26 - LA VENDETTA DI BITO
Il cielo stava appena cominciando a schiarirsi quando il fischio d'un treno svegliò Franco di soprassalto, trascinandolo fuori da un sonno sereno e senza sogni.
Monica corse fuori imbracciando il fucile, ma subito l'abbassò, non appena vide chi c'era nella locomotiva che si stava fermando davanti alla baita.
Ignorando la voce del vecchio alla finestra, si affrettò ad aiutare Francesca a scendere, tumefatta in viso e vestita con abiti palesemente non suoi.
Mentre Monica le curava l'occhio sinistro, semichiuso, circondato da un grosso livido viola e le labbra gonfie e tumefatte, Francesca raccontò allo zio di come fosse sfuggita alla sentinella, del riparo trovato nella tana della sua Astra (qui cominciò a piangere, ricevendo un buffetto affettuoso sulla guancia dalla sua tata), di come fosse tornata all'abbazia per recuperare dei vestiti e si fosse addormentata nuda sul letto.
«Una stupida! Ecco quello che sono!»
I visi di Monica e di Franco si fecero cupi quando cominciò a raccontare dell'aggressione subita da parte di Masi e René e di come fosse riuscita a scappare per un pelo, grazie al sacrificio della sua cucciola. Franco tacque per tutto il tempo, talvolta aggrottando la fronte, talvolta sbuffando, facendo tremare appena le labbra.
«Ero nuda, in macchina, in mezzo al bosco. Dovevo trovare dei vestiti e un modo per venire qui più in fretta possibile; mi è venuta in mente la villa e la locomotiva, quella che mi facevi sempre guidare, zio. Ho avuto un momento di panico quando ho trovato la rimessa vuota... Poi ho visto il pannello e mi sono ricordata della possibilità di richiamarla. Ha funzionato!»
«Hai fatto bene, cara. Sei stata furba. Né io, né Monica abbiamo sentito il treno partire e, tantomeno, ci siamo accorti che mancava!»
«Forse ci vorrebbe un allarme, ingegnere. O qualcosa del genere.»
Franco proruppe in una rauca risata che gli procurò una violenta scarica di colpi di tosse.
«Ormai, Monica...» riuscì a dire, quando si riprese.
«I miei vestiti erano comodi, tesoro?» disse, poi, rivolto alla nipote.
Lei esibì uno stanco sorriso. «Quando ho visto che anche su alla villa mancava l'elettricità, ho vissuto altri momenti di vera paura! Ero sicura che il treno non sarebbe mai arrivato... Come può funzionare, senza corrente?»
«Oh, tesoro! Non va con la corrente il mio treno! È un meccanismo del tutto elettrico, dotato di una batteria auto-ricaricabile inventata da me. Non ricordi? Te l'avevo detto, quando t'insegnai a guidarlo...»
Monica sghignazzò. «Ma come, Francy! Non te lo ricordavi?»
Franco la fissò con uno sguardo serio e accigliato, ma che nascondeva un sorriso pronto a emergere.
«Scusa, zio. Proprio non me lo ricordavo. È già molto che sono riuscito a farlo arrivare e partire.»
«Adesso sei qua, con me. Solo questo conta!»
«Temo stiano arrivando, zio. Masi, René e... non so, forse anche delle sentinelle. Non so il perché, ma quell'uomo orribile ha detto che vuole ammazzarti.»
Monica pose davanti a Francesca la colazione e lei iniziò a mangiare, con vistoso appetito.
«Un raggio rosso dalle mani, hai detto?» chiese il vecchio, con un'espressione che oscillava tra il curioso e l'esterrefatto, ma che toccava anche zone d'angoscia.
«Sì! Dalle mani!» rispose con la bocca piena.
«Sicura che fosse rosso?»
Francesca inghiottì e sbuffò. «Stavo scappando da due pazzi che volevano stuprarmi e uccidermi, zio. Quel raggio ha ucciso la mia lupa. Il colore, obiettivamente, è stata la cosa a cui ho prestato meno interesse!»
Monica accennò uno spento e stanco sorriso, mentre scuoteva la testa.
«Me lo ricordo rosso, ma forse non lo era. Che ti devo dire? Non era molto intenso come colore. Di questo ne sono sicura!»
Bevve un sorso di caffè e addentò la seconda brioche.
«Certo, certo. Scusami, tesoro! Capisco benissimo. Era solo la curiosità di un vecchio scienziato brontolone!»
Le fece l'occhiolino e le rivolse lo sguardo più tenero che potesse tirar fuori dai suoi vecchi occhi.
«Che sia rosso o arancione, comunque cambia poco. La cosa grave è che l'abbia fatto. E posso supporre che anche il nostro ex ospite René ne sia in grado.»
Si tolse per un attimo gli occhialini e, appoggiato il gomito sul tavolo, si grattò gli occhi. Poi li infilò di nuovo.
«Ismel ha dato dei poteri a degli esseri umani. Già questo è inquietante. Perché non ha estratto l'energia da loro, come ha fatto con tutti gli altri? E, ancora peggio, perché ha scelto proprio quei due? Come faceva a sapere dov'erano imprigionati?»
Monica e Francesca si scambiarono un'occhiata. La mente di Franco era partita e quando succedeva niente la fermava. Ormai lo sapevano bene!
«È ovvio che non è una coincidenza. Ha scelto quei due perché sa, o spero solo sospetti, del nostro piano. Cosa lo ha portato da loro, questo è un mistero.»
«E come fa a sapere di lei, Franco?» chiese Monica, riempiendo di nuovo la tazza a Francesca.
Il vecchio sorrise. «Beh, sia Masi che René mi conoscono. Il tedesco è stato addirittura qui. Se tramite le sue sentinelle riesce a vedere e a elargire poteri, niente di più facile che riesca anche a leggere le loro menti.»
«Ma nessuno dei due sa di Alberto e dei suoi poteri, della venuta della sorella, del custode, di Nicolas... Insomma, tutto quanto, vero?»
Francesca aveva svuotato di nuovo la tazza e fatto segno a Monica che era a posto così.
«Credo e spero proprio di no! Come potrebbero? Mi chiedo però se Ismel, sappia di sua sorella... Sa che è stata qui e che il suo potere è in nostro possesso? Insomma... in possesso di esseri umani, intendo! Non lo sappiamo, ma ponderiamo tutte le ipotesi. Ripeto: ha potenziato due umani e quei due umani sono strettamente legati con noi, purtroppo.»
«Dobbiamo fare qualcosa per difenderci. Potrebbero essere qui da un momento all'altro» ribadì Francesca, allarmata.
«Abbiamo sensori e telecamere dappertutto, e da quando abbiamo iniziato a ballare, li teniamo accesi ventiquattro ore su ventiquattro» la rincuorò lo zio. «A meno che non volino anche, arriveranno sempre dallo stesso sentiero dell'altra volta. Ora, se volete scusarmi, sono molto vicino a far rifunzionare il cellulare. Potermi tenere in contatto con il nostro scrigno, il tuo fidanzato, è essenziale. Così potrai dirgli che stai bene. Probabile che ti creda dentro a una delle bolle, cara.»
«Dovrei essere con lui, adesso...»
D'un tratto lo sguardo di Francesca si accigliò e, di scatto, lo piantò negli occhi dello zio. «Come fate tu e Monica a sapere delle bolle e dell'estrazione? Siete isolati qui, senza telefono, né internet.»
«Ho fatto qualche giretto col treno» rispose la donna, mentre sparecchiava. «A dire il vero me ne è bastato uno. Mi sono fermata nel primo paese e ho dato un'occhiata in giro.»
«Ma, poteva essere pericoloso!»
«Oh, cara...» intervenne Franco, abbozzando un sorrisetto maligno. «Ti posso assicurare che nemmeno gli alieni sarebbero capaci di fermarla!»
Sia Francesca, sia Monica risero di gusto. «Vuoi qualcos'altro, cara?» chiese il donnone.
«Oh, sì! Gradirei veramente tanto fare una lunga doccia calda. Ho notato che qui l'acqua c'è ancora...»
«Abbiamo tutto! Anche la luce e il gas!» aggiunse Franco, sorridendo.
«Dio ti benedica, zio!»
Nascosto dietro a una coppia di alberi che segnavano l'inizio di un minuscolo boschetto, sul pendio che sovrastava i "Ginepri", Bito osservava.
Si era appostato lì quando ancora era buio pesto, con la casa immersa nell'oscurità e il cortile che la circondava appena rischiarato dalla luce della luna. Per eseguire al meglio gli ordini di Ismel, era rimasto sveglio e vigile, anche se gli abitanti del casolare parevano dormire tutti. Era la tipica notte estiva collinare, permeata da un silenzio disturbato solo dal frinire dei grilli e il bubolare di un gufo che echeggiava ogni tanto.
Le prime luci dell'alba rivelarono l'ottima visuale del posto che aveva scelto: vedeva tutta la facciata anteriore della casa e il cortile, in cui erano parcheggiate tre macchine, compresa la sua Ford Taunus.
«Bastarde!» mormorò, ripensando a quello che era successo quando gliel'avevano rubata.
La comparsa di un branco di daini fu il primo segno d'attività che scorse davanti alla casa; li vide arrivare, aggirarsi circospetti tra le macchine, avvicinarsi al casolare poi, d'improvviso, fuggire, come spaventati da qualcosa.
In effetti la casa si era risvegliata. Era distante una cinquantina di metri, ma scorgeva movimenti dietro alle finestre nell'angolo che guardava verso di lui; immaginò fosse la colazione.
Si mise in ginocchio, maledicendo la mancanza di un binocolo. Toccò con la mano la terra a fianco, cercando il rassicurante contatto del suo fucile. Sovrappensiero si era dimenticato di non averlo più e non appena le sue dita sfiorarono i fili d'erba, rammentò di nuovo ciò che era successo nella capanna. Ribolliva di rabbia ogni volta che ci pensava.
"Ti sei fatto mettere sotto da una ragazzina e da una donnetta brutta e puzzolente! Coglione!"
In realtà aveva fatto tutto la ragazza, visto che l'altra era già praticamente a portata del suo uccello.
"Non affrontare la ragazzina. Ti distruggerebbe, come ha quasi fatto l'altra volta" gli aveva ordinato il suo padrone. Ed era vero! Aveva ricordi confusi, ma il dolore provato quando quella stronzetta l'aveva toccato lo ricordava molto bene.
"Non avrai bisogno di nessun fucile! Basta che allunghi la mano! Non devi uccidere nessuno, ricordalo!" aveva continuato Ismel.
L'eco di quella voce ancora rimbombava nella sua testa. Bito se la strinse, forte, con entrambe le mani. Se lo sentiva dentro di continuo, anche quando credeva non ci fosse. Ma lui c'era!
"Certo che ci sono! Vedo tutti i tuoi pensieri, sempre!"
Stavolta la voce fu più netta e, per la sorpresa, Bito ricadde a sedere. Sentì un dannato calore friggere da ogni poro della sua pelle senza riuscire più a percepire i suoi pensieri. Era come se fossero bloccati, era come se Ismel volesse che si concentrasse solo ed esclusivamente su quello che gli diceva. Sentiva la testa pesante e, per assurdo, aveva male al collo.
"Non riesco a pensare! Lasciami la mente!"
"TU NON PUOI DARMI ORDINI, STUPIDA CREATURA!"
Bito si sdraiò per terra tenendosi la fronte che, era sicuro, stava per spaccarsi in mille pezzi. E mentre si contorceva sentì un urlo nascere dal fondo della gola che, come un derelitto imprigionato in fondo a un pozzo, disperato, cercava di risalire per trovare la libertà. Ma il dolore cessò subito; l'urlo si smorzò, evaporando in due miseri colpetti di tosse. Più calmo, Ismel parlò ancora.
"Devi fare quello che ti dico, come te lo dico. Ho già lasciato la corda troppo lunga ad altri due, tuoi simili, ed è andata male. Ti riconcedo il controllo, ma... non deludermi!"
Bito si risollevò, sedendosi e lisciandosi i capelli, sudato. Le gambe tremavano senza controllo.
"Ricorda che non puoi nascondermi nulla!" concluse la voce; poi tacque. Il calore cessò, la testa si svuotò. Il peso che gravava fino alla base del collo era sparito e il sollievo fu immediato.
Guardò la casa, timoroso di aver fatto troppo rumore e aver attirato l'attenzione di quella gente. Ma nessuno pareva averlo notato.
La rabbia nel vedere di nuovo la sua Ford portata via, fu mitigata dal fatto che sopra c'era l'omone (non lo conosceva, ma la mole di quell'individuo, almeno rispetto agli altri occupanti della casa, non lasciava dubbi che fosse lui la persona a cui Ismel si riferiva), insieme a un altro tizio, anch'esso sconosciuto. Se ne stavano andando. Dove? Non gli interessava. Partita la macchina, rientrarono tutti.
Doveva agire adesso. Erano tutti in casa e li avrebbe sorpresi con le spalle al muro.
Aveva contato cinque persone: oltre alle sue due vecchie conoscenze, c'erano un ragazzo e una ragazza e un vecchio grassone, ma poteva esserci qualcun altro dentro la casa. Sembrava un lavoretto piuttosto semplice, ma non doveva escludere nulla e ponderare al meglio ogni cosa. Reputò che passare davanti della casa sarebbe stato troppo rischioso; poteva essere visto attraverso la finestra di quella che aveva battezzato essere la sala da pranzo, affacciata su un piccolo terrazzo rialzato con un dondolo. Decise quindi di passare da dietro, per sbucare poi dall'altro angolo, quello più lontano a lui in quel momento, ed entrare in casa indisturbato.
Coperto dallo sparuto gruppetto di alberi alle sue spalle, si spostò verso sinistra, ridiscese il pendio e raggiunse il retro del casolare.
Partiti i viaggiatori, Dalila cominciò a sentirsi un po' triste e questo la faceva stare male.
All'inizio aveva deciso di ignorarsi, sicura fosse una cosa passeggera. Ma era difficile mentire a sé stessi, a lei ancora di più. Vedere la macchina rimpicciolirsi, per poi sparire dietro alla prima curva, le aveva adombrato i pensieri. Aveva impiegato anni, fatica e una marea di lacrime per costruirsi intorno la bolla di apatia in cui viveva, una coltre molto spessa che la proteggeva dall'opprimente dolore che l'aveva straziata per anni; e c'era riuscita da sola! Veronica aveva fatto breccia, lasciandole la speranza di un futuro un po' più sereno. Adesso doveva ricominciare a soffrire, solo per una scopata?
"Quell'Alberto ha dentro di sé colui che ha ucciso tuo marito e la tua bambina! Tienilo a mente! Senza scordare che è un assassino lui stesso!" si diceva.
Nemmeno nei pensieri riusciva a pronunciare il nome dell'individuo che le aveva rovinato la vita. Eppure, non le pareva una sensazione così brutta, in fondo. Si sentiva triste, certo, ma il cuore pulsava come non faceva da anni. Sembrava si fosse risvegliato da un lungo sonno.
"No! No!" continuava a ripetersi. "Lui ama un'altra donna! E ne ha uccise due! Non fare la stupida!"
«Cos'hai, mamma?»
Doveva aver fatto trasparire i suoi turbamenti sul viso, perché Veronica, afferratale la mano, la fissava preoccupata.
Lei le sorrise. «Niente, cara, niente. Spero che i nostri due paladini abbiano successo, tutto qua.»
La ragazzina non pareva convinta.
«Devo andare in bagno» aggiunse Dalila, distogliendo lo sguardo. Si alzò e si rinchiuse nel piccolo stanzino.
Si sedette sul water col gomito piantato sulla coscia e il viso nel palmo della mano, riflettendo.
"Come può un uomo così dolce aver fatto quello che ha fatto?"
Un leggero velo di lacrima affiorò nei suoi occhi.
"Idiota che sei! Neppure lo conosci! Sei patetica!"
Si asciugò gli occhi con un dito e fu in quel momento che vide un uomo passare nel prato, davanti alla finestra del bagno. Fu un flash, ma bastò per mozzarle il respiro in gola. L'aveva visto di sfuggita, ma aveva fatto in tempo a riconoscere chi fosse. Lo conosceva, lo conosceva bene! E se era lì, non aveva certo buone intenzioni.
Si pulì in fretta e furia e uscì dal bagno mentre ancora si stava tirando su i pantaloni.
Marta, seduta al tavolo vicino al camino, canticchiava e colorava serena, com'era sempre stata da quando i suoi piedini avevano toccato la ghiaia dei "Ginepri". Quando la porta si spalancò di colpo, sollevò la testa e, con tutto il candore che traspariva dalla sua infantile ingenuità, salutò l'ometto che era comparso sulla soglia.
«Ciao, piccolina!» rispose Bito, sottovoce, accennando un sorrisetto maligno e accostando l'indice destro alle labbra.
Marta, un po' stupita, si mise la mano sulla bocca, emettendo un candido risolino.
Ma quando Bito si avvicinò e la sollevò di forza per un braccio, tutto il divertente stupore cessò di colpo e si tramutò in terrore.
Come naturale conseguenza, la bambina cacciò un urlo.
Veronica e Laura si trovavano nel cucinotto, intente a lavare le stoviglie usate per la colazione, quando accaddero tante cose, quasi tutte in contemporanea.
Dalila comparve sulla soglia del bagno con le braghe sulle cosce, cercando di correre mentre provava a rivestirsi.
«È qui, Veronica! È qui!»
La ragazzina non fece in tempo a focalizzare la situazione quando dalla stanza d'ingresso giunse l'urlo di Marta.
«Mio Dio! Che succede?»
Laura, con le mani ancora gocciolanti, si mosse verso la sala, anticipando Veronica e Dalila ancora alle prese coi propri pantaloni.
«E tu chi cazzo sei?»
La voce di Giancarlo arrivò, forte e potente come al solito, ma tremante di paura.
Le tre donne si affacciarono sulla soglia.
Un piccolo ometto era fermo, vicino al tavolo; teneva stretta tra le braccia la piccola Marta in lacrime; tremava come una foglia.
Giancarlo era in piedi, addossato contro la credenza, dall'altro lato del tavolo.
«Fermi tutti dove siete, o la friggo!»
Si voltò e sorrise a Veronica e Dalila. «Ma guarda chi si rivede! Contente di rivedermi?»
«Bito, stai calmo! La bambina non c'entra nulla!» parlò Dalila, cercando di mettere tutta la poca dolcezza che riusciva a generare, nel tono della sua voce.
«Taci, tu! La bambina sarà la mia polizza assicurativa!»
«Tu... conosci questo individuo?» chiese Giancarlo, senza distogliere gli occhi da lui.
«È il tizio della capanna» intervenne Veronica, abbastanza tranquilla, vista la situazione.
«Pezzo di merda, figlio di put...»
«Oh, oh! Muto, vecchio lardone! Ho io il coltello dalla parte del manico, direi.»
Nella mente di Giancarlo si compose l'immagine del fucile che Dalila e Veronica avevano sottratto proprio a quel tizio, appoggiato sul comò della sua camera da letto, al piano di sopra.
"Idiota!" pensò il vecchio. "Che cazzo serve, lassù?"
«Non sembri molto armato» aggiunse poi.
Bito sorrise. Allungò il braccio sinistro, rivolgendolo contro l'estremità del tavolo. Un raggio, misto arancione e rosso, uscì dal palmo e polverizzò all'istante il legno, riducendolo in un mucchietto di polvere. Il lungo tavolone, privato all'improvviso di due gambe, si rovesciò, spezzandosi nello schianto. Tutti si coprirono d'istinto il viso; Giancarlo, il più vicino, si girò dall'altra parte.
«Quindi? Ti sembro armato, ora?»
«Ti sei alleato con quell'individuo?» ruggì Veronica. «È qui per distruggerci!»
«Appunto, meglio stare dalla sua parte, allora!»
«Codardo! Cosa credi che farà di te, quando tutto sarà finito?»
«Ora basta...»
«Cosa vuoi?» chiese Dalila, facendo un passo avanti.
«Due cosette! Primo, le chiavi di quella macchina nera, parcheggiata lì fuori...»
Accompagnò le parole con il gesto di lanciargliele, tramite la stessa mano che aveva appena usato per la dimostrazione.
«E perché le vorresti?»
Giancarlo sembrava deciso a opporgli una minima resistenza, almeno a parole. Aveva scorto di sfuggita qualcosa dietro di lui, nell'altra stanza, o così gli era parso. Doveva guadagnare tempo!
«Non fai tu le domande, qui. Su, lanciale. Ce le hai tu, vecchio?»
Così dicendo accostò il palmo alla tempia di Marta che ancora piangeva e tremava.
«NO!!!» strillò Laura.
«Ok, ok! Non far del male alla piccola, ti prego!»
«Allora, tira! E ti consiglio di lanciarle per bene, in modo che le prenda al volo. Se cadono vedrai questi bei riccioloni ridotti in polvere.»
Sia le chiavi della SAAB che della Polo di Roberto erano state messe in un piattino sulla credenza. Giancarlo si girò, recuperò quelle giuste e, con cautela, le lanciò, cercando di fare più delicatamente possibile. Il mazzo atterrò nella mano di Bito.
«Molto bene!» disse, infilandosele in tasca. «Ora, la seconda cosa.»
Sorrise e strinse un po' di più la presa su Marta che emise un acuto strilletto. «Silenzio!»
Alzò la mano libera, stretta a pugno, da cui sollevò l'indice puntato, inesorabile, senza ombra di dubbio, verso Veronica.
Dalila guardò il dito, guardò la sua ragazza e, senza pensarci, si frappose tra i due.
«Te lo puoi scordare!» disse, con una voce ringhiante che non sembrava appartenerle.
«Quindi non mi ami?» chiese Camilla, senza indugio, non appena il rumore dell'auto svanì dalle loro orecchie.
Andrea, in piedi davanti alla finestra, voltò appena la testa verso di lei, per poi tornare a fissare la collina di fronte, senza realmente guardarla.
«Sono confuso...»
«Stanotte, quando mi hai detto che mi amavi, non sembravi confuso.»
Le tremava la voce, nonostante cercasse di nasconderlo; per gli occhi, invece, non era riuscita a fare niente e due righe di lacrime le stavano solcando le guance. Andrea non poteva e non voleva guardarla; le aveva spezzato il cuore, era ovvio, e si sentiva un verme. La voce di sua mamma rimbombava nella sua testa. "Alla tua prima, vera esperienza amorosa già combini questi casini! Non prometti molto bene, ragazzo mio!"
«Guardami, Andrea. Ti prego!»
Controvoglia si girò.
«Se con la ragazzina è stato solo un bacio improvviso, non voluto, perso nel niente... Beh, lo capisco. Può succedere e ti perdono, sul serio. Ma se c'è qualcosa di più profondo... me lo devi dire adesso. Ti supplico. Io sono innamorata di te e se devo soffrire e provare a guarire, voglio cominciare prima possibile.»
Andrea rimase scosso da quelle parole, così lucide, così penetranti. Aveva sempre saputo che "le donne maturano prima degli uomini". Era vero! Camilla era già più adulta di lui; sapeva con chiarezza cosa volesse e se ne assumeva le responsabilità. Era il momento, forse, che anche lui facesse quel passo.
«Ti chiedo scusa. Non ho mai saputo cosa volesse dire "amare". Mi sono sempre chiesto cosa significasse "essere innamorati". Adesso l'ho capito, grazie a te.»
Un accenno di sorriso comparve sul volto di Camilla, ma lui, proprio nel momento in cui Bito si stava intrufolando all'interno della casa, lo smorzò subito.
«Amo Veronica, credo dalla prima volta in cui l'ho vista. Anche se, all'epoca, era ancora una bambina...»
L'urlo di Marta giunse da sotto, ignaro della porta della loro camera chiusa. S'insinuò nelle orecchie, tra le loro parole, tra i loro pensieri, come un pugno nello stomaco.
«Che succede?»
Andrea si voltò di scatto e corse alla porta, mentre Camilla, colpita più duramente dalle sue parole che dall'urlo, rimase seduta sul letto, lo stesso letto sul quale aveva creduto, in modo troppo serio, d'aver trovato l'amore della sua vita. Aveva lo sguardo perso nel vuoto.
"Lui la ama! Questa è la verità, dunque." pensava. "È solo una stupida ragazzina!"
«Camilla!» Andrea la stava scuotendo per un braccio. Lei girò la testa, di soprassalto.
«Ti ho chiamata tre volte! Che ti prende?»
La ragazza avrebbe voluto rispondere in modo appropriato a quella domanda idiota, ma si accorse che lui sapeva già cosa le fosse preso.
«Vieni.» aggiunse subito Andrea, imbarazzato. «Succede qualcosa giù.»
La sala del camino, sotto di loro, era vuota, ma delle voci giungevano dalla sala da pranzo, tutte conosciute, tranne una.
Andrea cominciò a scendere lentamente le scale, facendo cenno a Camilla di seguirlo in silenzio. La ragazza ebbe, per un solo brevissimo istante, la tentazione fortissima di spingerlo con violenza giù per la ripida rampa e scoprì con orrore, nell'attimo in cui si impose di smettere di fare la stupida, che si stava già guardando le mani.
La discussione, dabbasso, si stava accendendo. All'improvviso un bagliore rossastro uscì dalla porta e uno schianto secco saettò per ogni angolo della casa. Sia Andrea, sia Camilla, per la sorpresa, si fermarono, ancora e metà scala, appoggiandosi con la schiena al muro.
«Ma che succede?» bisbigliò il ragazzo. Lei alzò le spalle. Poi ripresero a scendere.
Passata la paura per la sorpresa iniziale, Andrea cominciò ad ascoltare e capire il dialogo che stava avvenendo. La voce sconosciuta apparteneva a qualcuno che esigeva due cose e, la prima, erano le chiavi della SAAB.
Erano giunti, intanto, in fondo. Sempre nel più totale silenzio, Andrea sporse appena la testa, per farsi un quadro della situazione.
Vide l'individuo, di spalle alla porta, tenere stretta con un braccio Marta. Giancarlo era di fronte, al di là del tavolo spezzato in due. Non gli pareva di aver visto armi in mano all'uomo.
"Ma allora con cosa caspita ha sparato?" si stava chiedendo.
Appoggiato al muro, con i piedi sull'ultimo scalino, rifletteva. Non aveva visto le donne, ma sapeva che c'erano, perché ne aveva sentito le voci.
«Che facciamo?» bisbigliò Camilla.
«Te lo puoi scordare!» La voce di Dalila ruggì fino a loro.
«Io mi butto su di lui. Tu afferra Marta, poi correte subito in camera a nascondervi.»
«Ma...» Camilla non fece in tempo a controbattere, Andrea si era già mosso.
«Non ti conviene metterti in mezzo, str... AARGH!»
Andrea aveva stretto il braccio attorno al collo di Bito, tirandolo verso di sé con uno strattone.
«Bel colpo, ragazzo!» gracchiò felice Giancarlo.
Per la sorpresa l'uomo mollò la presa su Marta che, inebetita, rimase immobile nello stesso punto. Camilla entrò correndo.
«Vieni, piccola!» disse, prendendola per la mano.
Bito, riavutosi in fretta e sentendo entrambe le mani libere, sparò i raggi, senza vedere a cosa mirasse.
Quello sinistro centrò la finestra alla destra di Giancarlo, facendola esplodere in mille pezzi. Sia il vecchio che Laura si accucciarono per ripararsi dalle schegge.
Quello destro, invece, si infranse contro il muro, facendolo esplodere nel punto colpito, e portandosi via anche un pezzo della scala al di là.
Nella sua corsa il raggio sfiorò la spalla di Camilla che, urlando, lasciò la mano di Marta. Preso alla sprovvista, Andrea mollò la presa.
«CAMILLA!» gridò.
Bito si girò verso il ragazzo, ma un intenso calore gli avvolse d'improvviso la spina dorsale e, d'istinto, si voltò di nuovo. La ragazzina dai capelli di rame stava per affondare le sue mani su di lui, ma stavolta fu più veloce. Il potere datogli da Ismel l'aveva in qualche modo avvisato ma, chissà come, si erano risvegliate anche le vecchie abitudini umane. Senza pensarci nemmeno un millesimo di secondo, la colpì in piena faccia col dorso della mano, forte e bene come mai aveva colpito una donna. Veronica cadde a terra, sputando sangue. Il compiacimento e la soddisfazione, seppur istantanei, distrassero Bito che non vide avanzare la donna, nonostante fosse sempre stata di fronte a lui.
«Pezzo di merda!» gli sputò contro Dalila, sferrandogli un calcio nelle palle.
Bito cadde all'indietro, atterrando dove, solo un secondo prima, si trovava Andrea, appena rialzatosi. Dalila afferrò una sedia.
«Stronzo! L'altra volta non ti ho ammazzato solo perché la mia ragazza mi ha implorato di non farlo. Ma stavolta non ci sarà...»
Il raggio la colpì in pieno petto, passando da parte a parte.
Dalila volò all'indietro, atterrando all'interno del cucinotto; urtò una mensola con la schiena, rimbalzò contro il muro e rimase immobile a terra.
Un coro di grida si levò nella sala. Veronica impietrita, era incapace di decidere se stesse sognando oppure no.
Vide Andrea, alla sua sinistra, tentare di sferrare un calcio a Bito, ma l'uomo si scansò, rialzandosi sofferente con una mano in mezzo alle gambe. Lo vide allungare l'altro braccio contro di lui, contro il ragazzo che da sempre amava, quello stesso braccio che aveva appena ucciso la sua nuova mamma. Ma era vero? Era morta sul serio? Non poteva essere. Stava sognando, doveva per forza essere solo un bruttissimo e intenso sogno.
Tutto, davanti ai suoi occhi, si stava svolgendo al rallentatore, ma la furia che sentiva montarle dentro andava veloce, così come le lacrime. Quelle non ingannavano; dicevano la verità. Sua mamma era morta e la nuda, cruda verità era là, sdraiata nella cucina, immobile, con un buco fumante e sanguinante nel petto.
Si sentì ardere come mai in vita sua. Pensò che agli occhi degli altri dovesse apparire come una torcia umana, da quanto calore sentiva intorno. Intravide Bito fissarla spaventato e il suo braccio, ora tremante, non più puntato su Andrea, ma su di lei; percepì il raggio partire nel suo accecante bagliore rossastro. Chiuse gli occhi, ma non successe nulla. Poi, tutto tornò normale. Sentì le orecchie stapparsi, come succede quando si discende da una montagna e sentì urla echeggiare. Aprì gli occhi: qualcosa di grosso giaceva davanti a lei, grosso e immobile. Ci mise qualche secondo a capire. Era Giancarlo, sdraiato a terra con lo sguardo vitreo, fisso su di lei e un buco sfrigolante nello stomaco.
Bito, completamente fuori di sé, percependo la presenza di Ismel, silente e furibondo nella sua testa, approfittò dell'attimo di sconforto generale. Afferrò Marta, spinse lontano Andrea, catatonico davanti alla porta e, trascinando la piccola silenziosa, uscì fuori correndo, piegato in due dal dolore ai testicoli.
Si diresse verso la SAAB, cacciò la bambina dentro, salì e, sgommando in un enorme polverone, abbandonò i "Ginepri".
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