25 - LA PARTENZA (1)

«Poveretto!» disse Giancarlo con la voce incrinata. «Era legatissimo alla sua famiglia.»

Insieme a Roberto e Alberto stavano seppellendo il corpo di Flavio sotto a un albero, nel retro del casolare. Armati di vanga, scavavano e sudavano, mentre Andrea, Camilla e Veronica ripulivano il bagno dal sangue del pover'uomo. Dalila lavava i vassoi e le posate, mentre Laura aiutava Marta a lavarsi nel cortile davanti, cercando di rimanere evasiva alle domande insistenti della bambina, a cui avevano evitato di mostrare il cadavere.

«Era evidente che l'aveva presa molto male. Dovevamo stargli più vicini... Io, dovevo!»

Roberto picchiava con violenza la terra, visibilmente scosso.

«Siamo tutti scossi, Roby, chi più o chi meno. Non fartene una colpa; non puoi prevedere cosa frulli nella testa della gente. Flavio non stava bene... è vero. Ma si vedeva come si vede con me, o con te, o con Alberto, o con chiunque altro.»

Giancarlo diede due energiche vangate, rimuovendo un grosso blocco di terra.

«Siamo tutti pericolosamente sotto stress ed è faticoso già badare a sé stessi! Figuriamoci con gli altri... E poi, se lui aveva scelto di non voler affrontare l'enormità di tutta questa faccenda di merda, come avremmo potuto impedirglielo?»

«Beh, forse parlandogli, facendolo sfogare... Forse avremmo potuto...»

«Ma smettila!» sbuffò il vecchio. «Come puoi fare desistere uno che ha deciso di uccidersi. Riesci a immaginare il tormento, la disperazione che gli macinava dentro, per arrivare a considerare una tale decisione?»

Roberto, questa volta, rimase zitto.

Alberto ansimava, impegnato nel lavoro: la terra era dura e secca a causa dell'assenza di pioggia che perdurava ormai da quasi un mese. Aveva notato la facilità con cui quei due arrivavano spesso al battibecco, nonostante ci fosse rispetto reciproco, forse anche affetto. Questa volta Roberto aveva taciuto e la discussione non era decollata. Era evidente come pure lui la pensasse nello stesso modo di Giancarlo, nonostante i dubbi che aveva manifestato. Di suo, Alberto era pienamente d'accordo con il vecchio.

L'improvviso silenzio che si era creato gli diede l'occasione che aspettava. «Domattina, io e Roberto, partiamo.»

Giancarlo si fermò, asciugandosi la fronte, e rimase a contemplarli con la mano appoggiata sul manico della vanga.

«Dobbiamo trovare gli altri sei. Non si può più aspettare» continuò Alberto, riprendendo a scavare.

«Se ho capito bene, è una missione quasi impossibile» ribadì Giancarlo.

«È impossibile se non ci proviamo. Ma già tentando, qualche speranza l'abbiamo.»

Roberto ridacchiò.

«Siamo già a tre, comunque... e senza fare niente!»

Il vecchio alzò appena la testa e grugnì. «Sai bene cosa intendo!»

Alberto sorrise con amarezza. «Certo, Giancarlo, so che è una missione disperata. Per questo dobbiamo partire subito, fare tutto quello che possiamo e tornare alla svelta da Franco. Non sappiamo cos'ha in mente di fare quell'Ismel, una volta che avrà finito di fare... quello che sta facendo ora.»

«E se non li troviamo tutti?» chiese Roberto, detergendosi la fronte con il polso.

Alberto sbatteva la vanga nella terra smossa, con particolare violenza.

«Franco mi ha detto di tornare là con chi ho trovato, non appena mi rendo conto che di più non posso fare.»

«E poi?» Giancarlo lo fissava. «Lo combatterete?»

«L'idea è quella, se ci sarà ancora qualcuno da combattere o qualcosa per cui combattere!»

Roberto sentì un brivido correre giù per la schiena.

«Non conosciamo i suoi piani» continuò Alberto. «Potrebbe anche finire tutto tra qualche giorno e andarsene. A quel punto sarebbe tutto inutile. Ma se non ci proviamo nemmeno...»

Restarono in silenzio per qualche minuto, mentre continuavano a scavare.

«Diciamo che ce la facciamo...» riprese Roberto. «Li troviamo tutti, li convinciamo, andiamo da questo Franco, diventiamo non so come un'arma micidiale e facciamo saltare il culo a quello stronzo...»

«Detta così sembra ancora più facile da compiere questa missione!» ironizzò Giancarlo.

Roberto lo ignorò e proseguì. «C'è una qualche speranza a quel punto, di riavere tutte le persone che sono dentro a quelle dannate bolle?»

Alberto lo fissò, capendo in tutto e per tutto il dolore che ristagnava nel cuore di quell'uomo. Provava la stessa cosa anche lui, pensando a Francesca, anche se non sapeva realmente se fosse stata catturata.

«Non lo so, Rob, giuro. Ma me lo auguro di cuore.»

«Beh, se ci fosse anche solo la più minuscola delle possibilità di riportare la madre a mio figlio e il mio amore a me stesso, io voglio provarci.»

«Amen!» sentenziò Giancarlo. Roberto sbuffò.

Finirono di scavare la buca, vi adagiarono dentro il corpo avvolto in una coperta, e ricoprirono il tutto.

«C'è un'altra cosa, Giancarlo...» disse Alberto, titubante.

«Eh! Dimmi» rispose, mentre con la parte posteriore della vanga pareggiava il terreno.

«Dovreste trasferirvi tutti su all'FDS. Là sareste al sicuro e con i servizi che qua mancano.»

Giancarlo sorrise sotto i baffi. «Sapevo che l'avresti detto, sai?»

Sollevò lo sguardo su di lui.

«Come fa questo tizio ad avere servizi che ormai nessuno può più erogare?»

"Ecco che arriva la tempesta!" pensò Roberto che conosceva bene il tono ironico e di sfida che il vecchio assumeva quando qualcosa non lo sfagiolava.

«Se mi chiedi come fa "a livello tecnico", non te lo so dire. Ma quell'uomo è un genio e io mi fido ciecamente. È stato lui a farmi... a salvarmi.»

Stava per tradirsi, ma era riuscito a trattenersi in tempo. Guardò di sfuggita Roberto, che lo fissava con un'aria incuriosita, ma appena perplessa. D'un tratto, però, lo vide voltare la testa, scrutando l'oscurità giù per la collina.

«Cos'è? Avete sentito?»

Alberto seguì lo sguardo dell'amico, aggrottando la fronte, mentre Giancarlo proseguì, infervorato ormai nella discussione.

«Io invece, guarda un po', di de Simone non mi fido neanche un po'. È un bugiardo e un disonesto. Non ho intenzione di lasciare casa mia, tanto meno per andare nella sua!»

«Non è un disonesto! Come puoi... Aspetta! Vi conoscete?»

Alberto sgranò gli occhi, avvicinandosi.

«Sembra di sì! Vero, Giancarlo?» lo incalzò Roberto, mentre provava a penetrare l'oscurità, in cerca di qualcosa che, a quanto pareva, aveva sentito solo lui.

Giancarlo raccolse stizzito le vanghe posate a terra. «Se anche fosse? Non ho voglia di rivederlo. Se gli altri vogliono andare che facciano quello che vogliono. Io, non mi muovo da qui.»

«Avete finito?» Tutti trasalirono.

Dietro di loro era comparsa Laura e nessuno l'aveva sentita arrivare.

«Sì! Proprio ora.»

Giancarlo si scrollò un po' di terra da dosso con la mano che non teneva ferme le vanghe sulla spalla.

«Non pensate che ci vorrebbe una preghiera per accompagnare questa povera anima ai cancelli celesti?»

Alberto alzò gli occhi al cielo e si voltò verso Roberto che sorrise.

«Certo! Se ti fa piacere, dì pure» le rispose Giancarlo, dando un'occhiataccia ai due uomini. «Sempre che anche loro siano d'accordo...»

«Male non può fargli di sicuro» disse Roberto.

Alberto si limitò ad assentire con la testa; era stata una giornata molto lunga e difficile e non aveva né la forza, né la voglia di affrontare ulteriori, inutili discussioni.

«Signore, accogli la sua anima e dona a lui la pace e la serenità che aveva perduto in questa valle di lacrime. Fa' che possa rivedere i suoi cari e con loro gioire della Tua presenza e della Tua grandezza. L'eterno riposo dona a loro, o Signore, e splenda a essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen.»

«Amen!» rispose Giancarlo.

«Amen!» aggiunse Roberto dando una gomitata ad Alberto.

«Eh? Oh, amen, sì, amen.»

Laura gli lanciò uno sguardo più deluso che arrabbiato e sospirò.

«Buonanotte!» disse.

E senza aggiungere altro si avviò verso la casa, seguita da Giancarlo.

«Dovresti cercare di essere un po' più elastico, amico» disse Roberto, posandogli una mano sulla spalla.

«Con la religione faccio fatica. Ascolta, l'hai già detto a tuo figlio? Del nostro viaggio, intendo.»

Roberto sbuffò. «No! Lo farò domattina. Capirà.»

«Cos'hai sentito, prima?»

«Mah! Forse niente. Mi era parso di sentire, in lontananza... Ma devo aver sentito male.»

«Cosa, Roberto?» Alberto lo fissava, senza distogliere lo sguardo.

«Sembrava il motore di una motocicletta. Ma è altamente improbabile. Devo aver sentito male. Forse era qualche animale. Non c'è più nessuno in giro, l'abbiamo visto con i nostri occhi; e la natura si sta riprendendo i suoi spazi.»

Nella casa tutto era buio. Le poche candele accese erano state spente; tutti avevano finito i loro lavori, si erano lavati ed erano andati a dormire.

Alberto controllò l'ora sul display del telefono: era l'1:05.

«Sai, Franco mi ha detto che avrebbe provato a ripristinare le comunicazioni. Conoscendolo come lo conosco io, credo che ce la possa fare. Sono sempre in attesa di sentirlo squillare.»

«Non sarebbe male, in effetti. Potrei provare a chiamare mia mamma. Non sapere dov'è mi fa stare malissimo.»

Alberto annuì, ma non disse nulla.

Giunsero all'ingresso. Roberto aveva lasciato il suo letto a Laura e Marta, adattandosi al meno comodo divano che c'era sotto la scala. Alberto avrebbe dormito nella stalla, in un sacco a pelo fornitogli da Giancarlo.

«Beh, buonanotte. Domani inizia l'avventura!»

«Già! Speriamo bene.»

Si diedero la mano, una reciproca pacca sulla spalla e si salutarono.


Alberto aprì la porta ed entrò nella stalla immersa nel buio, richiudendo subito con il paletto. Non si era portato nessuna candela avendo, nel caso, la torcia del telefono a disposizione. Ma non l'accese subito.

Si spogliò con l'intenzione di darsi una veloce lavata e di sdraiarsi subito sul sacco a pelo, per concludere in fretta quella lunghissima ed estremamente intensa giornata. Era esausto per il viaggio, ma soprattutto per la miriade di emozioni (alcune anche piacevoli) che gli erano piovute sul capo, non ultima il suicidio di Flavio che, anche se l'aveva conosciuto solo poche ore prima, gli aveva lasciato dentro una certa dose d'inquietudine.

Gli mancava Francesca, da morire, ora più che mai. Se fosse stata lì, avrebbero senza dubbio fatto l'amore prima di dormire e quello sarebbe stato un modo migliore di concludere la giornata.

Si tolse le mutande, prese il telefono per illuminare il pavimento e si avviò verso la tanica che Giancarlo aveva lasciato per lui. Poteva lavarsi lì, mettendosi in un angolo, stando attento a non bagnare troppo.

«Com'è morto?»

La voce fendette il buio come una lama e, come una lama giunse alle sue orecchie, inviando un impulso talmente potente al suo cuore che lo sentì quasi scoppiare. Per poco non cacciò un urlo.

«Chi è?» chiese.

Un rumore secco e deciso risuonò alla sua destra, e la fioca luce di una candela si accese; la fiammella, tremolante, illuminava la figura di Dalila. Lo fissava con uno sguardo neutro, da cui non traspariva nessuna emozione, nemmeno il più lieve palpito che potesse indicare cosa stesse pensando. Era immobile e, illuminata da quell'impalpabile alone, pareva solo un brutto ritratto dipinto con colori spenti, abbandonato contro la parete.

«Dalila?» disse Alberto, riavutosi dallo spavento.

Lei si alzò e si avvicinò. Teneva la candela in avanti e lo scrutò tutto, dalla testa ai piedi. Resosi conto di essere nudo, prontamente si coprì con le mani.

«Quindi? Come è morto?» ripeté lei.

«Eh? Cosa dici? Di chi parli?»

«So che eri in una prigione quando hai ricevuto il tuo... dono. Eri con lui. Voglio sapere com'è morto.»

Gli occhi di Dalila erano piantati dritti nei suoi; ora traspariva qualcosa, qualcosa che assomigliava molto a rabbia e tristezza mescolate insieme. Alberto si mise a sedere sul sacco a pelo, incurante, a quel punto, che lei vedesse le sue nudità.

«Non capisco...»

«Dimmelo!»

Lui la fissò per un istante; era inutile far finta di non capire, tanto meno mentire. Per una ragione che non poteva conoscere, nemmeno se avesse provato a sforzarsi usando il 100% delle sue facoltà mentali, aveva capito che lei sapeva tutto. Sapeva da dove veniva e di conseguenza sapeva che aveva combinato qualcosa di brutto. E conosceva NC360, il suo amico.

«Sbranato da un orso!» rispose, infine.

Dalila non disse niente, ma Alberto avrebbe giurato d'aver visto una scintilla di soddisfazione brillarle negli occhi, seppure nella soffusa luce emanata da quella timida fiammella.

«Lo conoscevi?» aggiunse, poi.

«No! Ma lui si è fatto conoscere da me.»

Alberto non capì, ma prima che potesse nuovamente chiedere, Dalila parlò ancora. «Tu perché eri là?»

«Io...»

«Chi hai ucciso?»

Due grosse lacrime cominciarono a scendere dagli occhi di Alberto.

«Chi hai ucciso?» insisté lei.

«Cosa vuoi da me?»

Lei lo incalzò. «Dimmelo!»

Lui si ritrasse appena, spaventato dalla piccola ed esile figura inquietante alla luce di quella candela, che incombeva su di lui con decisione, tanto da apparire più grande di quello che era. Alberto, assassino e stupratore di due donne indifese, l'arrogante che rideva in faccia a tutto e tutti, non esisteva più. L'uomo di adesso era nudo, inerme, in totale balia di una donnetta che avrebbe potuto spezzare solo soffiandole contro, ma che invece, aveva pieno controllo su di lui. Agli occhi di un altro poteva parere la rappresentazione di un'anima perduta all'Inferno, sferzata dalle angherie di un demone, venuto a punire le colpe commesse in vita.

Abbassò lo sguardo e con un fil di voce rispose. «Due donne. Lo dirai agli altri?»

Lei appoggiò la candela sul pavimento e, con sua enorme sorpresa, cominciò ad accarezzarlo in mezzo alle gambe.

«Forse. Ma forse, no!»

Alberto si eccitò subito. «Sono innamorato di una donna.»

«E dov'è?» chiese lei, continuando a muovere su e giù la mano.

«Non lo so. Forse in una bolla.» Ansimava e, quasi senza volerlo, aveva steso le gambe in avanti.

Le bloccò la mano. Dalila alzò lo sguardo.

«Vuoi che racconti il tuo segreto?»

«Mi stai ricattando solo per scopare?»

Lei fermò la mano e lo fissò. Il suo viso, rischiarato ora di più, ora di meno, dal frenetico ondeggiare della fiamma della candela, pareva quasi distorcersi davanti a lui. Alberto scorgeva timidi accenni di sorriso che venivano subito risucchiati nella consueta serietà che caratterizzava il volto di quella donna, almeno per quelle poche volte che l'aveva visto da quando l'aveva conosciuta. Ma capì subito che erano solo i riflessi della luce che scherzavano nell'oscurità. Dalila lo fissava seria, senza far trasparire la benché minima emozione, e tutto sarebbe stato anche abbastanza normale...

"Se solo non stesse tenendo stretto il mio uccello nella sua mano!" pensò, con un misto di imbarazzo ed esaltazione.

«Ne ho bisogno» disse, come se le stesse chiedendo in prestito un libro da leggere. «È tanto che non lo faccio.»

Si alzò, e senza attendere nessun'altra frase da lui, si calò i pantaloni e si sfilò la maglietta. Aveva due seni molto piccoli, ma i capezzoli erano lunghi e turgidi. Si tolse le mutandine, rivelando un piccolo ciuffetto di peli. Lo fece sdraiare e gli montò sopra.

«Cosa ti ha fatto... lui?» chiese Alberto, mentre le scivolava dentro.

«Non te lo voglio dire, adesso.»

«Sai come si chiamava?» gemette lui.

Dalila si fermò e lo fissò. «Non pronuncerò mai quel nome!»

Poi riprese a cavalcarlo.

Un pensiero fulmineo attraversò la mente di Alberto.

"Deve aver commesso delle cose veramente atroci quell'uomo, se nessuno, nemmeno lui stesso, si azzarda mai a pronunciare il nome!"

Nemmeno in quel momento, dal volto della donna, traspariva qualcosa. Non gli staccò mai gli occhi di dosso, tenendo sempre la stessa, neutra espressione.

All'inizio Alberto pensò che non le stesse piacendo e lui stesso cominciò a sentirsi piuttosto a disagio, cosa che non gli era mai successa. L'aveva trovata bruttina come femmina, sin dal primo sguardo, e anche adesso lo pensava. Ma la sensazione di disagio si dissolse in fretta; quello sguardo, quasi di ghiaccio, puntato fisso su di lui, cominciò a eccitarlo sempre più; sentiva l'orgasmo avvicinarsi a grandissime falcate. Aveva sempre odiato venire prima della sua partner e di rado era capitato, ma stavolta era tutto diverso: era lei a comandare, era lei a muoversi e lui doveva stare al suo gioco. Avrebbe voluto dirle di rallentare, ma la sua bocca gemeva e null'altro.

Poi, successe tutto in un lampo. Vide Dalila chiudere gli occhi e trarre un profondo respiro. Come mosse da uno spirito invisibile, le mani di Alberto si appoggiarono sui suoi capezzoli, duri. Uscì da lei appena in tempo e si godette a pieno l'orgasmo.

Quando aprì gli occhi lei era già in piedi e si stava rivestendo. Lo fissava, come al solito senza nessuna reazione.


Il lunedì mattina, quasi quaranta ore dopo l'inizio dell'attacco di Ismel, un branco di daini si aggirava circospetto nel cortile anteriore dei "Ginepri", annusando diffidenti le tre auto parcheggiate davanti e avvicinandosi molto coraggiosamente ai muri del casolare.

Improvvisi rumori li allertarono subito, facendoli scappare giù per il pendio, verso la strada principale, sparendo tra gli alberi sottostanti.

Erano stati alcuni occupanti della casa, già in piedi nonostante fosse ancora presto.

Nello specifico Giancarlo e Dalila, bisognosi di un caffè a cui, però, dovettero rinunciare, vista la mancanza del gas. Rimediarono con qualche merendina confezionata e un po' di succo di frutta caldo.

Giancarlo aveva dormito poco e male; era rimasto parecchio scosso dal suicidio di Flavio ed era ancora innervosito dal finale che aveva assunto il dialogo con Roberto e Alberto. Dalila era la compagna ideale in quel momento. Dopo il "buongiorno" iniziale, si era seduta e aveva aperto la bocca solo per fare colazione.

Gli altri arrivarono alla spicciolata, ma nessuno aveva particolare voglia di fare conversazione.

L'umore si alzò decisamente quando scesero Laura e Marta, le ultime a svegliarsi. La bambina era di buonumore, felice di aver trovato un gruppo di persone con le quali riusciva a pensare meno alla famiglia che aveva perso. Appena entrata in sala abbracciò e baciò sulla guancia ogni singolo componente.

«Lo facevamo sempre a casa, ogni mattina» disse, con un sorriso. Ne parlava come se il suo papà e la sua mamma fossero solo partiti per una breve vacanza.

La cosa migliorò l'umore di tutti; persino Dalila mostrò i suoi denti, seppure per un attimo soltanto. Giancarlo, che voleva continuare a fare l'accigliato, grugnì scontroso quando la piccola lo baciò, quasi fosse scocciato. Ma quando lo abbracciò scoppiò in una sonora risata, ricambiando il gesto e facendo ridere anche gli altri.

Nonostante tutto quello che avevano passato, che stavano passando e sebbene si prospettasse un futuro tutt'altro che roseo e felice, bastava poco per scatenare una risata e restituire il buonumore a tutti: la solare spontaneità di una dolce bambina, ingenua nella sua sofferenza. Come era già successo la sera prima, Alberto sentì un calore ardere in lui e un timido accenno di lacrime comparve alla base degli occhi.

"Puoi distruggere le città, ma non riuscirai mai a distruggere tutto questo, pezzo di merda!" pensò, guardando quel gruppo di persone, a cui si stava affezionando in modo del tutto inaspettato. "Non riuscirai mai a spegnere il sorriso di una bambina!" Sì, era diventato decisamente un altro uomo, ormai ne era consapevole.

Ebbe, per un momento, l'impulso di raccontare la sua storia, da dove veniva e cosa aveva fatto. Ma non lo fece.

Rimase in silenzio e il calore si spense.

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