22 - LA PORTA CHIUSA (1)

La mattina dopo la strage e la distruzione del centro di Bologna, quando il sole cominciò ad allungare i suoi raggi sull'oscurità della notte, il cielo si mostrò un po' velato di nubi grigie e una piacevole e fresca brezza soffiava tra le colline della Val di Zena. Nell'aria si annusava la timida promessa di pioggia, con la speranza fosse un acquazzone vero e proprio, di quelli che rinfrescano e allontanano i disagi dell'estate almeno per un po', e non un'inutile e leggera spruzzata d'acqua, capace solo di far aumentare l'umidità che già mordeva da settimane, in maniera piuttosto fastidiosa.

Ignaro e incurante di queste problematiche, un grosso cinghiale vagava tra i fitti rami di uno dei tanti boschetti della valle, avendo come unica e impellente preoccupazione quella di trovare del cibo. Non aveva una precisa meta, ma girava a caso, seguendo improvvisi e deboli odori che le sue narici percepivano nell'aria o nel terreno.

Quasi senza accorgersene si ritrovò con il muso contro lo sporco muro di una piccola costruzione immersa nella vegetazione per tre lati, annusando quello che pareva essere l'appetibile odore di qualche delicata gemma.

Giunto nella piccola e stretta radura davanti al quarto lato, un nuovo odore si fece largo nel naso dell'animale, qualcosa di più forte, di più pungente e, per il cinghiale, di più appetitoso. Nella sua mente si compose l'immagine di uno di quei topolini che, di tanto in tanto, non disdegnava.

Seguendo la scia si ritrovò, quasi senza volerlo, all'interno della piccola casa, umida e buia sebbene dalla porta aperta entrasse la tiepida luce del mattino. Grufolò un po' intorno, annusando ogni angolo per scovare l'origine di quel buon odorino; pareva fosse dappertutto, ma era molto più forte vicino a due grossi oggetti addossati a un muro di legno. Con gocce di bava che gli scendevano dalla bocca, il cinghiale stava provando quasi a scavare il pavimento col muso quando, con uno schianto secco, uno dei pannelli che componevano il muro si staccò e cadde a terra in un fragore assordante.

L'animale emise un terrorizzato e roco muggito gutturale, indietreggiò, fulminando la scena con occhi spalancati, si girò e, infilata la porta, si perse nel bosco.

Bito si guardò intorno, stringendo gli occhi infastiditi dalla tenue luce che penetrava nella stanza e lasciando cadere a terra la corda che lo legava. Si massaggiò le tempie che pulsavano dal dolore e cercò di scrocchiare schiena e collo, induriti dalla scomoda posizione che aveva dovuto tenere per ore. Si appoggiò al tavolo, incapace quasi di stare in piedi, tanto la testa gli martellava. Aveva due piccole piaghe sulle spalle, per fortuna non troppo estese, né troppo profonde, regalate dalle mani della ragazzina. La maglietta l'aveva riparato da un'ustione più grave, ma non dal dolore che, seppur lieve, lo infastidiva a ogni movimento delle braccia.

«Quelle due puttane! Me la pagheranno!» bofonchiò a labbra strette. Prima doveva però attenuare i dolori, soprattutto quello pulsante alla testa, e cercare di dormire un po' per recuperare le forze. Aveva bisogno di tornare a casa sua.

Si affacciò alla porta, emise uno stanco lamento quando la luce, diretta, gli infiocinò gli occhi; per alcuni secondi fu incapace di aprirli. Lentamente, sbirciando da sotto le palpebre, si rese conto che la sua Ford non c'era più.

«Cagne maledette! Anche la macchina si son prese.»

Era furibondo.

«Ma io so dove sono andate...» e sorrise, nonostante le tempie pulsassero sempre più forte.

Pensò alla moto, ma si rese conto in fretta che era sparita anche quella.

«Una delle due era una ragazzina. Come han fatto a portar via anche la moto?» si chiese.

Doveva per forza essere lì intorno, da qualche parte. Cominciò con fatica a guardare in giro.

«Che cazzo sto facendo? Ovvio che non l'hanno nascosta in mezzo a due cespugli!»

Si portò sulla strada principale e, d'istinto, controllò la piccola scarpata di fronte al sentiero. La moto era lì, incagliata tra la vegetazione, pochi metri sotto di lui.

«Bastarde!»

Impiegò quaranta minuti per tirarla fuori, graffiandosi più volte le braccia, imprecando come mai aveva fatto nella vita (e lui era uno che imprecava spesso) e maledicendo Dalila e Veronica con tutta la cattiveria di cui disponeva. Si sentiva la testa più grande del normale, come se fosse diventata un palloncino troppo gonfio e il dolore cominciava a procurargli un senso di nausea. Aveva sete, un disperato bisogno di tracannarsi un fiasco di vino rosso, ma nella capanna, in quel momento, c'erano solo bottiglie vuote.

Trasse un profondo respiro, senza però riuscire a provare piacere dalla brezza fresca che gli scendeva nei polmoni. Percepiva accenni di umidità nell'aria e a breve, era sicuro, sarebbe riesploso il solito caldo, nonostante il cielo promettesse pioggia.

Recuperò le chiavi della moto, appese a un chiodo nello stanzino e, con sorpresa, constatò che non avevano portato via la tanica piena di benzina.

«Stupide, oltre che baldracche!» disse, con un ghigno orripilante dipinto sul viso.

Svuotò la tanica nel serbatoio della moto, montò in sella e l'avviò, sperando che la caduta e la permanenza tra quei rami non avesse compromesso qualcosa. Il motore partì con un rombo scoppiettante che si sparse veloce tra i rami e i cespugli intorno; un paio di uccelli schizzarono in volo per lo spavento.

Le tempie di Bito pulsarono più forte, colpite dall'assordante rumore e lui se le strinse con le mani. Davanti ai suoi occhi fluttuava, invitante, l'immagine della scatolina di antidolorifico che lo attendeva dentro al mobile di casa sua, e in bocca gli si formò un po' di bava.

«Sempre che riesca ad arrivarci, a casa!» rifletté a voce alta, pensando a quei cosi volanti, a come era riuscito con fatica a sfuggirgli la prima volta, e a quello che facevano alle loro prede quando riuscivano a catturarle.

«Ma che cazzo me ne frega! In un modo o in un altro mi passa il mal di testa.»

Sputò a terra, provò un paio di volte a dare gas, poi partì, sollevando un nuvolone di polvere.


Quella mattina, il primo degli occupanti dei "Ginepri" ad aprire gli occhi fu Giancarlo Benisi.

Controllò l'ora e, nonostante fossero solo le 6.25, decise di alzarsi, infilandosi una canottiera e un paio di pantaloncini. Discese le scale e passò cinque secondi di puro panico vedendo la porta d'ingresso accostata, quando ricordava perfettamente d'averla chiusa a chiave la sera precedente, prima di coricarsi. La paura si sciolse in una risata a bocca chiusa, dopo che, uscito sulla terrazza, aveva sorpreso Andrea e Camilla addormentati sul pavimento, sdraiati sui materassini del dondolo. Erano nudi e abbracciati, lui a pancia in su, con la testa reclinata su un lato e il braccio destro a cingerla, lei sul fianco sinistro, usando il petto di lui come cuscino e con la mano sopra il suo pene. La scena, per quanto imbarazzante, era molto tenera e perfino al burbero Giancarlo suscitò una piccola sfumatura di dolcezza.

"Sti ragazzi!" pensò scuotendo la testa, ma mantenendo il sorriso sulle labbra.

Raccolse i boxer e la camicia da notte, abbandonati a fianco, e coprì i seni e la mano birichina di Camilla, pensando se non fosse meglio svegliarli, nell'ipotesi che Roberto, scoprendoli in quella situazione, non avesse una reazione esagerata.

Andrea gli venne in aiuto, aprendo proprio in quel momento gli occhi. Ebbe un attimo di smarrimento vedendo il vecchio, poi girò la testa e scorse Camilla, seguendo con gli occhi la direzione del suo braccio e della sua mano.

«Cazzo!» esclamò, tirandosi su di scatto, rosso come un pomodoro.

Camilla si svegliò di soprassalto, guardò Giancarlo sorridendo, poi, rendendosi conto di essere nuda, lanciò un gridolino, cercando di coprirsi il più possibile con la vestaglia.

Giancarlo si era già girato e stava per rientrare in casa.

«Non dirlo a papà, ti prego» biascicò Andrea.

«Non ti preoccupare» rispose, senza voltarsi. «Non avete fatto nulla di male, secondo me. Anzi...» E rientrò.

I due ragazzi si guardarono per un attimo.

«Ci siamo addormentati...» disse lei, accarezzandogli i capelli.

Poi, scoppiarono a ridere. Lui la baciò dolcemente.

«Dici che si arrabbia tuo padre, se lo scopre?» chiese Camilla.

«Non credo. Mi imbarazzerebbe però più il fatto che sappia che Giancarlo ci ha scoperti nudi, qui fuori.»

Lei gli baciò nuovamente le labbra.

«Stanotte magari, ce ne stiamo in camera...» replicò lei, sollevando i boxer e accarezzando quello che c'era sotto.


Giancarlo controllò subito se luce, gas e acqua fossero ancora disponibili e, con un sospiro di sollievo, constatò che era così.

«Chissà per quanto però!» disse tra sé e sé.

Preparò il caffè e vide i due giovani rientrare e salire di sopra, ridacchiando.

"L'amore..." pensò ed ebbe un improvviso moto di nostalgia, pensando a quando aveva conosciuto sua moglie, durante il suo primo viaggio di lavoro come apprendista dell'azienda che in seguito avrebbe guidato, con brillanti risultati. Lei stava nell'albergo vicino, in vacanza con due amiche, e non appena lui smetteva di lavorare la raggiungeva e si rintanavano in camera fino al mattino. Gli mancava molto e aveva la sgradevole sensazione di rendersene conto solo in quel momento.

Roberto entrò in sala, trovandolo immerso nei suoi pensieri, mentre sorseggiava il caffè.

«Ce n'è un po' anche per me?»

Giancarlo sollevò la testa e sorrise. «Certo!»

Andò ai fornelli e versò un po' di liquido nero in una tazza, porgendogliela

«Buongiorno!» gli disse.

«A te» rispose Roberto, dando una prima sorsata. «Hai visto Andrea, per caso?»

Giancarlo sorrise. «Credo sia con Camilla.»

«Dove?» replicò, continuando a bere.

Giancarlo lo fissava con un sorrisetto ironico stampato sulle labbra e Roberto, in un lampo, capì.

«Ooh!» disse, guardando il soffitto. «Buon per lui. Sua mamma ne sarebbe contenta. Negli ultimi tempi era preoccupata che fosse troppo timido per trovarsi la ragazza.»

Subito abbassò lo sguardo, trafitto dal dolore che lo colpiva ogni volta che parlava o pensava alla sua Lina.

«Non disperare, Roberto. Magari si possono ancora salvare» gli disse Giancarlo, leggendo i suoi pensieri.

«E come? Come possiamo, Giancarlo?» Gli occhi di Roberto erano lucidi, quando li spostò in quelli del suo interlocutore.

«Non lo so, ma quello che è successo a te e alla ragazzina deve darci speranza. Se non ci aggrappiamo a nulla, se non ci diamo degli scopi, cosa ci stiamo a fare qui?»

«Non sembravi molto convinto su Veronica però, ieri sera?» aggiunse, asciugandosi gli occhi.

«Ho riflettuto. Credo dica la verità. Sono stato un po'..., forse un po' troppo precipitoso.»

Abbassò gli occhi, concentrandosi sul riflesso del lampadario nella superficie nera del caffè. Roberto notò la difficoltà che aveva quell'uomo ad ammettere di aver sbagliato e ne apprezzò di più lo sforzo.

«Devo andare da mia mamma, Giancarlo. Devo scoprire cosa le è successo. E voglio tornare anche da Lina; se non la posso salvare, voglio esserne sicuro.»

«Credi sia prudente? Potresti non essere fortunato come ieri. Quegli uomini potrebbero essersi... evoluti. Ne vuoi una?»

Giancarlo stava aprendo un pacco di fette biscottate. Roberto scosse la testa e bevve un'altra sorsata.

«Pensa ad Andrea. Se ti succedesse qualcosa rimarrebbe solo.»

«Non è solo, ha voi. Tu puoi essere come un padre per tutti quanti. Poi c'è Veronica; non chiedermi il perché, ma credo che quella ragazzina abbia dentro di sé qualcosa di molto speciale. Ho questa sensazione.»

Per un minuto si sentì solo il sorseggiare dalla tazza di Roberto e lo sgranocchiare di Giancarlo.

«Non voglio abbandonarlo, ma non posso nemmeno abbandonare mia madre e mia moglie al loro destino, senza nemmeno provarci. Come potrei guardarmi allo specchio? Lo capisci?»

Giancarlo annuì, masticando. «Quando pensi di partire?»

«Subito dopo pranzo.»


L'euforia giovanile del primo amore, delle prime esperienze sessuali, dei primi contatti con il corpo di una ragazza, abbandonò all'istante Andrea, non appena suo padre lo informò sulle sue intenzioni.

«Non sono d'accordo, papà!» gli urlò in faccia, quasi alle lacrime. «Perché te la devi andare a cercare? Dopo la fatica che abbiamo fatto per arrivare qui!»

«Vuoi che abbandoni la nonna al suo destino? E dare la mamma persa, per sempre? Senza nemmeno provarci?»

«E se catturano anche te? Io che faccio, dopo?»

Roberto gli pose le mani sulle spalle, ma Andrea guardava di lato. Il volto era rigato dalle lacrime. Camilla sedeva al suo fianco, indecisa se guardare il suo ragazzo o il pavimento.

«Non sei solo, dai. E io tornerò, te lo prometto. Stasera sarò di nuovo con te.»

Il ragazzo lo fissò. «Come puoi prometterlo?»

«Perché sarà così.»

«Forse dovrei venire con te» s'intromise Veronica, ancora in pigiama. «Se entrambi abbiamo... qualcosa, forse insieme possiamo essere ancora più forti.»

«No, devi restare qui, nel caso qualcuna di quelle sentinelle decidesse di farvi visita.»

«Papà, non abbiamo la certezza che tu e lei siate poi così in grado di contrastarli. Non perché è successo una volta.»

«Più di una volta, Andrea. Due volte a me e due a lei, su altrettanti tentativi di catturarci. In più Veronica ha avuto anche l'episodio della capanna, non scordarlo.»

Sia lui, sia la ragazzina si voltarono a guardare Giancarlo che stava lavando le tazze, in silenzio. Aveva rivelato a Roberto di aver cambiato idea sul racconto di Veronica, ma a lei non aveva detto nulla dopo che era scesa per la colazione insieme a Dalila. Di contro, la ragazzina, non l'aveva nemmeno salutato.

«Giuramelo!» disse infine Andrea, fissando intensamente negli occhi suo padre. «Giurami che stasera sarai qui con noi.»

«Sul mio onore!»


Andrea e Camilla non si premurarono troppo di nascondere la loro relazione.

A metà mattinata posizionarono due sdrai, uno a fianco all'altro, nella piccola porzione di prato sul retro della casa, mettendosi a prendere il sole in costume, un pallido sole in realtà, che ancora faticava a uscire del tutto dalle nubi che lo coprivano. Camilla abbandonò molto presto la sua postazione per andare a consolare un già consolato Andrea, con baci e dolci sguardi.

Dalila si era offerta di preparare il sugo per la pasta e stava sfaccendando in cucina. Veronica aveva trovato un album di fogli bianchi e due scatole di colori e si era messa su un vecchio tavolo a disegnare, forse per ricordare a tutti che, potere o non potere, era ancora una ragazzina di soli undici anni e, di tanto in tanto, lanciava frequenti occhiate ai due fidanzati. Si era raccolta i capelli in una coda che risplendeva meravigliosamente alla luce del sole, e indossava un paio di pantaloncini e il reggiseno di un costume.

Roberto si godeva una birra con Giancarlo su due poltrone da giardino e cercava, imbarazzato, di non guardare le pubbliche effusioni del figlio; era incantato dalla bellezza della ragazzina e non poteva non notare gli sguardi fulminei che Andrea le lanciava, quando Camilla si girava. Senza dubbio la ragazza era molto appariscente: alta, muscolosa, bionda e, soprattutto, coetanea del figlio. Ma nessuno poteva negare che Veronica era di gran lunga più bella, forse la creatura femminile più affascinante e ammaliante che avesse mai visto. Era praticamente perfetta sotto ogni aspetto, sia fisico e sia nei lineamenti: aveva due occhi penetranti, un viso regolare, ma nulla in confronto ai capelli che parevano impregnati di magia ipnotica, tanto erano belli. Roberto non riusciva a staccare gli occhi dai riflessi arancioni di quella chioma.

Si stava infatuando di una ragazzina di undici anni? Poteva essere sua figlia! Si pose la domanda, ma di getto rispose di no. Non era attrazione in quel senso ma qualcosa di più intrinseco e sospettava centrassero gli episodi con le sentinelle. Non era il genitore che si permetteva di giudicare le scelte amorose del figlio e non aveva proprio nulla contro Camilla, anzi, la ragazza gli piaceva molto. Ma avrebbe preferito vedere Veronica su quella sdraio insieme ad Andrea e, senza sapere perché, credeva, sotto, sotto, lo volesse anche lui.

«Un euro per i tuoi pensieri!» disse Giancarlo, quasi risvegliandolo.

Roberto lo guardò senza dire nulla e tracannò un po' di birra.

«Sei preoccupato? Per oggi pomeriggio, intendo?»

«Se ti riferisci alle sentinelle, no. Sono sicuro che i fatti di ieri non siano stati casuali. Ho paura di trovare mia mamma nella bolla, questo sì! E non vedo come potrebbe non essere così.»

Giancarlo annuiva.

«Per Lina ormai sono quasi rassegnato, probabilmente perché so già che è là dentro. Ma una parte di me è convinta che mia mamma sia riuscita a nascondersi da qualche parte e sia in salvo. Magari insieme ad altra gente, un po' come noi. Se dovessi scoprire che anche lei è dentro a una di quelle cose, beh... sarebbe doloroso.»

«Ti capisco.»

Giancarlo emise un piccolo rutto di digestione e bevve un'altra sorsata.

«Tu non pensi ai tuoi figli? Come fai a essere così tranquillo?»

Il vecchio lo guardò e rise. «Certo che ci penso! Ma cosa posso farci? Sono in Germania, quindi irraggiungibili al momento. Che senso avrebbe disperarsi?»

Contemplò i due ragazzi che si stavano sussurrando qualcosa all'orecchio.

«Te l'ho detto che non siamo in grandissimi rapporti, no? Ci sentivamo poco o nulla. Se si sono salvati, dubito che stiano in pena per me.»

Roberto pensò di dire qualcosa, ma tacque.

«Senti, credi di riuscire ad andare in qualche supermercato dopo che avrai concluso le tue missioni?» continuò il vecchio. «Ho voglia di frutta e verdura, se ti sembra ancora buona.»

«Potrei provare ad andare al Centronova, se la situazione lo permette.»

«Sarebbe perfetto, ma non voglia tu corra rischi inutili. Mi raccomando. Potresti fare rifornimento di acqua, tutta quella che riesci a prendere. Cibo in scatola o in sacchetti. Roba per la colazione. Insomma, cose non deteriorabili a breve. Ritengo già un miracolo che ci sia ancora la corrente.»

«Va bene, farò quello che posso. Ho visto che hai molta carne in freezer. Forse bisognerebbe mangiarla. Se va via la corrente...»

«Infatti, stasera ho deciso di grigliare. Devi esserci assolutamente! Non si può perdere la SCP!»

«Sarebbe?» chiese Roberto, aggrottando le sopracciglia.

«Salsiccia, costoline e pancetta! La grigliata perfetta!»

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