24 - LO SCACCHISTA (2)

I ricordi affioravano come fulmini in una tempesta; Francesca, seduta nella grotta con le ginocchia strette al petto, tremando, piangeva.


Aveva appena chiuso la comunicazione con lo zio quando lo schermo del suo telefonino era diventato viola e una voce inquietante ne era uscita.

Lo spavento improvviso gliel'aveva strappato di mano, facendolo cadere sul piano della scrivania. E da lì, quelle parole così taglienti, si erano sparse per tutto l'ufficio. Era certa che sarebbero suonate assurde e prive di significato per quasi tutti, ma non per lei, né per Franco e Monica, né per il suo Alberto, se le stava ascoltando.

Era corsa fuori dall'ufficio non appena il messaggio era finito, precipitandosi giù per le scale, proprio mentre le guardie stavano uscendo dallo spogliatoio. Erano fermi ai piedi della scalinata; Günther aveva lasciato vuota la guardiola per partecipare alla ridda di esclamazioni, commenti, imprecazioni e tutto quello che gli avvenimenti degli ultimi venti minuti circa, avevano prodotto negli animi di tutti. Francesca li aveva zittiti.

«Vi devo parlare. Io so cos'è successo.»

Aveva attaccato con la storia che le avevano raccontato suo zio e Alberto, sotto gli sguardi sempre più allibiti delle guardie. Aveva detto della venuta della sorella e stava raccontando del video del servo che aveva visto, quando dal cortile esterno era arrivato il forte rumore di una macchina, seguito dallo stridio acuto di freni. Qualcuno si era precipitato lì e stava bussando come un matto al portone.

«APRITE! PRESTO! CAZZO, APRITE!» Era la voce di Masotti. «Stanno arrivando!» aveva detto, appena entrato nella sala.

«Chi?»

«Sembrano uomini, ma non lo sono. Ti catturano! Ti infilano dentro a una specie di grande bolla! Dio mio! L'espressione... che ha la gente là dentro!»

Era totalmente fuori di sé e si faticava a capire cosa dicesse, tanto le frasi che sparava erano sconnesse e sovrapposte tra loro.

«Direttore, dobbiamo scappare! Nel bosco forse saremo al sicuro.»

Lei, l'unica che già sapeva, completamente stordita dalla paura, sentendosi come se fosse già stata rinchiusa in una di quelle bolle, era corsa all'uscita, incurante di avere addosso solo una maglietta, di non indossare il reggiseno e di essere a piedi nudi.

Gli altri le erano dietro, quando si era fermata proprio a fianco della guardiola.

«I prigionieri!» aveva detto.

Burci e Vignoli si erano guardati, stupefatti. «Direttore, stanno arrivando...»

«Non possiamo abbandonarli qui!»

«E Masi e... augh!»

Masotti aveva dato una gomitata a Karl, indicando Günther con la coda dell'occhio. Lui e il fratello René non si parlavano più da tempo ma, tutti d'accordo, avevano deciso di non rivelargli d'averlo imprigionato.

«Vi prego di andare a liberarli. Ve lo chiedo non come direttore, ma come persona e spero anche come amica.»

Le parole avevano avuto effetto, aiutate forse dallo sguardo di Francesca, carico di una sorta di terrore misto a dolcezza e incredulità, tale da farla sembrare una ragazzina spaventata che cerca riparo e protezione nelle persone vicine.

Burci e Vignoli avevano annuito e si erano avviati verso il sotterraneo, seguiti da Masotti. Karl e Günther erano rimasti fermi, indecisi su cosa fare.

Francesca era tornata sulla soglia del portone, decisa a lanciarsi verso il bosco e aveva visto, per la prima volta, le strisce arancioni in cielo.

Fu in quel preciso momento che qualcosa era spuntato in lontananza, volando sulle cime degli alberi e, reagendo d'istinto, era indietreggiata nuovamente all'interno della sala, chiudendo o, meglio, accostando il portone.

«NASCONDETEVI!» aveva urlato, senza nemmeno più sapere a chi, ed era andata ad appiattirsi dietro la scalinata.

Karl e Günther, colti alla sprovvista, erano rimasti in piedi a fianco della guardiola, quando il portone era esploso all'interno, colpendo di striscio la vetrata e finendo addosso a Günther, schiacciandolo a terra e uccidendolo sul colpo. Karl si era scostato in tempo, inciampando e finendo a terra.

La sentinella era entrata e l'aveva imprigionato nella bolla, senza nessuna esitazione.

Francesca guardava, impietrita dalla paura, incapace persino di pensare.

Dalla scala che portava alle prigioni stavano salendo Burci, Vignoli e Masotti, pistole alla mano, seguiti da un gruppo di uomini. Avevano sparato alla sentinella, ma i proiettili erano rimbalzati sul corpo con tintinnanti rumori metallici. L'uomo viola li aveva prontamente avvolti tutti e tre col suo raggio e trascinati a far compagnia a Karl che stava raspando disperato sulle pareti lisce, inconsistenti ma impenetrabili della bolla.

Il gruppo di prigionieri ne aveva approfittato per dirigersi verso l'uscita, ma la velocità dell'ospite inatteso aveva sopraffatto anche loro. Aveva creato una nuova bolla e ce li aveva sbattuti dentro.

In men che non si dica la sala era tornata deserta; Francesca cercava di appiattirsi ancora di più per non farsi scoprire, ma la sentinella, senza preoccuparsi di cercare qualcun altro, tenendo le due bolle sollevate da ambo i lati, aveva ripreso il volo, sparendo alla vista.


Gemette nel silenzio della grotta e Astra, dietro di lei, si mosse appena, emettendo un debole guaito.

Francesca le accarezzò il ventre mentre lacrime calde le scendevano sulle guance.

L'ultimo ricordo, le sue guardie, inermi dentro a quella bolla, portate via per sempre, le faceva male al cuore.


Era uscita di corsa dall'abbazia, evitando i vetri sparsi sul pavimento, aveva attraversato la ghiaia del cortile, senza badare al male che i ciottoli le procuravano alle piante dei piedi e si era inoltrata in mezzo agli alberi, senza meta, senza sapere cosa fare, ma con l'unico pensiero di allontanarsi il più possibile da quel posto, terrorizzata all'idea che quell'abominio potesse tornare.

Ricordava di essere inciampata nella corsa e quello era l'ultimo ricordo che aveva. Era diventato di colpo tutto nero nella sua testa, tranne sporadiche immagini di lupi intorno a lei, la sensazione di volare su un tappeto di peli, una lingua ruvida che grattava la sua faccia e tanto, tanto mal di testa.


Si alzò con attenzione, per non svegliare ulteriormente il dolore alle tempie e del tutto i lupi, e uscì alla luce della luna, frizionandosi le braccia per riscaldarsi. I piedi le facevano sempre più male. Doveva tornare subito all'abbazia per recuperare scarpe e indumenti; nonostante fosse uno dei giugni più caldi degli ultimi anni, la notte in montagna era sempre fredda. Fatto questo, avrebbe dovuto pensare a come raggiungere la valle dell'FDS.

Stava per incamminarsi, quando si sentì strattonare per la maglietta. Si voltò; Astra era lì che la scrutava, quasi a chiederle dove stesse andando. Francesca le prese il muso tra le mani, accarezzandola con dolcezza, ricambiata dal muso freddo e bagnato che si strofinava sulla sua guancia.

«Ho freddo! Devo tornare a prendere dei vestiti e delle scarpe.»

Aveva sempre parlato con lei, fin da quando era una tenerissima cucciola e sempre aveva avuto la sensazione che lei la capisse. Ora ne era sicura.

«E poi devo andare dallo zio. Non sono al sicuro, qui.»

Astra le leccò la mano, sintomo che aveva compreso e si incamminò, guardandola con l'espressione del "seguimi!".

Francesca le andò dietro con il cuore gonfio d'amore, sicura di quello che doveva essere successo il giorno prima. Era inciampata, aveva battuto la testa ed era svenuta. Il branco l'aveva trovata e trasportata nella tana e, in qualche modo, l'avevano accudita.

Attraversare il bosco di notte le aveva sempre fatto paura; in quel momento, nella situazione che si era creata attorno, ancora di più. Ma in compagnia della sua lupa si sentiva al sicuro.

In meno di mezz'ora giunsero davanti al cortile dell'abbazia. Astra spinse il muso contro la sua mano, gliela leccò, poi si girò e scomparve tra gli alberi.

Francesca, sicura che l'animale sarebbe rimasto con lei, precipitò subito nel panico, ma s'impose di restare calma e ragionare sul da farsi. Prima mossa, salire nel suo ufficio e recuperare scarpe e indumenti. Poi si sarebbe chiusa nel bagno, perdendosi nella soavità di una lunga doccia calda.

Attraversò il cortile, passando a fianco all'auto abbandonata da Masotti, e si avvicinò all'ingresso oscuro del penitenziario. La luce era spenta, tutto era immerso nell'oscurità. Tastò il muro per cercare l'interruttore, lo trovò e lo premette, ma le luci rimasero spente.

"Non c'è corrente." pensò sgomenta.

Si tenne alla larga dalla guardiola e dai vetri sparsi, ma più di tutto voleva evitare di toccare il corpo di Günther.

Facendo molta attenzione salì le scale e si diresse verso il suo ufficio, rimasto spalancato. Camminando a braccia in avanti raggiunse la scrivania e raccolse il telefono, rimasto dove l'aveva lasciato; pigiò il pulsante sul fianco pregando non si fosse scaricata la batteria. La luce dello schermo irruppe davanti e intorno a lei, mostrando le 4.20 di mattina; compose il numero di Alberto e provò a chiamare, ma il cellulare restò muto. Provò col numero dello zio, ottenendo lo stesso risultato. Avendo ancora più del 50% di carica, selezionò e avviò la torcia, ottenendo una luce più forte.

Uscì dall'ufficio e si chiuse nel bagno, con un senso di sollievo crescente. Si spogliò, espletò i suoi bisogni fisiologici, ma quando aprì il rubinetto, preparandosi ad accogliere il getto d'acqua calda, nemmeno una goccia toccò la sua pelle. La delusione, improvvisa, si mescolò con la disperazione che l'accompagnava dal risveglio, e la sensazione che ne seguì fu di sentirsi ancora più sporca di quel che era, acuendo in lei il bisogno di lavarsi.

Il mal di testa, trovando terreno fertile, intensificò i suoi colpi e Francesca cominciò a piangere.

Mestamente tornò in ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. Rimaneva solo una cosa che poteva fare, tra le cose che potevano aiutarla a recuperare un po' di energia, e la vista del suo letto, illuminato dalla torcia del telefono, riuscì a restituirle quel po' di conforto che la mancata doccia le aveva tolto. D'un tratto le arrivò tutta la stanchezza delle trenta o forse più ore passate sdraiata sulla terra dentro a una grotta.

Si buttò sul letto nuda, a pancia in giù e si addormentò all'istante, ignorando due cose.

La prima era che, solo la notte prima, in quello stesso letto, in quelle stesse lenzuola, aveva dormito, nudo anch'esso, l'amore della sua vita.

La seconda, che appena qualche minuto dopo aver chiuso gli occhi, un uomo viola era entrato nell'abbazia e si era diretto nei sotterranei, giù, nel profondo della montagna dove lei stessa aveva rinchiuso due uomini con l'idea di dimenticarli.

In effetti, da quando era cominciata l'invasione, non aveva dedicato a loro nemmeno un singolo pensiero.


Assorbire l'energia degli abitanti di quel pianeta potenziava Ismel, ma non solo: stava anche imparando. Per qualche motivo (che non aveva previsto), l'energia rossa, uscendo da ognuno di quei miserabili, si portava dietro tutte le conoscenze e i ricordi che albergavano in loro. Ismel assimilava tutto quasi con indifferenza; era venuto lì per il loro potere e non per scoprire come lo usavano. Ogni tanto però, qualcosa destava il suo interesse.

Il gioco che chiamavano "scacchi", a esempio, e la strategia che necessitava, lo colpì molto e lo incuriosì.

Se si fosse affrontata una partita senza un piano d'azione, la sconfitta sarebbe arrivata in fretta; fin dalla prima mossa bisognava sapere cosa fare, come far muovere i propri pezzi, sia in attacco che in difesa e, al momento giusto, colpire! E, se tutto andava come doveva, la vittoria arrivava. Proprio come stava facendo lui.

Aveva pianificato, si era preparato e aveva colpito. Non tutto era andato come aveva previsto, ma la sua vittoria non era in discussione. Il suo "scacco matto" sarebbe arrivato. Doveva solo predisporre le mosse successive.

Le sentinelle stavano tornando disponibili e, man mano che finivano la loro estrazione, Ismel ordinava loro di andare a cercare e recuperare i ribelli scampati al primo rastrellamento.

Ormai, in quasi tutto il mondo, l'erogazione dei servizi basilari si era interrotta e, senza, quegli esseri non potevano sopravvivere a lungo. Con pazienza i topolini sarebbero usciti dalle loro tane da soli.

C'era, però, l'altro problema, anzi, il solo problema, la scheggia nel dito imprevista. La fastidiosa presenza di sua sorella o, per meglio dire, del potere ingiustamente assegnatole, che viveva dentro ad alcuni di quegli umani. Quanti, non lo sapeva. Al momento erano quattro e tre di loro erano insieme. Da soli, forse, li poteva sconfiggere, ma riuniti... Sarebbe stato come affrontare lei e lei era più forte. Doveva quindi fare qualcosa.

Non poteva muoversi dalla palla finché l'estrazione era in corso; le sentinelle non potevano avvicinarsi a questi "portatori", come aveva potuto constatare già più di una volta. L'unica soluzione che restava era provare a lanciargli contro qualcuno della loro stessa specie e qualcuno aveva trovato, seguendo le tracce che loro stessi avevano lasciato. Avere molto potere, porta inevitabilmente ad avere anche molti nemici e loro, a quanto pareva, qualcuno lo avevano fatto arrabbiare.

Aveva letto le menti dei due scovati nelle segrete e pure di quel Bito; cosa era capitato e perché tutti e tre erano stati imprigionati, sebbene in modi diversi.

Ma non era questo che gli interessava; a lui importava cosa fossero disposti a fare per avere le loro vendette. I tre individui erano pieni d'odio e questo aspetto andava sfruttato.

Lo colpì soprattutto la cattiveria, il rancore avvinto al cuore di quello che si chiamava Masi, un concentrato di pura malvagità, senza scrupoli, senza rimorsi, dentro a un corpo forte e robusto. Non l'aveva trovato così quando la sentinella aveva scardinato la porta di quella cella ma, con i poteri che aveva adesso, per lui era stato un gioco da ragazzi rimetterlo in forma.

Il pensiero di trasformarli in tre nuove sentinelle l'aveva sfiorato, ma non era sicuro se, in quanto esseri umani, avrebbero potuto sopportare una massa maggiore di quell'energia così aggressiva, dentro di loro. Non voleva rischiare di perderli quando ancora potevano essere utili, per questo aveva limitato la quantità di potere elargitagli. Li aveva rimessi in forma, gli aveva dato la capacità di seguire le tracce lasciate dall'energia di sua sorella, come aveva fatto lui, e li aveva dotati di qualche "arma". Niente volo, anche se sarebbe stato comodo per gli spostamenti. A quel punto aveva fatto lo scacchista e aveva posizionato i pezzi.

Lette le menti di Masi e René, aveva scoperto tante cose interessanti.

L'uomo che cercava, l'ultimo acquisto della collezione "portatori di energia", era un assassino, prigioniero evaso da quella stessa abbazia. Era stato lì, fuori da quelle celle solo il giorno prima ed era innamorato di colei che li aveva incarcerati.

Dovevano trovarla. Quella donna poteva diventare molto utile in mano sua.

Era poi emersa la figura di un vecchio, la mente dietro l'evasione. Sapevano poco di lui, quindi le informazioni che Ismel ricavò risultarono scarne; eppure, aveva la sensazione che quell'uomo fosse pericoloso, e lui, in genere, dava retta ai suoi presentimenti, visto che venivano dalla "sua" energia.

Infine c'era Bito, quasi ucciso dalla ragazzina (con enorme soddisfazione, notò che aveva visto giusto! O meglio, l'energia rossa l'aveva fatto!).

Gli assegnò il compito di trovarla, sicuro di trovare anche l'omone: erano insieme, lui lo sapeva. L'aveva spedito subito a seguire le tracce, studiare la situazione e dare scacco matto.


Masi, seguito da René, sbucò nella sala buia dove per tanti anni aveva comandato.

Si sentiva forte, come mai nella sua vita.

I suoi ricordi più recenti erano fatti solo di buio e dolore; poi, all'improvviso, si era ritrovato a occhi aperti, con una sensazione piacevole addosso, un tepore delicato che pareva adagiato sul suo corpo come un velo. E, d'un tratto, il buio era diventato luce, il dolore era scomparso, la disperazione e l'umiliazione si erano tramutate in linfa vitale che sentiva scorrere nelle sue vene. Una voce aveva parlato nella sua testa, pulita, precisa; mai nessun suono udito lo era stato di più! In quella voce non c'era nessuna esitazione, nessun dubbio, nessun rimorso, niente di niente.

«Trovala!» aveva ordinato. «Portala da me! Incolume!"

«Fai luce» si rivolse a René.

Il corpo del tedesco s'illuminò di un fioco luccichio, rischiarando intorno quel tanto che bastava per vedere dove mettevano i piedi.

«Quali sono gli ordini, capitano?» chiese René. Il suo accento tedesco sembrava meno marcato.

«Silenzio! Sto riflettendo.»

L'ex guardiano abbassò la testa e fece un passo indietro.

Masi pensava. "Dove sarà quella puttana?".

Alzò la testa verso la balconata. «Andiamo nell'ufficio della Fontana. Dobbiamo scoprire dov'è in questo momento.»

«Pensa possa essere lì, mio signore?»

«No, sicuramente no. Ma forse possiamo trovare qualche indizio.»

Si avviò su per le scale, René subito dietro. La porta dell'ufficio era chiusa, ma non a chiave.

«Io cerco qui, tu va a vedere se trovi qualcosa nell'altra camera.»

Anche il corpo di Masi s'illuminò mentre si avvicinava alla scrivania e cominciava a frugare tra i fogli sparsi sul piano.

René si diresse alla porta della stanza, socchiusa, ed entrò.

«Capitano!» chiamò subito, ridacchiando. «Qualcosa ho trovato.»

Masi alzò la testa e lo raggiunse. Quello che vide lo lasciò senza fiato.


Il sonno profondo di Francesca fu dapprima infastidito da una leggera luce insinuata appena sotto le sue palpebre, poi fu disturbato da una voce che colpì i suoi timpani, rilassati fino a quel momento, nel più assoluto dei silenzi. Infine, fu interrotto da una nuova luce, più intensa, che come un piede di porco, le fece spalancare gli occhi, ancor prima del risveglio totale di tutti i suoi sensi.

Vide due aloni davanti a lei, con due figure nere nel mezzo che si ingrandivano sempre più, e suoni ovattati che giravano intorno, indecisi se entrare definitivamente nelle sue orecchie. Un dolore lancinante e improvviso sulla testa la risvegliò del tutto, e immagini e suoni piombarono in lei in tutta la loro terribile chiarezza, disegnandole all'istante nella mente la situazione in cui si trovava.

«Guarda, guarda che bella sorpresa!» le disse Masi, sollevandola per i capelli. «Proprio la puttana che cercavo, si fa trovare nuda su un letto!»

La fissava con i suoi occhietti neri, privi di emozione, se non un lascivo luccichio tremolante all'interno di quell'assurdo bagliore che emanava. Francesca, terrorizzata, urlò.

Il grido tagliò l'oscurità e il silenzio che impregnavano l'intera abbazia, come una lama rovente di coltello sopra a un panetto di burro. Corse giù per le scale, rimbalzò in ogni angolo della sala e uscì, svanendo tra gli alberi e nel cielo in un'eco strozzata.

Lo stesso Masi si sentì scisso in due parti e, solo per un istante, rimase pietrificato. Percepì una netta separazione dentro di lui: la devozione che aveva provato per la voce che gli aveva parlato, dal risveglio fino a quel momento, si spostò tutta su un lato, lasciando scoperte di novo le umiliazioni che quella donna gli aveva procurato in tutti quegli anni, e che si erano, a quanto pareva solo nascoste sotto la sua coltre.

All'improvviso il viso di Francesca sembrò trasfigurare davanti ai suoi occhi, assumendo i contorni di sua madre, della sua odiata madre, che lo fissava come l'aveva sempre guardato, con l'espressione disgustata di chi osserva un qualcosa che gli procura solo ed esclusivamente nausea. Gli parve di sentirla parlare, ma le parole non uscivano dalla bocca della Fontana; un'insopportabile eco cominciò a ronzare nella sua testa.

"So cosa vuoi fare, stronzo! I tuoi occhi non mentono... I tuoi occhi non mentono... I tuoi occ..."

Una furia cieca si impossessò di lui e, caricando il braccio più forte che poteva, la colpì, spaccandole il labbro superiore che schizzò alcune gocce di sangue sulle lenzuola.

René, alle sue spalle, ridacchiò. Masi si alzò.

«Sulla porta a far da guardia!» gli ordinò, mentre si sbottonava i pantaloni.

«Ora mi prendo quello che non hai mai voluto darmi, sgualdrina!» le disse, sputando bava dalla bocca e ignorando una lontana e fastidiosa voce che, come una lontana eco, riecheggiava nel suo cervello.

Francesca, tramortita dallo schiaffo, giaceva a pancia in su. Masi, con i pantaloni a metà gamba, le allargò le cosce, mentre saliva sul letto.

«Dopodiché andrò a trovare anche il tuo caro zietto, e lo ucciderò senza pietà!»

«No, no» provò a mormorare lei, ma fu colpita di nuovo, stavolta appena sotto l'occhio sinistro.

«Stai ferma, puttana! Tanto lo so che ti piace!»

Un ululato risuonò nell'ufficio accanto e Masi, sorpreso, si girò appena in tempo per vedere René atterrato da un grosso lupo, piombatogli addosso da dietro. Senza nemmeno avere il tempo di capire cosa stesse accadendo, un altro lupo, completamente bianco, aggirò il tedesco e si avventò su di lui. Masi alzò un braccio d'istinto e la bestia l'azzannò, facendolo gridare e trascinandolo giù dal letto.

Nel frattempo, René, riuscito a cadere su un fianco, si era girato e aveva afferrato il lupo per il collo, trovandosi le zanne a pochi centimetri dalla faccia. Aveva provato ad alzare l'altro braccio per colpirlo ma, forse solo per caso, l'animale gliel'aveva atterrato con la zampa, graffiandolo con gli artigli.

Masi sbraitò di rabbia e di dolore mentre cercava di divincolarsi dalla presa di Astra e colpì con un pugno il fianco del lupo che guaì, liberandogli il braccio. Provò ad alzarsi, ma fu nuovamente atterrato, sbattendo la schiena contro il comodino. La lampada cadde a terra, fracassandosi.

Il lupo ringhiò al suo indirizzo e piegò le zampe posteriori, pronto a sferrare l'attacco decisivo.


Francesca rimase sbalordita quando vide Astra piombare su Masi. Tirò indietro le gambe e si appoggiò violentemente contro la testata del letto.

La luce emanata da quei due uomini sembrava più intensa mentre combattevano con gli animali e la stanza era illuminata, quasi fosse giorno. Sentì il rumore di vetri rotti e vide Masi dolorante contro al comodino, toccarsi la schiena col viso deformato dalla rabbia.

«Astra! A cuccia!» lo sentì gridare.

Ma la lupa sferrò l'attacco e gli saltò addosso, azzannandogli una spalla. L'uomo urlò, cercando di spingerla lontano con l'altro braccio.

"Non avrò un'altra occasione così." pensò Francesca.

Saltò giù dal letto e, solo per un istante, incrociò lo sguardo della sua cucciola. Astra mollò la presa della spalla e le abbaiò contro.

«Corri! Scappa!» le stava gridando in quel momento.

«Ti voglio bene, Astra.» disse lei, scandendo ogni singola parola.

Tutto si svolse nel giro di un paio di secondi, ma bastarono a Masi per alzare la mano destra e puntarla sul fianco del lupo. Un raggio rosso uscì, colpendola in pieno e facendola volare contro all'altro lupo che lottava ancora con René.

«NOOO!» urlò Francesca, ferma quasi sulla soglia della camera.

Astra era immobile, con un enorme buco nella pancia e il pelo tutt'intorno annerito.

«ASTRA!»

Era in lacrime e fece per avvicinarsi quando l'altro lupo, caduto di fianco al suo capobranco, le abbaiò contro.

Francesca capì. Vide Masi che, tenendosi la spalla sanguinante, cercava di rialzarsi. René invece era ancora sdraiato, sanguinando pure lui.

Corse fuori dalla stanza, fuori dall'ufficio. Scese al buio le scale, cercando di non inciampare e uscì nel cortile, dove il freddo la colpì all'istante come gli schiaffi di Masi. Sentendo i ciottoli del ghiaiato premere con dolore contro le piante dei piedi, corse verso l'auto di Masotti, pregando avesse lasciato le chiavi nel quadro. Fu esaudita. Mise in moto e, sgommando, fece inversione, lasciando l'abbazia.

Guidò per dieci minuti in preda al panico e alla disperazione più totale, veloce, senza guardare mai indietro e, quasi nemmeno, avanti, infilandosi per stradine a caso.

La sua Astra era morta! La sua cucciola, il suo amore. Tutti i momenti passati con lei le scorrevano davanti agli occhi pieni di lacrime, intervallati dalle immagini della faccia di Masi, deformata dall'odio e dalla lussuria, chinato sopra di lei mentre le allargava le cosce.

Faticava a vedere la strada, così fermò la macchina, la spense, si prese la faccia tra le mani e si sfogò. Le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi, bruciando sulla ferita nel labbro, e spargendo l'amaro sulla lingua, come intrise di tutte le brutture che aveva appena passato.

Quando le parve di essersi un po' calmata cercò di ragionare.

Aprì gli occhi, se li strofinò appena e si guardò attorno. Scoppiò a ridere, e rise come mai in vita sua. Si era ricordata solo in quel momento di essere fuggita e di aver guidato fino lì completamente nuda, dalla testa ai piedi. Era tornata all'abbazia in maglietta e pantaloncini, infreddolita come non mai, con l'intento di recuperare vestiti più pesanti per le notti alpine, e un paio di scarpe per proteggersi i piedi. Ma l'incredibile successione di eventi che erano capitati, avevano fatto sì che lasciasse la sua casa ancora più in difficoltà.

La situazione era certo delle più critiche: nel contesto di un mondo che stava finendo, con un pazzo che sguinzagliava in giro uomini volanti, con vecchi nemici che volevano stuprarla e ammazzarla, lei si ritrovava all'interno di una macchina non sua, in una strada, sperduta al buio in mezzo a un bosco, tumefatta in viso e tutta nuda. Per non parlare dell'afflizione che l'avvolgeva per la morte di Astra. Ma, dopo tante lacrime, adesso sentiva l'impulso di ridere, anche se in modo isterico.

Il labbro colpito dalla pesante mano di Masi si stava gonfiando e sentiva un dolore sordo sotto l'occhio sinistro. Doveva andare in un luogo sicuro in cui trovare dei vestiti e un modo per raggiungere al più presto lo zio che, a quel punto, rischiava di essere in pericolo.

«Beh! C'è solo un posto in cui posso andare!» disse e, rabbrividendo, accese il riscaldamento dell'auto.

Rimise in moto l'auto, cercò di capire dove si trovasse, poi schiacciò l'acceleratore.


Ismel era furibondo e incredulo!

Aveva dato un ordine a uno di quegli esserini piccoli e patetici, creati da un patetico rigurgito di energia del suo mondo; eppure, l'ordine non era stato eseguito! E mentre lo infrangeva, quel Masi continuava a ignorare in tutta tranquillità i suoi tentativi di rimetterlo sulla via giusta.

Lo ignorava! E lo stesso il debole René, a cui aveva ordinato di obbedire all'uomo. Qui finiva la rabbia e iniziava l'incredulità.

Come riuscivano a ignorare un suo ordine? Gli aveva conferito un potere che comprendeva la totale servitù nei suoi confronti. O almeno, così Ismel credeva.

Ma la vista di quella donna nuda, portatrice di tutte le umiliazioni, dei ricordi dolorosi, di passioni non soddisfatte, di un orgoglio desideroso di trionfare ma fatto a pezzi, letteralmente ridotto a brandelli, avevano risvegliato il vecchio Masi, sepolto in quello che lui credeva di aver creato.

Capiva ora, del tutto, d'aver sottovalutato quel pianeta. L'energia rossa cacciata da suo padre, il pezzo di potere geloso che aveva provato a sopraffare e a imporsi sul potere supremo, costretto a vagare per milioni di anni nell'Universo, aveva prodotto un mondo in cui si fondevano perfettamente l'amore e l'odio, la felicità e la tristezza, la comprensione e l'egoismo, e tutto il malloppo aveva attecchito così alle radici negli animi di quegli individui, che risultava molto difficile, se non impossibile, estirparlo. Per questo motivo l'estrazione risultava lenta e complessa; per questo motivo l'enorme potere lasciato da sua sorella non li aveva annientati e nemmeno fatti impazzire ma, anzi, pareva addirittura ignorassero di averlo. Per questo Masi, appena un po' provocato, aveva dato sfogo al suo io più nascosto e più bestiale. E la donna era scappata. La reazione dell'uomo l'aveva terrorizzata, aveva urlato, l'urlo aveva attirato i due lupi che si aggiravano lì intorno. E lei era scappata!

Ismel aveva ripreso subito le redini in mano; appena la donna era sparita, la furia di Masi si era placata quel tanto per permettergli di ricontrollarlo.

«La seguiamo?» aveva chiesto, come se per lui non fosse successo nulla.

«No! Andate dal vecchio! Raggiungete quel Franco, prima possibile, e portatelo da me. Non fategli del male, chiaro?» aveva detto a entrambi.

Voleva spedire una sentinella a cercare la donna, ma non ne aveva di disponibili nei paraggi e poi gli pareva uno spreco usarne una solo per una insignificante donnicciola.

Possedere la donna di uno dei portatori sarebbe stato un gran bel colpo, ma non era fondamentale. Ci avrebbe pensato più avanti. In questo momento voleva il vecchio. Dovevano consegnarglielo e forse lui avrebbe scordato la grande cazzata che avevano combinato.

"Comincio a parlare pure come loro!" pensò, allibito.


«Ci serviamo nuovamente della "Vetta del Lupo", capitano?» chiese René, mentre ancora guardava il corpo del lupo grigio, giacere morto a fianco di quello bianco.

Masi si sentiva inquieto. Non per lo scontro con Astra, né per il fatto che la Fontana gli fosse sfuggita di mano. Era rimasto parecchio turbato dalla visione di sua madre, comparsa davanti ai suoi occhi con quegli occhi iniettati d'odio che sempre aveva riservato al suo amato figlio, e dalle parole che ancora raschiavano le pareti interne della sua testa; non pensava a lei da molto tempo, anzi, si poteva dire che l'aveva del tutto cancellata dalla sua vita, e il rivederla non era stato per nulla piacevole. La presenza dell'alieno, dentro di lui, doveva aver smosso il fondo più profondo dei suoi ricordi più dolorosi, ed era quasi comico che fosse lei, e non il padre, la presenza che si era rivelata. Lui l'aveva picchiato spesso, facendogli male, a volte molto male, ma la violenza che sua madre gli riversava addosso, era sempre stata qualcosa di diverso, di meno fisico (molto meno, visto che raramente lei l'aveva toccato), ma parecchio più angosciante agli occhi di un bambino.

«Per forza! Non abbiamo altro modo altrimenti di giungere in quel buco» rispose, cercando di scrollarsi di dosso quella sgradevole sensazione.

«Ci vogliono un paio d'ore d'auto per giungere all'inizio del sentiero e circa cinque per percorrerlo...» Lo guardava, preoccupato. «Lui ha detto che vuole il vecchio prima possibile.»

«E noi lo accontenteremo, cagasotto! Prendiamo l'auto di quegli stronzi che lavoravano qui e raggiungiamo quel sentiero. Tu ci sei già stato, sai dov'è! Ci vogliono cinque ore per scalarlo? Ce ne metteremo tre!»

«Il direttore potrebbe arrivare prima di noi e avvertirlo. Potrebbero nascondersi o scappare.»

Masi lo colpì, in pieno volto.

«E come può arrivare prima di noi? È fuggita nuda. Se tenta di scalare il sentiero senza niente addosso, morirà.» Sorrise. «Io credo che la puttana invece, cercherà un posticino caldo per ripararsi. La troverà lui. Tu, devi dare retta solo a me.»

«Va bene, capitano!»

«In marcia ora!» esclamò, con l'eco della voce della madre che andava dissolvendosi, dentro di lui.


L'ordine era di seguire la scia.

Subito Bito non aveva capito, ma appena aveva raggiunto la via Emilia aveva visto e aveva compreso. Sapeva dove si erano rintanati. Ricordava benissimo i dialoghi di quelle due stronze sul fatto di andare a rifugiarsi lassù, da qualche parte.

«La traccia che hanno lasciato ti porterà da loro. Non affrontare la ragazzina. Ti distruggerebbe, come ha quasi fatto l'altra volta.»

Bito ribolliva di rabbia ogni volta che ripensava a quello che era accaduto nella capanna.

«E nemmeno l'omone. È più debole di lei, ma comunque più forte di te.»

«Come faccio a catturarla allora, padrone?»

«Devi puntare sugli altri! Loro sono la chiave.»

«Ho capito!»

«Agisci solo quando il momento è propizio e, mi raccomando, non uccidere nessuno! Non deve essere sprecata altra energia.»

Ripensava a quelle parole, mentre fermava la moto in prossimità di un piccolo ponticello che portava a un parco, immerso nel buio, appena all'ingresso del Botteghino di Zocca. In quel punto la traccia, che durante il tragitto era leggermente sbiadita, formava una specie di pozza di luce, molto intensa. Era incredibile che potesse vederla solo lui, stando a quello che il suo padrone aveva detto. In lontananza scorse una grande bolla, seminascosta dagli alberi, in cui una palla rossa fluttuava sopra le teste abbandonate all'indietro.

La scia ripartiva dalla pozza, svoltando a destra per una delle stradine poco più avanti.

Bito diede gas, e imboccò la via che gli veniva segnalata.

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