco, credo di amarti da sempre. Non ci siamo quasi mai parlati prima di questi assurdi giorni, eppure... ho capito di essermi innamorato di te fin dalla prima volta che ti ho visto. Anche se eravamo entrambi bambini.»
Veronica si fermò di nuovo, lo tirò verso di sé e lo baciò di nuovo. «Anch'io credo di amarti.»
Lo sguardo di Andrea la fulminò, a metà strada tra la sorpresa e lo spavento.
«Credi?»
Lei sorrise, gli prese il viso tra le mani e gli schioccò un bacio sulle labbra.
«Non sono mai stata innamorata. Credo di essere ancora una bambina, senza esperienza. Tu sei il mio primo ragazzo, se sei il mio ragazzo...»
«Certo che lo sono! Non desidero altro. E comunque, tu non sei una bambina. Sei matura, intelligente. Negli ultimi giorni lo hai dimostrato.»
Veronica arrossì. «Grazie» ma subito s'adombrò.
«Staremo a vedere quando dovrò fare quelle cose che ci ha detto Alberto! In effetti, però, mi sento cambiata da quando è arrivato quello là. Caspita! Sembra di parlare di mesi o anni, invece non sono passati nemmeno tre giorni!»
«Tre giorni come questi valgono tre anni» sentenziò Andrea.
Lei annuì. «Ero cinica, logica se mi passi il termine. Dovevo sempre trovare una spiegazione a tutto e a scuola mi prendevano in giro per questo. Adesso, non so, mi viene più da seguire l'istinto. Sarà che ciò che sta succedendo è talmente atroce... E poi, se penso al mio papà... e a Dalila.»
Abbassò un momento lo sguardo. Lui le baciò le mani.
«È lo stesso per me, sai?»
«Lo so. Ho detto "credo di amarti" solo perché non sono sicura di sapere cosa si provi. Dio mio, a quanto si dice dovrò affrontare un robot alto cento metri e non riesco nemmeno a capire se amo un ragazzo!»
Lui l'avvicinò di più a sé e le parlò con dolcezza, accarezzandole i capelli.
«Anche per me è la prima volta, sai? Solo ieri credevo di amare Camilla, ma non capivo che stavo solo proiettando su di lei l'amore che provo per te. Toccavo i suoi capelli e pensavo ai tuoi. Ero convinto di non poter stare con te, anche se lo volevo, poi il bacio di stamattina... Beh, ha spalancato tante porte. Sembra assurdo, difficile da capire, ma ti giuro che è vero. Ho sempre sentito dire che l'amore è complicato... È vero in parte. È complicato capirlo, ma dopo... è tutto semplicissimo, se lo si vuole. Ti amo e voglio stare con te. Tutto qua. Senza nessun se, senza nessun ma! Dicevo di amare Camilla, ma... C'era sempre un ma dietro. Con te invece, c'è solo amore e voglia di te.»
Gli occhi di Veronica si riempirono di lacrime. «Andy! Mi hai appena fatto la dichiarazione più bella del mondo!»
«Non avrei mai creduto di essere capace di dire cose così. Se mi sentisse mio padre!»
Ridacchiò, ma lei lo zittì con un altro bacio. Andrea capì che l'amore era corrisposto. Forse lei faticava ancora a riconoscerlo (dopotutto aveva pur sempre undici anni), ma lui lo vedeva nei suoi occhi, lo sentiva sulle sue labbra, lo percepiva nel leggero tremore che scuoteva il suo corpo quando si toccavano. Non aveva bisogno di sentirselo dire per il momento e forse nemmeno gli interessava; gli bastava che lei stesse con lui, esattamente quello che le aveva appena detto.
«Mi sento un po' in colpa per Camilla» disse Veronica quando si staccarono.
«Tu non hai colpe! Semmai, io ne ho. Dovevo essere più sincero con lei. E anche con te.»
«Dici che dovrei parlarle?»
«No! Tu non devi giustificare nulla. Non hai fatto niente di male.»
Veronica lo abbracciò. «Lei ha la tua età, io ho solo undici anni. Non sono sicura di poterti dare subito tutto quello che ti dava lei.»
Lui le pose un dito sulle labbra. «No, no. Te lo ripeto: voglio stare con te, nient'altro. Non mi interessa cosa facciamo o non facciamo. Mi basta stare insieme. Tutto il resto verrà di conseguenza.»
Si rimisero in marcia, mano nella mano; Andrea tacque un momento, incerto se dire quello che voleva dire. Poi, si decise.
«Ne riparleremo in modo più approfondito su quella cosa di affrontare il robot, comunque...»
Veronica lo fissò a occhi spalancati. «L'hai sentito Alberto! Io sono una dei nove. Non posso mica tirarmi indietro.»
Superarono la piccola curva, trovandosi davanti il rettilineo che portava alla Polo. L'auto era là in fondo, che li aspettava. D'istinto e nello stesso istante, entrambi si lasciarono la mano.
«Dobbiamo dirlo a Camilla» disse Veronica.
«Sì, dobbiamo.»
Masi entrò nella baita senza bisogno di usare il potere del raggio: la porta non era chiusa a chiave. de Simone sapeva che lui era lì o almeno che sarebbe arrivato, (era pieno di telecamere e inoltre aveva attivato il "Recinto"). La porta aperta dimostrava la fiducia che riponeva nel "Recinto", oppure che non aveva paura di lui, la qual cosa lo fece sorridere e lo disturbò insieme, considerata l'ovvia impossibilità per una donnetta e un vecchio malato di poter anche solo sperare di avere una possibilità contro di lui.
"A meno che quel vecchio non disponga di un'arma segreta!" pensò. "Ma che cazzo te ne frega! Sei più potente di tutto e di tutti."
Conosceva il vecchio, anche se l'aveva visto di persona una volta sola, tanti anni prima; aveva capito da subito che era invischiato in qualche maniera con l'evasione, ma non credeva potesse costituire un pericolo tale da doverlo addirittura eliminare. Ma questi erano gli ordini!
Era probabile che il padrone sapesse delle cose.
"Devo solo eseguire!" pensò, quasi ignorando che fino a quel momento aveva, invece, solo disobbedito agli ordini ricevuti!
Poi, c'era la Fontana...
Quella la conosceva bene! Avrebbe potuto schiacciarla in qualsiasi momento quando lavoravano insieme all'abbazia, ma era stato ligio al suo dovere. Un po' perché adorava torturare e uccidere quegli avanzi di galera che doveva sorvegliare, e un po' perché aveva sempre sperato di poterla avere tutta per sé, prima o poi. Ma non era successo.
"La troia si scopa i prigionieri!"
Il sangue gli ribollì nelle vene e la voglia di vendetta lo avvolse come un mantello.
Si bloccò, in sospeso all'ingresso della baita quasi trattenendo il respiro, sicuro che il padrone reagisse a quei pensieri così pericolosamente vicini alla disobbedienza e lo rimproverasse o, peggio, lo punisse. Ma non successe nulla. Nessuno parlò, nessuno si palesò. La mente era libera, sgombra. Sua! Non aveva nessun'interferenza. Sorrise. Si era tolto dalle palle René, un peso morto, un vigliacco che si era sempre cagato sotto al suo cospetto, tranne quando era stato al sicuro dietro alla porta di una cella. Ora pareva proprio fosse riuscito a liberarsi pure di quell'altro. Poteva fare come voleva; poteva agire alla sua maniera.
E l'avrebbe fatto.
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