19 - VETTA DEL LUPO (1)
René sbuffava e imprecava mentre arrancava sul sentiero.
Ce l'aveva con tutti: Masi soprattutto, poi AR396, il direttore, le altre guardie e quei due stronzetti strafottenti che si era portato dietro e che l'avevano piantato lì, guardandolo con quel sorrisetto compiaciuto.
«Dai, ti aspettiamo in cima» avevano detto, vedendolo piegato sulle ginocchia, lanciandosi tra loro un'occhiata divertita. Aveva una gran voglia di spaccare i denti a tutti e due, per vedere come sarebbe stato, dopo, il loro sorriso.
«Non fate un cazzo finché non arrivo, intesi?» aveva urlato, mentre si allontanavano con la loro insopportabile agilità.
Sapeva benissimo che, in realtà, se il respiro gli si era mozzato in gola già dopo i primi metri di ascesa, la colpa era solo sua; ma non era mai stato un uomo incline a riconoscere le proprie manchevolezze. Era molto più facile addossare le colpe agli altri e sgombrarsi l'animo da ogni peso. Lui ci riusciva. Molto bene.
Si fermò, sfruttando uno dei pochi punti pianeggianti che offriva quel terribile percorso. Tirò fuori la borraccia e diede una lunga sorsata, bagnandosi anche la faccia. Era sudato e aveva caldo, e il fatto che fossero a metà marzo e non ad agosto, aumentava solo il suo pessimo umore.
«Perché mi son fatto impegolare in questa stronzata?» disse tra sé.
Ma nella mente l'immagine delle sue dita che facevano scorrere velocemente le banconote di Masi, era limpida e chiara come l'acqua di un qualsiasi laghetto di quelle cazzo di montagne.
Guardò l'ora.
«Le diciassette. Non dovrebbe mancare troppo alla cima.»
Si rimise lo zaino in spalla, bestemmiò a voce alta e ripartì.
«Prossima sosta, lassù. Non prima! Che cazzo! Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno, io!»
Franco e Alberto avevano salutato Francesca direttamente nel sotterraneo.
«Sono felice, tesoro, di riaverti nella mia vita. Mi sei mancata tanto, tanto» le aveva detto il vecchio, abbracciandola.
«Anche tu, zio. Ci rivediamo tra qualche giorno. Se scopro qualcosa sui nostri energetici amici, ti informo subito. E mi raccomando... Fate attenzione, stasera. Fammi sapere quando tutto è finito.»
Gli stampò un bacio in fronte e lo fissò, sorridendo.
Il vecchio si allontanò un po', per lasciare ai due innamorati un attimo di intimità.
Si dissero poche parole, impiegando quasi tutto il minuto che si concessero in un appassionato bacio.
«Quando chiamo lo zio, fatti trovare nelle vicinanze. Ci vediamo tra qualche giorno, probabilmente sabato.»
Lui la baciò ancora.
«E non fare l'eroe, stasera. Resta nella stanza.» Alberto annuì.
Franco aprì l'ascensore, lei entrò e sparì. Una lucina rossa, nel muro sopra la porta, si accese.
«Restiamo ancora qui, noi?» chiese Alberto.
«Sì. Quei tizi, lassù, devono credere che sei rimasto nel capannone.»
«Beh, e non è così?»
«No. Appena torna l'ascensore, risaliamo al piano -1 e ti accompagno nella stanza sotto la botola della tua camera. Si raggiunge anche da lì. E... Alberto! Te lo ripeto per l'ennesima volta: restaci! Non uscire. Mi raccomando!»
«E tu e Monica?»
«Non preoccuparti per noi. Non ci succederà nulla. So che pare rischiosa questa cosa, ma ti assicuro che abbiamo ponderato tutto, e siamo pronti.»
Alberto stette qualche secondo in silenzio, guardando la porta chiusa davanti a lui. Era arrabbiato.
«Cosa c'è, Alberto? Cosa ti turba?»
«Ho l'impressione che dai troppe cose per scontato, Franco. E questo è un grosso errore secondo me. Prendi, per esempio, la tua... creazione.»
Il vecchio sorrise. «Sapevo che saresti arrivato all'argomento. Ho subito notato un certo scetticismo...»
«Come fai a pretendere che non sia scettico? Che poi non è che sia proprio scettico, sono preoccupato, forse spaventato. Tu pensi sul serio che nove individui, del tutto normali, si infilino dentro a degli affari del genere per guidarli contro un alieno pazzo, dotato di super poteri magici? Non siamo dentro a quei cartoni animati che ti piacevano tanto. Questa è la vita reale! Le persone che dobbiamo trovare... Cristo! Potrebbero essere invecchiate, malate... Potrebbero aver avuto dei bambini e aver trasferito in loro l'energia! Presumo ci siamo anche delle donne nella tua lista...»
Franco lo fissò per un istante, poi scosse il capo.
«Certo che ci ho pensato, cosa credi? Non capisco, Alberto. Perché non riesci a fidarti di me? Ti ho appena dimostrato che una storia che credevi una favola, è reale. Corriamo tutti un grande pericolo, ma abbiamo un'unica possibilità, ed è questa! So che è difficilissima, pericolosa ed è altamente probabile che fallisca, ma è l'unica che abbiamo. Ho speso vent'anni della mia vita in questa cosa. Credo di sapere quello che faccio e mi fido di te, come mi fiderò ciecamente degli altri, che siano vecchi o giovani, malati o sani! So benissimo che potrei affidarmi a dei piloti esperti, che ne so, a dei marines americani, o a degli astronauti, addirittura. Avranno sempre più esperienza di voi e guiderebbero le mie macchine sicuramente meglio di quanto non farete mai voi nove. Ma poi? Una volta davanti al nemico, in qualsiasi forma si presentasse... cosa accadrebbe? Te lo dico io... verrebbero spazzati via in un attimo. E sai perché? Perché il pilota più bravo del mondo non avrà mai l'unica cosa che può sconfiggere quello stronzo: l'energia lasciatici da quella donna. Senza di quella, le mie macchine sono solo inutili pezzi di ferro. Ho bisogno di voi, il mondo avrà bisogno di voi. È così e sarà così. Non ci sono altre vie. Dovrete cercare e trovare il coraggio dentro di voi, e dovrete credere! Perché solo questo ci può salvare. Credere in voi stessi e negli altri. Voi nove... avete dentro qualcosa di diverso, qualcosa con cui poter cambiare quasi la vostra natura, la nostra natura, quella che ci rende diversi da tutte le altre forme di vita sparse per l'Universo.»
Alberto sbuffò. «Non sono ancora così sicuro di avere veramente elettricità aliena dentro di me!»
Franco girò la sedia verso di lui e gli piantò gli occhi dritto in faccia. Avevano ripreso il loro colore azzurro, intenso e penetrante e, per un istante, Alberto si sentì trafitto. Per la prima volta stava vedendo sul viso del vecchio qualcosa di simile alla rabbia.
«Allora, se non credi, cosa stai facendo qui? Cosa stiamo facendo tutti?»
La voce gli tremava e gli occhi divennero d'improvviso lucidi.
«Hai così poca considerazione di me? Ho rinunciato a tutto per dedicarmi a questa impresa. Ho chiuso la mia azienda, tutta la mia vita. Ho messo da parte la mia famiglia.»
La lucina rossa si spense. Francesca era uscita. Franco inserì la chiave a tubo nello spinotto e continuò.
«E, da ultimo, mi sono esposto in prima persona per farvi evadere, ingannando mia nipote e rischiando di distruggere tutto quello che mia sorella ha creato, per quanto non approvassi. Dimmi, perché ho fatto tutto questo?»
Alberto tacque, guardandosi le scarpe.
«Alberto?» lo incalzò il vecchio.
«Scusa, Franco. Scusa! Hai ragione, ma mi serve tempo» disse, tirando su la testa di scatto.
«Quando hai parlato di un'arma mi ero immaginato una cosa del tutto diversa, anche se non so dirti cosa nello specifico. Vedere... tutto questo mi ha sconvolto. Mi ha sconvolto pensare che dovrò stare dentro a uno di questi affari, per fare quello che non sono assolutamente in grado di fare. Peggio ancora... che non ho il coraggio di fare.»
Franco gli prese una mano con dolcezza.
«Non credere che non lo capisca, caro. Non do assolutamente nulla per scontato.»
Le porte dell'ascensore si aprirono davanti a loro.
«Ma ti richiedo e ti supplico di avere fiducia in me. Dopo di te.»
Franco spinse il tasto -1 e l'ascensore si mosse. Quando le porte si riaprirono, si trovarono in un ambiente grande come la fabbrica al piano superiore, quasi interamente occupato da casse di legno di tutte le dimensioni.
«Questo è il magazzino. Seguimi.»
Alberto scosse la testa sorridendo con stanchezza. Ogni porta che gli si era aperta davanti, dentro a quel capannone, era stata capace di lasciarlo senza fiato per lo stupore. Quell'uomo era veramente incredibile. D'improvviso gli venne in mente Willy Wonka. Ecco, Franco de Simone era sicuramente il Willy Wonka dell'ingegneria. Fantasia ed esagerazione erano parole che, senza ombra di dubbio, gli si potevano accostare e d'un tratto, si sentì stupido per avere, ancora una volta, dubitato di lui.
Si avviarono a sinistra, lungo un piccolo sentiero ricavato tra le casse, fino ad arrivare alla parete che doveva essere proprio sotto a quella che dal capannone portava alla baita. Da lì partiva uno stretto corridoio con cinque porte su un lato e quattro dall'altro. Sulla facciata dell'ultima, a sinistra, c'era una targhetta recante la scritta "09-ARM". Il passaggio terminava con un muro completamente bianco.
Franco s'arrestò e gli prese la mano.
«Ascoltami. Sarà durissima trovare gli altri otto, sperando siano ancora tutti vivi. E, se ci dovessimo riuscire, sarà ancora più difficile riuscire a convincerli di tutto questo. Credo che tu possa capirlo.»
Alberto annuì. Purtroppo, aveva ragione da vendere.
«Per questo motivo ho bisogno che l'unico dei nove che ho a disposizione al momento, abbia piena fiducia in me, e sia convinto di volere e potere fare questa cosa, quando sarà il momento. Ho ritrovato la mia Francesca e mi pare che sia pienamente dalla mia parte. Ma lei non combatterà. Potrà aiutare, moltissimo; ma non combatterà. Non ha i mezzi per sconfiggere quell'individuo. Tu, sì.»
Gli prese anche l'altra mano e trasse un profondo respiro.
«Dovete capire, tu per primo...»
«Cosa, Franco? Cosa devo capire?»
«La donna, secondo me, non ha raccontato ad Augusto tutto quello che avrebbe voluto, perché non ne ha avuto il tempo. Ceduta l'energia a Lucilla, è avvizzita come un frutto caduto da un albero, ed è sparita.»
Alberto annuì. «Beh, però di cose ne ha dette.»
«Certo! Probabilmente sapeva di avere a disposizione solo un tempo limitato e ha scelto cosa dire e cosa no.»
«Cosa non ha detto, secondo te?» Alberto stava sgranando gli occhi.
«Più che non dire, credo non abbia approfondito. Ci ha dato le informazioni base, diciamo, sperando che tutto il resto lo capissimo da soli.»
«E cosa sarebbe tutto il resto?»
Alberto mollò le mani del vecchio e si appoggiò al muro, preoccupato di sentire nuove e inquietanti informazioni aggiungersi al peso di tutte quelle che già aveva ricevuto.
«Ho studiato il racconto per più di vent'anni, cercando di leggere tra le righe, ponderando ogni singola parola. Ho capito che dovevo tenere d'occhio la radura con le telecamere, per esempio e, ancora più importante, ho capito come costruire la macchina che potrebbe sconfiggere il fratello, se e quando verrà. Ma questo lo sai già.»
«È quello che ancora non so, che mi preoccupa!» disse Alberto sorridendo, cercando di sdrammatizzare un po'. In realtà, sentiva il cuore molto pesante ed era stanco. Molto stanco.
«Sarà importante l'atteggiamento che terrete tra di voi. Il gruppo dei nove dovrà essere unito, affiatato, dimenticando l'"io", e pensando unicamente al "noi". Questo è il succo.»
«Tutto qua? Mi sembra un po' semplicistica e banale, come conclusione.»
Lo sguardo di Franco si accigliò. Poi ridacchiò.
«Banale? Secondo te chiedere a un essere umano di non pensare a sé stesso è banale? Viviamo solo in funzione di questo! Pensaci bene... "Io" e "noi" sono le parole che pronunciamo più volte, nell'arco della nostra vita!»
«Beh... non è proprio così, dai. La storia è piena di gesti altruistici, persone che si sono prodigate per gli altri...»
«Alt! Fermati, Alberto! Non mi riferisco alla normalità quotidiana e ai piccoli e grandi gesti di altruismo, carità, bontà che si vedono nel mondo e che per fortuna esistono.»
Si schiarì la voce.
«Dobbiamo fare un passo indietro, un momento. So che sei stanco e questi discorsi sono pesanti, ma ti chiedo solo cinque minuti di attenzione. Poi tornerò alla baita. I tizi lassù devono vedermi rientrare e credere che ti ho lasciato nascosto nel capannone.»
«Ti ascolto.»
«Bene! Dunque, se ti ricordi, la donna ha detto ad Augusto che l'energia rossa, quando è stata scacciata, ha assorbito un po' del potere buono del padre. Appena qualche scintilla, ma misere particelle sono bastate comunque a fare in maniera che il mondo sia un posto vivibile, nonostante la tanta malvagità che ci ha sempre contraddistinto. Riesci a comprendere dove voglio arrivare? Un'enorme massa di energia cattiva... più che enorme; una quantità impossibile da immaginare per le nostre menti limitate, in grado di creare un pianeta come questo e tutta la vita che ci sguazza sopra, è stata lievemente sporcata dal bene, appena, appena contaminata. Eppure, il bene è riuscito, e riesce tuttora, a palesarsi. E con forza, direi! Abbiamo avuto guerre atroci e ancora le abbiamo, c'è stata una roba assurda come l'Olocausto, c'è il razzismo, la violenza sulle donne, stermini di massa, omicidi, e chi più ne ha, più ne metta. Sempre, tutto il giorno, tutti i giorni, si consumano atti di cattiveria, grandi e piccoli.»
Alberto abbassò gli occhi, provando all'improvviso un senso di vergogna profondo. Franco se ne accorse e gli prese di nuovo la mano.
«Ehi, non ti sto facendo la predica. La tua... storia adesso non c'entra. È un discorso generale, capito? Quindi... Stavo dicendo? Ah, sì. Ci sono tante cose cattive al mondo, grandi e piccole. Ed è dalle piccole poi che nascono le grandi, tipo il sassolino che causa la frana. "Parlare dietro" è una fonte di cattiveria, invidiare quello che hanno gli altri un'altra, non prendersi le proprie responsabilità, schernire, mentire... Oddio! Potrei farti migliaia di esempi! E da dove nasce tutto? Ci arrivi da solo?»
Alberto lo fissava, un po' inebetito. Tirò su col naso. «Ehm... Dalla malvagità?»
«Dall'egoismo, sempre e solo dall'egoismo. Io sono superiore, io ho ragione, io sono più bravo, io devo vincere, io voglio, io pretendo, io, io, io! Pensaci. In tutte le atrocità perpetuate dall'uomo, fin dai tempi più antichi, c'è sempre l'egoismo come base, questa continua esigenza che abbiamo di dover per forza imporre noi stessi sugli altri. Quando dall'altra parte troviamo qualcuno che ci tiene testa, scoppia la guerra; quando troviamo qualcuno che si piega, nascono gli schiavi. Adatta questo concetto alla vita di tutti i giorni, con le dovute proporzioni, in grande e in piccolo, e avrai la storia del mondo! Per fortuna, abbiamo anche tante cose belle. L'amore, l'amicizia, la serenità, la cortesia, sempre ammantate dall'"io", ma comunque presenti e pronte a regalarci momenti piacevoli. E, te lo voglio ribadire, solo per qualche minuscola scintilla di energia buona... Ora, pensa agli altri mondi, che a detta della donna sono pura energia gialla. Mondi in cui non esiste il male e niente di ciò che a esso è correlato. Prova a immaginare alle cose belle che l'energia gialla ci ha regalato... Ne dico una... L'amore!»
Gli fece l'occhiolino, certo che Alberto avrebbe pensato subito alla sua Francesca.
«Elimina tutto il male e le nostre nefandezze, e moltiplica le emozioni che provi quando sei con mia nipote per... quanto? Diciamo un miliardo? Ecco! Il risultato, forse, nemmeno si avvicina a come dev'essere la vita su questi altri mondi!»
«Un paradiso!» esclamò Alberto.
«Esatto! Bravissimo! Proprio un paradiso. Chissà, forse lo stesso paradiso dove si finisce quando si muore.» Ridacchiò appena. «Ma questo è un altro discorso...»
Strizzò di nuovo l'occhio.
«Capisci quindi, che immenso potere è quest'energia gialla? Comprendi cosa c'è qui dentro?» gli chiese, poggiando la mano sul suo petto.
Alberto ripensò a ciò che era successo con l'orso e a come l'aveva scacciato, semplicemente provando paura.
«Quando sarete riuniti tutti e nove, (e voglio sperare che succederà!), sarete la più grande fonte di bene dell'intero Universo, e per controllarla e sprigionarla dovrete imparare per prima cosa a slegarla dall'energia rossa, cioè da ciò che siamo, dalla nostra essenza. Una volta riusciti in questo, e sarà molto complicato... molto, molto complicato, vi accorgerete di quanto sarà facile controllare la fonte del male che è in voi! La rabbia, il dolore, l'invidia, la tristezza... tutte le schifezze che l'energia rossa si porta dietro, non vi apparterranno più, a meno che non siate voi a volerlo. A quel punto, solo in quel momento, sarà possibile sconfiggere il nemico. E non mi riferisco solo all'alieno che arriverà...»
«E a chi...»
«No, Alberto! A questo devi arrivarci da solo, come ci sono arrivato io. E prima che tu me lo chieda, vale anche per tutto il resto. Voglio che ripensi a tutto e che ci rifletti. Ne riparleremo quando e se il gruppo sarà al completo. Io, comunque, più di quello che ti ho detto non so andare. Posso solo dirti che, al momento, so benissimo che per te capire questo concetto è impossibile, come se ti chiedessi di immaginare che questo corridoio non abbia mai fine. O se ti chiedessi di descrivermi un nuovo colore. Ma sono fiducioso che ci arriverai, tu come gli altri. Dovete arrivarci!»
Alberto cominciava a sentire un leggero mal di testa mentre si sforzava di capire ognuna delle parole pronunciate dal vecchio. Decise di fare come aveva detto Franco e non approfondire, per il momento, sicuro che, se l'avesse fatto, avrebbe aumentato la confusione che aveva in testa. Si limitò a un'ultima domanda.
«Come puoi aver capito tutto questo, solo da un racconto?»
Franco sospirò, con un velato sorriso che appariva e scompariva sulle sue labbra come un'ombra, illuminata a intermittenza da una torcia.
«Dicono sia un genio, ma in fondo cos'è la genialità? Mi son sempre dedicato a cose che mi appassionano e in quelle riesco a immergermi totalmente. Forse è per questo che vedo, ho visto, cose che altri non sono riusciti a capire. Questa storia... una volta che ha catturato il mio interesse è diventata... mia, e a quel punto non poteva avere più segreti. L'ho smembrata parola per parola, lettera per lettera, come ho sempre fatto nei miei studi, nelle mie analisi. Ma più di tutto, è stato fondamentale l'arrivo del servo. Ve l'ho già detto, mi pare. Perché lo è stato, lo racconterò solo quando sarete tutti presenti, tu e gli altri otto.»
«Cioè? C'è dell'altro?» Alberto fece un passo verso di lui, indagandolo con lo sguardo.
«Sì! Ma quest'altra cosa la voglio dire a tutti, allo stesso tempo. Per adesso, basta così. Credo di averti incasinato la mente anche troppo, per oggi!»
Estrasse il mazzo di chiavi; a una delle anelle era attaccato un piccolo telecomando. Lo premette e una porzione rettangolare del muro bianco rientrò all'interno, scivolando silenziosamente verso destra, come guidato da un binario. Una luce si accese all'istante.
«Questa è la stanza che ti dicevo, quella proprio sotto la tua camera. Entra e restaci. Monica ti ha già lasciato la cena. Per stasera e solo per stasera, mangerai da solo.»
Alberto fece un passo avanti.
«Restaci!» ripeté Franco, guardandolo serio e in modo stanco.
«Va bene.»
«Ci vediamo domattina. Buona serata e buonanotte.»
Ripremette il pulsante e la porta si richiuse.
I due fratelli, compagni d'avventura di René, giunsero nel piccolo spiazzo sopra la valle, un quarto d'ora circa prima che Franco, Francesca e Alberto uscissero di casa per andare al capannone. Masi aveva detto loro che, una volta giunti in cima, avrebbero avuto un'ottima visuale di tutta la valle sottostante e che avrebbero impiegato non più di dieci minuti ad arrivare in basso. Mentre riprendevano fiato, constatarono che era tutto vero. La discesa, davanti a loro, era molto meno ripida e decisamente molto più breve della salita che avevano appena concluso.
«Io dico di scendere subito e finire in fretta questa storia!» disse il più giovane dei due, basso, muscoloso e butterato, con corti capelli biondi a spazzola.
«No! Dobbiamo aspettare» rispose l'altro, più vecchio di tre anni e quasi identico al fratello, solo più alto.
«Vuoi dire che prendiamo ordini da quel patetico e inutile ubriacone?»
«Io prendo ordini da chi mi paga. Ed è quel Masi che sgancia la grana. Ha detto di agire col buio e col buio agiremo.»
Buttò lo sguardo in giù, verso la valle. «Ha senso. Se andiamo adesso ci vedono di sicuro.»
«Potremmo nasconderci dietro a quel treno!»
«Piantala di dire stronzate! Aspetteremo il buio!»
«Che cazzo ci fa un treno lì in mezzo? Dici che c'è qualcuno di guardia in quella torre?»
«Cha cazzo ne so! La smetti con le domande idiote?»
Aguzzò la vista. «Non è chiusa, sta fabbrica?» aggiunse.
«Mi pare di sì. Che casermone! L'avevo visto solo in foto prima di oggi. È enorme.»
«Mangiamo?»
Tirò fuori dallo zaino alcuni panini, si sedettero per terra, appoggiati a un masso, parzialmente nascosti da alcuni grossi cespugli e mangiarono tranquilli.
«Secondo te chi è questo tizio che vogliono così tanto riavere?» chiese il più giovane, con la bocca piena di pane e prosciutto.
Il fratello gli lanciò un'occhiataccia, digrignando appena i denti.
«Non te ne deve fregare un cazzo, capito! Ci hanno detto di agire senza domande e questo faremo. René mi sembra un povero coglione, ma l'altro... è un uomo pericoloso, chiaro?»
Il giovane trangugiò una sorsata di birra e ruttò. «Ok, ok. Era solo una domanda.»
«Proprio quelle non devi fare!»
Dopo dieci minuti, videro tre persone uscire dalla baita: un vecchio su una carrozzella spinta da una donna e un uomo che li seguiva.
«Dev'essere quello il nostro uomo. Stanno andando verso il capannone.» disse il più vecchio, mettendosi in bocca l'ultimo pezzo di panino, mentre reggeva con l'altra mano il binocolo. Teneva d'occhio esclusivamente l'uomo, il loro unico obiettivo.
«Occhi aperti, mi raccomando. Dobbiamo sapere dove si trova, quando scendiamo.»
Alberto si guardò intorno.
La stanza era bassa e rettangolare, un po' più grande di quella in cui dormiva, appena un po' più su del soffitto ma, a differenza di quella, non aveva nulla di rustico e montanaro. Il letto, posizionato contro al muro di fronte alla porta, era una semplice brandina da campo con un comodino in ferro a fianco, di quelli che generalmente si trovano in una camera d'ospedale. A destra dell'entrata c'erano tre alti armadietti, pure di ferro, addossati alla parete, e scansie ricolme di cibi in scatola, barattoli e parecchie bottiglie d'acqua. Un piccolo cucinino e un minuscolo bagno, separati da una tendina di plastica, occupavano la zona in fondo, in un ambiente ricavato dietro la scala che scendeva dalla botola sul soffitto e che interrompeva la parete del letto. Quasi a ridosso della cucina c'era un piccolo tavolo, col ripiano in laminato plastico e due sedie di legno. Sul tavolino Monica aveva lasciato un vassoio con due piatti coperti da carta stagnola.
La sua attenzione fu però catturata da ciò che c'era nel muro alla sua sinistra; si avvicinò, meravigliato e titubante. Una console con quattro monitor allineati nella parte superiore e una lunga tastiera, piena di ogni genere di pulsanti, in quella inferiore, prendeva tutta la parete. Al centro esatto c'era un grosso microfono tra due altoparlanti, e altri, più piccoli, erano in fila, sopra la tastiera. Non era molto diversa da quelle che aveva visto nella grande fabbrica.
Capì di trovarsi in quello che doveva essere stato una sorta di centro di comando, chissà per cosa, adibito successivamente, (o forse no, forse lo era sempre stato) a nascondiglio d'emergenza. Se il letto e il mobilio (se così si poteva chiamare) non fossero stati così vecchi, avrebbe avuto il sospetto che quella stanza fosse stata preparata apposta per lui, ma sapeva che non era così.
Quel vecchio aveva costruito, in quel capannone, un vero e proprio laboratorio stile film, o forse più cartone animato, visto che ne era appassionato. Avrebbe voluto esplorare anche il resto di quel meraviglioso e misterioso posto, sicuro che avrebbe trovato posti simili a quello in cui si trovava ora, forse anche più sofisticati.
Inoltre, c'era quella torre, lassù. Monumentale e bellissima. Quali meraviglie conteneva? E come veniva impiegata nel periodo di attività della FDS? Decise che lo avrebbe chiesto a Franco, quando e se la situazione fosse stata più tranquilla, magari durante la visita allo stabile che il vecchio gli aveva già promesso.
Si sedette davanti alla console a braccia incrociate, guardando la serie di pulsanti con aria quasi divertita. I quattro monitor, incassati nel pannello superiore erano vecchi e parevano gli schermi che venivano usati negli uffici degli anni Ottanta. Per chi viveva in un'epoca di schermi ultrapiatti ad altissima risoluzione, obiettivamente, facevano un po' sorridere. Sotto a ognuno era stata attaccata una striscia di nastro di carta e ognuna portava una dicitura: "Panoramico", "Ciasa de Bortoli", "Vetta del Lupo", "Rossi". Alberto aggrottò la fronte, ricordandosi quello che gli aveva detto Francesca.
"L'unico modo per arrivare qui è tramite i sentieri che attraversano le montagne."
Erano i loro nomi, quelli? Gli ultimi tre, potevano riferirsi a qualsiasi cosa, ma "Panoramico" poteva essere il nome solo di un percorso montano. Possibile che da lì era in grado di sbirciare cosa succedeva sulla montagna, sopra di lui? Era da quella stessa stanza che Monica aveva visto arrivare gli sgherri di Masi per riportarlo all'abbazia? Dubitava! Sospettava ci fossero postazioni del genere in altre stanze di quel complesso. Forse anche nella stessa baita, dove ancora non aveva visto il piano superiore, per esempio.
Immaginava che la console certamente non fosse collegata, o addirittura non funzionasse più, da chissà quanto tempo. Studiò i pulsanti che aveva sott'occhio. Ce n'era uno tondo, grosso e nero con scritto "ACTIVATE" sotto. Lo premette, ma non successe nulla. Ridacchiò.
«Come volevasi dimostrare!» disse.
Si distese all'indietro, intrecciando le mani dietro la testa, sentendo pizzicare nuovamente il collo. «Ouh!»
Si massaggiò. Si era quasi dimenticato di quel dolorino; da quando erano usciti dalla baita, non si era più presentato. Ora però gli stava ricordando che era ancora lì. Continuò a lisciarsi la parte dolorante e intanto contemplava la foresta di pulsanti che aveva davanti, un po' deluso. Girò il collo per ottenere uno schiocco tonificante, prima a sinistra, poi a destra. Fu allora che notò un piccolo pannello sul muro, che non aveva notato prima. Era chiuso da uno sportellino di plastica e conteneva, all'interno, due bottoni rossi in verticale. A fianco c'erano due targhette in metallo, con scritto "ON" e "OFF".
«Vuoi vedere che...» disse, mentre apriva lo sportello e pigiava su quello più in alto.
Sentì un ronzio provenire dalla console, seguito da una serie di "bip, bip" a intervalli non regolari. Alcune piccole lampadine si accesero, ma i monitor rimasero spenti.
Restò per alcuni secondi immobile, guardando sconfortato gli schermi neri. Sotto a ognuno si era accesa una lucina rossa.
«Pirla! Devi accendere anche quelli!» mormorò.
Pigiò il pulsantino a fianco della lucetta e lo schermo con la voce "Panoramico" si illuminò, mostrando una piccola radura vuota. Un sorriso si allargò sul suo viso. Accese il secondo; l'immagine era sostanzialmente uguale. Il terzo era quello che gli interessava.
Vide i due tizi, vicino a un cespuglio; uno dei due sbirciava in una direzione, certamente verso la valle.
Il quarto schermo era come i primi due.
Decise di lasciare acceso solo il "Vetta del Lupo". Era soddisfatto. Almeno poteva vedere quando sarebbe iniziato il tutto e rimanere vigile. "Resta nella stanza" si era sentito dire fino allo sfinimento. Avrebbe obbedito, ma se avesse avvertito anche solo il minimo pericolo per Franco o Monica, sarebbe intervenuto. Non aveva visto scale vicino all'ascensore (ma non era detto non ci fossero), quindi uscire da dove era entrato poteva rivelarsi una perdita di tempo, in una situazione dove, sicuramente, fare in fretta era essenziale.
Si alzò e si diresse verso la botola; salì le scale e trovò quello che pensava di trovare. All'altezza dell'ultimo scalino, sul muro a sinistra, c'era un pulsante. Lo premette ed emettendo gli stessi lievi rumori della console, la botola si aprì. Sbucò con la testa e guardò la sua stanza, sorridendo. Poi tornò giù, richiudendo l'apertura. Si sedette al tavolo e mangiò, tenendo d'occhio il monitor "Vetta del Lupo".
Era decisamente presto per cenare, ma aveva fame e voleva tenersi libero e pronto all'azione per tutta la serata, se ce ne fosse stato bisogno.
Il cielo ormai aveva assunto tinte viola e blu scuro e ben presto il nero della sera avrebbe avvolto tutto.
I due fratelli si davano regolare cambio per tenere d'occhio la valle continuando a scrutare il sentiero da dove erano arrivati.
«Ma dove cazzo è, René? È quasi un'ora che siamo arrivati!» disse il più giovane dei due.
L'altro, lo sguardo fisso sugli edifici sotto di loro, stava per rispondere, quando la porta del capannone si aprì e la donna, entrata precedentemente, uscì, da sola.
«Sta giù!» sibilò il ragazzo.
«Ma non ci può vedere da là!»
«E te sta giù lo stesso, cazzo! Passami il binocolo, svelto!»
La videro avviarsi verso la baita, entrare e uscirci dopo poco, con una piccola sacca in mano. Si avviò verso il piccolo treno rimasto in mezzo al prato e, dopo pochi minuti, partì, sparendo in un attimo all'interno della gola.
«Hanno nascosto il nostro uomo nel capannone. Ora è tutto nostro» ridacchiò, voltandosi verso il fratello.
«E il vecchio?»
«Cazzo te ne frega! Hai paura di uno storpio?»
«No! Volevo solo dire che siamo qui per il tizio. Il vecchio potrebbe essere d'intralcio.»
«Peggio per lui se dovesse ritrovarsi in mezzo alle palle!»
«Ormai è buio. Cosa facciamo? Quella mezza sega di René ci ha detto di aspettare.»
«È solo un peso morto. Andiamo!»
«Voi non andate da nessuna parte se non ve lo dico io!»
René sbucò nello spiazzo, rosso in viso, senza fiato, lasciandosi subito cadere per terra. Estrasse la borraccia dallo zaino e se la svuotò in gola.
«Dove cazzo volevate andare? Comando io, qua!»
«Comandi tu? Noi siam qui da un'ora!» disse il più giovane, piantandosi in piedi davanti a lui.
«Che cazzo vuoi? Se volete essere pagati farete quello che dico io, senza commenti!»
Si rialzò a fatica, e li guardò, prima uno, poi l'altro
«Allora? Chi è un peso morto? Chi è una mezza sega?» disse, sorridendo con uno sguardo di sfida, come a incitarli a ripetere quello che avevano appena detto.
Intervenne il fratello maggiore, bloccando con la mano l'altro che aveva già aperto la bocca.
«Scusa, René. Siamo solo un po' stanchi.»
Li fissò poco convinto, poi scosse la testa e sputò per terra.
«Ragguagliatemi!»
«Hanno portato il tizio dentro il capannone. È ancora lì.»
«Siete sicuri?»
«Sì. È uscito dalla baita col vecchio e una donna. Dopo una quarantina di minuti, dal capannone, è uscita solo la donna.»
René guardava giù e rifletteva, lisciandosi la barba, umida di acqua e di sudore. «Il vecchio è ancora dentro, quindi?»
«In teoria, sì» disse il più giovane.
René lo guardò. «Passami il binocolo.»
Sbirciò la baita, poi il capannone.
«Sembra tutto tranquillo. Non volevo che il vecchio ci vedesse, ma non voglio nemmeno star qui tutta la notte. Cazzo!»
«Che problema c'è? Facciam fuori il vecchio se si mette in mezzo.»
«No! Cazzo! No! Dobbiamo recuperare un evaso che in teoria non esiste! Nessuno deve sapere. Ma con un morto di mezzo...»
«Un evaso? Evaso da dove?»
Lo sguardo di René assunse una sfumatura di terrore vero, accorgendosi di essersi lasciato scappare una parola di troppo. Ma riprese subito il solito cipiglio arrogante e arcigno. «Che cazzo te ne frega a te?»
«Niente! Non ce ne frega niente!» s'intromise l'altro, guardando torvo il fratello. «Non vogliamo sapere chi sia questo tizio. Siamo qui solo per recuperarlo, giusto?»
«Già! E sarà meglio che non ve lo scordiate.»
Proprio in quel momento si aprì la porta del capannone e ne uscì il vecchio.
«State giù!» bisbigliò René.
Manovrando i comandi della sedia a rotelle, Franco stava percorrendo il piccolo vialetto che portava alla baita, per poi sparirci dentro.
René sorrise. Tutto sembrava si stesse incastrando nel migliore dei modi.
«Coraggio! Andate e fate bene il vostro lavoro. Ricordatevi che Masi lo vuole vivo.»
«Tu non vieni?»
«No. Vi aspetto qui. Dovete pur guadagnarveli i vostri soldi!» disse, mentre si rimetteva seduto ridacchiando.
Alberto era sdraiato sul letto con una birra in mano, dando fugaci occhiate al monitor e cercando di rilassarsi, per quanto possibile, dopo tutte le cose che aveva visto e sentito quel pomeriggio.
Pensava a Francesca e ai bei momenti passati con lei solo qualche ora prima e ringraziava (nemmeno lui sapeva chi!) di poter fare pensieri così piacevoli, nel marasma di preoccupazione e confusione in cui era piombata la sua testa. Le parole di Franco sull'energia buona e cattiva e su quello che sperava imparassero a fare, ronzavano dentro di lui inquiete, incapaci di trovare un posto in cui posarsi e calmarsi, in modo da farsi capire.
In tutta onestà però, non aveva una grande voglia di capirle. Le percepiva come mosche fastidiose, o forse zanzare, pronte a pungerlo. Così le scacciò con la mano, come se fossero veramente insetti che gli volavano intorno, rendendosi subito conto della stupidità del suo gesto. Ridacchiando diede un'altra sorsata e lanciò uno sguardo agli schermi.
La birra gli andò di traverso e si sollevò di scatto, mettendosi seduto e rovesciando un po' di liquido per terra. Subito una fitta gli attraversò il collo, irradiando dolore fino alla spalla. Chiuse gli occhi per il male, toccandosi prontamente il punto con la mano, ma li riaprì all'istante, per assicurarsi d'aver visto bene.
Gli uomini nel video erano diventati tre e conosceva molto bene il nuovo arrivato. Lasciò la bottiglia sul comodino e si piazzò davanti allo schermo. Li vedeva parlare, ma non poteva sentire ciò che dicevano. Le telecamere piazzate da Franco non avevano il microfono. Sentiva l'ansia crescere. Aveva una mezza idea di quale potesse essere il piano di Franco e Monica per catturare quei due e tutto era basato sulla sorpresa. Rischiavano però di riceverne loro stessi una più grande. Si aspettavano due uomini, non tre. Sicuramente la donna era già in posizione e Franco... forse era già a letto. Se si fossero mossi tutti e tre, sarebbe dovuto intervenire.
Tirò un sospiro di sollievo quando vide René sedersi e i due giovani sparire dal monitor.
Si risedette anche lui, gli occhi fissi sull'uomo che bullizzava a più riprese Fabio Santini.
«Muoviti da lì e vengo a prenderti a calci nel culo, stronzo!» disse, a denti stretti.
I due fratelli impiegarono otto minuti per giungere in basso, sfruttando gli ultimi spruzzi di visibilità che il sole riusciva ancora a lanciare.
Giunti nel prato antistante gli edifici, l'oscurità del cielo era quasi totale e il capannone era solo un'enorme massa nera sullo sfondo. Nella baita invece, una leggera luce tremolava da una finestra senza però destare in loro alcun interesse.
Si diressero verso il loro obiettivo, camminando sull'erba con cautela. Attorno a loro il silenzio era assoluto, contaminato solo dallo scroscio dell'acqua del fiume che si gettava a cascata e che giungeva a loro ovattato, ostacolato dall'imponente mole di cemento che c'era nel mezzo.
Nei pressi del capannone si acquattarono contro al muro, accesero le torce ed estrassero le piccole pistole fornite da Masi.
La porta era a pochi metri da loro e, piano, piano, si avvicinarono. Si erano portati dietro alcuni strumenti per lo scasso, supponendo di trovarla chiusa a chiave ma, con loro grande sorpresa, era socchiusa.
«È la nostra serata fortunata!» bisbigliò il fratello maggiore, voltandosi verso il fratello.
Con la mano con cui impugnava l'arma, la spinse appena, aprendola quel tanto che bastava per farli passare.
L'interno era completamente immerso nella più totale oscurità. S'introdussero nel capannone, in silenzio, gettando piccoli cerchi di luce davanti e attorno a loro.
«Dove pensi potrebbero averlo nascosto?» sussurrò quello dietro.
«Dentro a una stanza, immagino. Dobbiamo trovare gli uffici.»
Nel silenzio irreale che li avvolgeva, quei bisbigli si allontanavano, gonfiandosi quasi di oscurità, e tornavano alle loro orecchie ingigantiti, tanto da sembrare quasi delle urla. Il fratello maggiore rabbrividì e tutta la baldanza, l'arroganza che si era sentito addosso fino a quel momento, scivolò giù, partendo dal collo e arrivando fino ai piedi in un lungo rivolo gelato, tanto da indurlo a illuminarsi le scarpe, certo di vederle bagnate fradice.
«Che fai? Ti guardi i piedi? Illumina in avanti, scemo!»
Ripuntò la torcia in avanti, dandosi dell'idiota. Ma il senso di disagio non lo abbandonava; si sentiva osservato da occhi che non erano quelli di suo fratello, ma di qualcun altro (o qualcos'altro?).
Avanzarono ancora, senza sapere dove andare, passando a fianco di gigantesche ombre nere che, illuminate, rivelavano essere strani macchinari coperti da enormi lenzuoli bianchi.
"Che piano del cazzo!" pensò, rendendosi conto solo ora del perché René era rimasto, tranquillo, ad aspettare lassù.
«Dove stiamo andando, me lo dici?» lo incalzò il fratello, dando un po' di colore al bisbiglio.
«Non lo so! È come cercare un ago in pagliaio. Siamo stati dei coglioni a non ragionare prima sull'assurdità di questa cosa!»
D'improvviso tutte le lampade poste sopra la loro testa si accesero, investendoli di una luce forte, accecante, accompagnata da una voce che li impietrì sul posto.
«E ora mi fate il gentile piacere di posare quelle due pistole a terra e calciarle indietro verso di me, subito! Siete giovani, amanti del calcio suppongo. Voglio vedere un bel colpo di tacco! Poi potete voltarvi, grazie!»
Era una voce di donna che parlava alle loro spalle e li colse del tutto di sorpresa.
«Merda!» disse il fratello più piccolo e d'istinto girò leggermente la testa.
Monica, senza esitare, fece partire un colpo dalla pistola che puntava su di loro. Il proiettile scheggiò il pavimento a fianco del piede del ragazzo e schizzò in alto, andando a cozzare contro una delle balaustre dei corridoi per poi piantarsi tra alcune casse di legno che erano abbandonate contro il muro. Il rumore dello sparo echeggiò per tutto l'ambiente. I due ragazzi si erano abbassati d'istinto e, capito che quella faceva sul serio, obbedirono all'ordine ricevuto. Poi si voltarono.
L'enorme donna che avevano davanti stava facendo tintinnare due paia di manette tra le mani, e sorrideva.
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