20 - RICERCHE (2)
Mangiarono presto quella sera, una cena veloce, silenziosa e piuttosto mesta. Monica era stata informata degli scarsissimi progressi ottenuti e non cercò in alcun modo di ravvivare la serata, capendo che non c'era l'umore giusto. Francesca doveva tornare all'abbazia la sera stessa, per cui andarono subito da Franco per informarlo della situazione. Lo trovarono sveglio intento a leggere un libro, e abbastanza di buonumore. Alberto notò che gli si era di nuovo spento l'azzurro degli occhi, scivolato verso quella tonalità più simile al grigio che gli aveva già visto. Ed era dimagrito, parecchio; il viso era scavato e gli occhiali sembravano stargli su solo per miracolo.
«Che musi lunghi! Devo supporre che la ricerca non va benissimo!» disse, sorridendo. «Dovete avere più fiducia, ragazzi!»
Alberto rimase sbalordito dal buon umore che sprizzava il vecchio, nonostante la salute e l'imminente sfilza di cattive notizie impresse a fondo sui loro volti.
Francesca aprì il foglietto e lo rilesse con gli occhi prima di iniziare. Due lacrime le scendevano sulle guance.
«Va male, zio. Scusa se sono così diretta, ma non riusciremo mai a rintracciarli tutti.»
Franco la fissò intensamente, poi le prese la mano tra le sue.
«Nessuno pensava fosse una passeggiata, cara.» disse con dolcezza, girandosi a guardare anche Alberto, che assisteva alla scena con lo sguardo spento.
«Ma non dovete abbattervi! Ogni giorno è un nuovo giorno e può portare delle sorprese!»
Strinse gli occhi mentre sorrideva. Alberto si accorse di non aver capito molto bene quello che intendeva dire.
«Su, raccontami...»
Francesca si asciugò le lacrime.
«Alessandro Gallo l'abbiamo chiamato oggi pomeriggio. L'unico numero trovato in rete. Dice di non essere lui.»
«E tu gli credi?»
«Non lo so. Quando ho citato la guarigione ho come percepito angoscia dall'altra parte. Ma è stata solo una mia sensazione.»
«E tu devi fidarti, allora! Se non hai altre cose a cui aggrapparti, come mi pare sia secondo le tue parole, fidati delle tue sensazioni! Vai avanti...»
Francesca lo guardò per un secondo poi proseguì.
«Franco Trudi, elbano, mi ha confermato di essere stato guarito da Nicolas; è uno scrigno, ma non mi ha creduto. Abbiamo comunque il suo numero e sappiamo dove vive.»
«Non è poco!» intervenne Franco. «Questa è una buona notizia! Sapere dove trovare uno scrigno è grandioso. Mio Dio, ragazzi! Questa non è solo una notizia buona. È una notizia grandiosa!»
Batté le mani e pareva veramente felice. Alberto non ne era sicuro, ma gli parve di vedere brillare un luccichio azzurro nei suoi occhi.
«Zio! Hai capito cosa ho detto? Non mi ha creduto. Ha minacciato di denunciarmi se lo richiamo.»
«E chi se ne frega!»
Sia Francesca che Alberto strabuzzarono gli occhi.
«Vedrai che, quando inizierà il tutto, ti crederà! Ooh, vedrai come ti crederà!»
Scoppiò a ridere ma subito un acceso colpo di tosse soffocò il tutto. Prese un fazzoletto e si coprì la bocca, sputandoci, probabilmente, un discreto quantitativo di catarro.
«Scusate...»
«Tutto bene, zio?»
«Sì, sì. Continua...»
«Emanuele Gualandi! Un fantasma. Non ho trovato nulla di nulla. Su Facebook ne ho trovati alcuni, ma il più vecchio è del 1997 e quello che interessa a noi non aveva certo tre anni quando è stato guarito.»
«Assolutamente no! Te lo confermo. Aveva vent'anni, o qualcosa di più al massimo. Negli altri social?»
«Niente! Quelli che ho trovato sono sempre gli stessi. Troppo giovani o nati dopo il 2000. Il nostro amico è un anti-social a quanto pare. Non ha il telefono fisso, o ce l'ha ma non l'ha registrato sulla Pagine Bianche. Sono sincera, non so come faremo a trovarlo. Sempre che abiti ancora il nostro mondo...»
Si grattò la testa di scatto, con movimenti nervosi. Questa volta lo sguardo di Franco rimase accigliato.
«Eleonora Cataldi è stata una delle poche buone notizie. L'ho trovata su Facebook, è una molto attiva, di quelle che pubblica ogni cosa che fa. In genere è un modo di fare che non sopporto, mettere in piazza la propria vita, ma stavolta ne sono stata molto contenta. Nelle sue informazioni personali c'è scritto "Sposata con Rodolfo Dandolo"! Devo dirti la verità: sono rimasta a fissare l'informazione per un minuto buono. Non credevo ai miei occhi. Ovviamente c'erano una marea di foto del matrimonio. Si sono sposati nel 2003.»
«È incredibile! Due scrigni sposati. Questo è un colpo di fortuna clamoroso. Sei sicura che siano loro? Entrambi, intendo.»
«No, zio, nulla è sicuro. Ma mi sembrerebbe una coincidenza troppo assurda, quindi do per scontato che siano entrambi le persone che cerchiamo. E, altra cosa, credo non abbiano figli.»
Franco si agitò un poco nel letto. «Come fai a esserne sicura?»
«Non c'è nessuna foto di bambino o bambina. Una come lei che posta anche il caffè che si prepara al pomeriggio... sembra strano non abbia mai pubblicato nulla di suo figlio, no? E non intendo solo foto. Mi son letta praticamente tutto quello che ha scritto, commenti, riflessioni, risposte ad altri post, tutto. Non parla mai di bambini. Mai.»
«Mmm! Tu Alberto che ne pensi? Non te ne stare in disparte!»
«Concordo con lei» disse, facendosi avanti. «Ma mi terrei una piccola percentuale di dubbio. Magari è una che pubblica di tutto, ma non vuole pubblicare le foto del figlio. Privacy o che altro... Non ci sarebbe nulla di strano.»
«Questo è vero. Però concordo con Francesca pure io. Ok le foto, ma è strano che non citi mai da nessuna parte l'eventuale prole. Terrei buona per il momento l'idea che non ne abbiano avuti. Nel profilo di lui, del marito intendo, non c'è nulla?»
«No», rispose Francesca. «Ce l'ha anche lui, ma non lo usa quasi mai. Compare quasi sempre di riflesso in quello della moglie.»
Si sedette sul letto, tirandosi indietro i capelli.
«Purtroppo, però non ho trovato nessun contatto, nessun numero, mail, nulla. Di nessuno dei due. Le ho inviato un messaggio privato da Messenger, lasciando il mio cellulare e la mia mail. Sono passate due settimane, ormai. Nessuna risposta.»
«Sappiamo dove abitano?»
Le labbra di Francesca si allargarono leggermente in un sorriso, scoprendo un po' gli incisivi che Alberto amava tanto.
«Certo! Ti ho detto che questa Eleonora spiattella tutto. È di Castenaso, un paesino vicino al centro commerciale dove Nicolas ha guarito Alessandro. Non so se abitino lì ora, ma è un punto di partenza.»
«Perbacco, Francy! Avevi detto che andava male. Non mi pare proprio» sorrise Franco.
«Aspetta, zio. Le buone notizie finiscono qui. Beatrix Johnson, l'americana... introvabile. Come Gualandi, forse peggio.»
«Già, almeno lui è italiano» intervenne Alberto.
«Hai scritto "USA" di fianco al suo nome, zio. Sei sicuro che fosse americana?»
«Così avevano detto. Ma magari abita o abitava qui in Italia. Questo, mi spiace, non ve lo so dire. Ricordo che fu guarita nella zona di Bologna, come gli altri. Credo fosse ricoverata in uno degli ospedali della città. Sono parecchio all'avanguardia per le cure contro i tumori. Lei l'aveva al seno.»
«E Trudi al pancreas. Anche lui era a Bologna quando incontrò Nicolas. Me l'ha raccontato lui stesso. Era ricoverato all'ospedale... Maggiore» disse, cercando l'appunto scritto sul foglietto. «Sui social ho trovate centinaia di "Beatrix Johnson". È come cercare un ago in un pagliaio. Se avessimo delle foto almeno... È assurdo non poter trovare nulla in rete sui fatti del guaritore. Trudi ci ha raccontato che il Vaticano ha insabbiato tutto.»
«Lo immaginavo!» disse Franco. «Contro i poteri forti c'è poco da fare.»
Francesca sospirò e guardò Alberto, avvilito, in piedi vicino alla porta.
«Marisa Vertani è morta, zio» disse, tutto d'un fiato.
Il vecchio sospirò.
«Abbiamo parlato col nipote, parlato per modo di dire perché ci ha sbattuto il telefono in faccia quasi subito. Non siamo riusciti a farci dire se c'era qualcuno con lei quando è morta, però sappiamo dove abitava. E sappiamo per certo che è la Vertani guarita da Nicolas. Stava a San Lazzaro e ho l'indirizzo.»
«Me lo aspettavo. Era già anziana all'epoca. Fu accolta da una grande polemica questa guarigione. Alcuni sostenevano che il potere di quel ragazzo doveva essere usato con persone giovani e non con persone anziane.»
«Che discorso del cazzo! Ops, scusate...» Alberto si era messo una mano sulla bocca per la parolaccia appena pronunciata. Franco lo guardò divertito.
«Ma non siamo qui per parlare o discutere della storia del guaritore. Vai avanti, cara.»
«Rimane l'ultima, Erika Bucci. Hai scritto che forse ha la parte di energia più potente. Perché?»
«Perché mi fido delle mie sensazioni, come dovresti fare anche tu, tesoro» rispose con dolcezza. «È stata l'ultima e Nicolas è morto proprio mentre la guariva. Sappiamo che cedeva una parte del suo potere ogni volta che aiutava qualcuno e lo so, perché ogni volta era sempre più debole. Lo ricordo molto bene! C'era chi chiedeva di fermarlo e di proteggerlo, perché era palese che il bene che faceva agli altri, non facesse bene a lui. Ritengo che Erika gli abbia, senza volerlo, succhiato via tutta l'energia che gli era rimasta. E secondo me, è stato un quantitativo maggiore di quello che hanno ricevuto gli altri otto. Era la parte d'energia che lo teneva ancora in vita, capite?»
«Ma, perché lei gli avrebbe succhiato via tutto?» chiese Alberto.
«Anche questo non lo so. Come vi ho già spiegato, ho navigato molto a vista in questa storia. Forse quella donna era più predisposta degli altri a contenere l'energia. Forse però, sto dicendo un mucchio di sciocchezze. L'unica cosa che mi ha fatto andare avanti, in tutta questa storia, è la fiducia. Dovete farlo anche voi, anzi, voi di più, perché, con molta probabilità, ci sbatterete fisicamente la faccia contro.»
Francesca e Alberto si guardarono di nuovo; gli occhi di lei erano pieni di preoccupazione e sembravano sul punto di lasciarsi andare alla paura più profonda.
«Hai qualcosa su Erika?» continuò Franco.
«So forse dove abita. Non ha profili social, ma cercando il suo nome, l'ho trovato su Facebook in un post di un tale Riccardo Dalmonte, il marito. Aveva scritto sulla pagina di un tale chiedendo un preventivo per un'assicurazione sulla vita, per lui e per la moglie Erika Bucci. È di Ozzano dell'Emilia, paese confinante a San Lazzaro. Ovviamente, nessuna certezza sia proprio lei, ma anche qui, la coincidenza sarebbe bella grossa. È un post di sei anni fa e dopo quello non ha più scritto niente di niente.»
«Porca miseria, Francesca! Dovete essere più ottimisti, però. Avete scoperto tantissimo.»
«Zio, tu hai detto che servono tutti e nove gli scrigni. Va bene, di alcuni abbiamo un po' di informazioni, ma di altri zero assoluto. Una è morta addirittura. È questo che mi spaventa. Se anche riuscissimo a trovarne otto ma ce ne mancasse solo uno, sarà stato tutto inutile!»
«Un passo alla volta, cara. Un passo alla volta. Concentratevi per il momento su quello che sapete. E quello che sapete è tanto. Ne avete due sposati che abitano, forse, a Castenaso, una morta che abitava a San Lazzaro e un'altra che forse è di Ozzano. Più quello che nega di essere lui, che sta a Casalecchio. Forse dice la verità, ma forse no. Io mi terrei il dubbio. Sono tutti paesi intorno a Bologna. Organizzatevi una bella gita e andate là di persona, portandovi dietro il libro. Magari anche il video del servo. Sono sicuro che di persona otterreste di più che da semplici telefonate.»
«Vuoi che andiamo là?» chiese Francesca, un po' stupita.
«È quello che ho detto.»
«Siamo sicuri sia prudente per me andare in centri abitati?» Alberto si era fatto un po' avanti. «Potrebbero riconoscermi.»
«Oh, non credo dai. Non sei così famoso, per fortuna!» sorrise Franco.
«Le forze dell'ordine non sanno che sei evaso. Per tutti quelli a cui frega sei nel carcere di Nuoro, e per il direttore di questo posto sei nel posto in cui sei stato trasferito. Ma fidati che probabilmente manco si ricorda di te!» intervenne Francesca. «Gli unici che lo sanno siamo noi all'abbazia, e gli unici che vorrebbero riacciuffarti sono chiusi in due celle nei sotterranei. Il problema è un altro, zio.»
Si girò verso il vecchio che assunse un'aria interrogativa.
«Il prossimo mese sarà impegnativo per me, perché arrivano tre nuovi detenuti. Non posso assentarmi in questo periodo.»
Guardò Alberto che le annuì.
«Potrò venire poco anche qui, come lui sa già.»
«Va bene, va bene, non dicevo mica subito. Fai passare il periodo impegnativo, poi vi organizzate e andate. Sono sicuro che sarà un viaggio illuminante!»
Di nuovo Alberto fu colpito e affascinato dall'ottimismo che riusciva a trasmettere quell'uomo. Anche Francesca pensava la stessa cosa. "Se avessi anche solo la millesima parte dell'entusiasmo che ha lui!"
Purtroppo, nessuno dei tre poteva sapere che il mese dopo, sarebbe già stato troppo tardi...
Alessandro Gallo aveva riattaccato il telefono ed era rimasto immobile, fissando il muro con un senso di angoscia crescente che sperava di aver dissimulato nella falsa risata che era riuscito a cavarsi fuori, per far bere a quella donna la sua frottola.
Non voleva assolutamente essere richiamato. Gli era stato intimato di non parlare mai con nessuno di quello che gli era capitato e, in ventidue anni, aveva obbedito. Aveva paura di quella gente e mai si sarebbe messo contro la loro volontà.
In generale aveva avuto sempre paura un po' di tutto; cercava di mascherarlo quanto poteva, ma si sentiva sempre "nudo" davanti alle persone, come se fosse sempre esposto a qualsiasi pericolo. Ed era esattamente la stessa sensazione che provava "prima", quando ancora era quell'altro, come piaceva dire a lui. Era l'unica cosa che ricordava; tutto il resto era distorto nella sua mente, sfocato come le immagini del televisore che ballano quando la ricezione è cattiva. Ma la paura che l'accompagnava di continuo, chissà perché, se la ricordava bene e ricordava anche la continua protezione che cercava nei suoi genitori, specie nel suo papà. Quel ruolo ora era stato assunto da sua moglie e un po' se ne vergognava, anche se lei non glielo aveva mai fatto pesare. In qualsiasi discussione, decisione, responsabilità di ogni tipo, Alessandro si chiudeva a riccio, rimaneva zitto e fermo, e toccava a lei portare avanti tutto. Ne avevano parlato tante volte e lei l'aveva tranquillizzato; ma lui faticava ad accettarlo.
«Mi ha guarito al 90%. Il resto è ancora come prima!» diceva, in lacrime.
Accarezzandolo con dolcezza, lei gli faceva notare che "90%" era quasi tutto l'intero e che l'avrebbe amato lo stesso, anche se le due parti fossero state invertite.
L'unico luogo in cui si sentiva al sicuro e dove quest'assurda paura spariva, era il suo ambulatorio. Alessandro era un medico di medicina generale, lavoro che si era sempre sentito addosso, come un vestito su misura cucito ad hoc per lui dal migliore sarto del mondo. Era solo un ragazzino quando fu guarito dalla sindrome di Down e, se tutto, prima di quel giorno, era stato avvolto in un alone sfocato, quello accaduto da quel momento in poi era chiaro come un giorno di sole. Era come se quel ragazzo, Nicolas, solo toccandolo, avesse aspirato via tutta la polvere che aveva dentro, lasciando le stanze del suo cervello pulite e luminose. Ricordava bene l'euforia che si sentiva addosso, la voglia che aveva di vedere, di fare, di scoprire, come se si fosse appena risvegliato da un lungo letargo. Sì, la sensazione che aveva provato era stata proprio quella: risvegliarsi da un lungo sonno. E si era dato da fare. A ventidue anni era già laureato in medicina, e dopo qualche anno di apprendistato aveva deciso di aprire un ambulatorio privato, per adempiere alla sua missione. Perché era proprio una missione per lui; in qualche maniera sentiva che lo scopo della sua vita, o almeno della nuova vita che gli era stata regalata, era quello di aiutare le persone.
Quando nacque il suo bambino, fu insieme un'immensa gioia e un immenso dolore, e ancora oggi, solo vedere Antonio, gli infondeva coraggio, quel coraggio che non aveva mai avuto. Ma gli metteva anche una tristezza infinita, infarcita da inconsolabili sensi di colpa.
«Papà, ccc... con chiii... paarli tu?»
La voce di suo figlio lo distolse dai suoi pensieri. E, come ogni volta, ogni singola volta che aveva guardato il volto down del suo ragazzo, fin dal giorno che era nato, la felicità di essere padre, l'amore che provava per lui, si velava di un'ombra di assoluta tristezza; esattamente quello che deve provare un bambino, accorso a giocare in un prato fiorito, illuminato e scaldato dal sole, poi, all'improvviso, coperto da un nuvolone che smorza la luce e il calore, promettendo solo pioggia.
Ma nel suo caso c'era Antonio, con la sua forza, la sua allegria che riusciva sempre a illuminare tutto di nuovo.
Sua moglie viveva la situazione in maniera diversa; l'aveva accettata e ai suoi occhi il bambino era come tutti gli altri. Per lui era più faticoso, perché sapeva con assoluta certezza che Antonio aveva preso la "sua" sindrome di Down. Quel giorno, quel ragazzo non l'aveva guarito, ma aveva preso la sua anomalia genetica e gliel'aveva solo spostata, accantonata in un angolo del suo corpo, dove a lui non poteva più nuocere, ma dove aveva atteso, perfida, subdola, di attaccarsi al primo essere vivente che avesse generato. Suo figlio.
«Non dire stupidate!» aveva sbraitato la moglie mentre, in lacrime, si accarezzava il pancione il giorno che avevano scoperto la condizione del figlio.
«Per favore, Alex. Non dirmi queste cose!»
E lui non lo aveva più detto.
«Oh, con nessuno tesoro» rispose alla domanda del figlio. «Avevano sbagliato numero.»
Antonio lo guardò con la solita aria da furbo, gli occhi stretti che luccicavano e le labbra accavallate a formare un sorrisetto indagatore, la tipica espressione che assumeva quando capiva che gli stavano dicendo una bugia.
Fino ai cinque anni era stato un bambino con la sindrome di Down, né più, né meno normale di altri bambini nella stessa condizione. Poi, poco alla volta, aveva cominciato a dimostrare capacità cognitive e relazionali abbastanza sorprendenti, nonostante una grossa difficoltà nell'esprimersi. L'avevano fatto visitare da uno specialista che, al termine di tutti i test, li aveva convocati nell'ufficio.
«È sconcertante!» aveva esordito. «Difficilmente i bambini con la sindrome di Down hanno un QI superiore a 50, ma Antonio ha totalizzato 75 che, nella sua situazione, è tantissimo. Si potrebbe quasi definire un genio, sempre nel suo ambito. Di contro, però, denota una grossa difficoltà nell'esprimersi. Sembra quasi che la capacità intellettiva abbia attinto da quella espressiva. Ma con l'aiuto di esperti e con tanta pazienza, si può sopperire a questa mancanza.»
Alessandro aveva stretto forte la mano della moglie.
«Avete avuto altri casi in famiglia, che voi sappiate?»
Si era morso la lingua, ma sua moglie lo aveva guardato, spalancando gli occhi.
«No. Nessuno.»
«Fff...Fraaanco... vuo... oole vee... dere te?» chiese Antonio, mentre si girava per tornare in camera sua.
Lì per lì Alessandro credette di non aver capito bene, poi realizzò quello che aveva sentito. Si sedette, a occhi spalancati, a bocca aperta, completamente stordito. Come faceva suo figlio a sapere di Franco, Franco de Simone, l'uomo citato dalla donna? Lo raggiunse. Era seduto per terra a giocare con le sue macchinine.
«Hai ascoltato la telefonata, amore?» ma sapeva già che non era successo. Non ne era nemmeno capace.
Antonio lo guardò, gli fece un sorriso e continuò a giocare, sputando gocce di saliva sui tetti delle macchine, mentre con la bocca simulava il rombo del motore.
Il giorno dopo il colloquio con lo zio, Francesca era alle prese con una montagna di scartoffie che ricoprivano per intero il piano della scrivania, quando il cellulare suonò.
Sbuffando, guardò il display; era un numero fisso che non aveva in memoria. Di solito era restia a rispondere quando veniva chiamata da un numero non presente nella sua rubrica, ma il prefisso 051 lo conosceva bene, avendolo usato parecchie volte negli ultimi giorni, nelle chiamate di ricerca. Aspettava una telefonata dal direttore di uno delle carceri da cui avrebbero prelevato uno dei nuovi ospiti, ma qualche minuto se lo poteva concedere.
«Pronto?»
All'altro capo percepì esitazione.
«Buongiorno, sono Alessandro Gallo. Ho ricevuto una chiamata da questo numero di cellulare tre giorni fa. Era lei, per caso?»
Francesca rimase sbalordita per un attimo, poi sentì una luce di speranza accendersi di colpo dentro al suo petto.
«Certamente! Ero io. L'altro giorno non ho avuto modo di presentarmi. Mi chiamo Francesca Fontana e sono la nipote...»
«... dell'ingegner de Simone. Questo me l'ha già detto! Cosa voleva da me di preciso?»
Il tono era brusco ed era difficile capire se nella voce dell'uomo ci fosse semplice curiosità o viva preoccupazione di sapere quello che lei voleva dirgli. Ritenendolo un piccolo rischio, Francesca scelse di assicurarsi che fosse l'uomo che cercavano. La prima volta l'aveva negato ma, il fatto che l'avesse richiamata era un chiaro segnale che aveva raccontato una balla bella e buona. Voleva e doveva, però, esserne sicura.
«Mi conferma allora che è lei l'uomo guarito da Nicolas il 21 ottobre 2000?»
Di nuovo dall'altoparlante uscì esitazione, molto più densa di prima. Poi parlò.
«Sono io.»
Francesca rimase zitta per un paio di secondi, aspettandosi, chissà con quale speranza, almeno una parvenza di scuse per la bugia, ma si specchiò solamente nello stesso silenzio di Alessandro.
«Ehm, molto bene» disse, un po' incerta.
Valutò se chiedere il perché del ripensamento, ma decise di lasciare perdere. Aveva poco tempo.
«Purtroppo, mi prende in un momento abbastanza complicato. Ho un impegno inderogabile a breve e ho pochissimo tempo da dedicarle. L'altro giorno ero più libera.»
Pronunciò l'ultima frase cercando di spruzzarla con una leggera ironia, come volesse farlo sentire un po' in colpa, ma si pentì quasi subito.
«Capisco.» Sembrava sollevato.
«Abbiamo in programma di venire a Bologna tra un mese circa. Se per lei non è un problema potremmo organizzare un incontro. Tra l'altro abbiamo bisogno di mostrarle alcune cose, per cui vedersi di persona è essenziale.»
«Venite a Bologna? Lei e chi? L'ingegnere?» La voce dell'uomo tremava.
«Oh, no! L'ingegnere è anziano e malato. Non può muoversi. Saremmo io e il mio ragazzo.»
All'altro capo risuonò un respiro profondo. Francesca capì di aver messo addosso ad Alessandro Gallo un profondo senso di disagio.
«Senta. Io non voglio guai. E non amo rimanere troppo in sospeso. Quello che deve dirmi... è qualcosa di grave? Sono certo di non aver combinato nulla di sbagliato, ma nel caso vorrei esserne informato prima possibile.»
«No, no. Signor Gallo, lei ha frainteso. Abbiamo bisogno del suo aiuto, lei non immagina quanto.»
Dal cellulare cominciò a risuonare l'avviso di chiamata. Guardò il display: era la telefonata che stava aspettando.
«Le chiedo scusa, ma devo riattaccare. La contatterò io appena mi libero dai miei impegni. Per il momento, la ringrazio.»
E prima che l'altro potesse replicare, chiuse la comunicazione.
(continua)
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