15 - IL PONTE (2)

Masi quasi correva, continuando a imprecare e sostenere a male parole Karl ed Enrico che faticavano a stargli dietro. Di una cosa era certo: se AR396 era ancora vivo, lo stavano raggiungendo.

«Forza, lumaconi! Che cazzo di uomini siete!» gridava.

In mezzo alla neve c'era un piccolo oggetto nero; si fermò e lo raccolse. Era una borraccia, vuota e abbandonata.

"Arrivo AR396, arrivo." pensò, con un ghigno distorto che gli deformava la faccia.

Le due guardie, visto il loro capitano fermarsi, ne approfittarono per riprendere fiato, una decina di metri più indietro. Erano entrambi piegati in avanti, con le mani sulle gambe, uno di fronte all'altro. Enrico dava le spalle alle montagne e guardava il suo collega scuotendo la testa.

In quel momento, dagli alberi alle sue spalle, sbucò l'orso.

Digrignava i denti ed emetteva un rauco e continuo ringhio sommesso mentre, a grandi falcate, copriva la poca distanza che lo separava da loro.

Masi girò d'istinto la testa, mentre Karl alzava la sua, nello stesso istante che l'animale si fiondava sulla schiena di Enrico facendolo stramazzare al suolo con un urlo di terrore. Lo azzannò al collo e tirò, strappandone via metà.

Karl, sbiancato dalla paura, indietreggiò di qualche passo, armeggiando con la mano sul pomello dello sfollagente.

«Sparagli coglione!»

La voce di Masi sembrava provenire da un altro pianeta, mentre pietrificato osservava il suo amico urlare, straziato dai morsi e dagli artigli della bestia.

Non sentì nemmeno partire il colpo, ma d'improvviso vide l'orso lanciare un guaito, assolutamente incompatibile con la mole di pelo e grasso che mostrava. Fece un balzo all'indietro e ruggì verso la pistola puntata su di lui. Masi sparò ancora, centrandolo nel fianco. L'orso ansimò e abbassò la testa, come se volesse inchinarsi a chi gli stava dando la morte. Il capitano fece tre passi in avanti, l'orso emise due grugniti di dolore, poi si girò e si allontanò claudicante.

«Spari, capitano, ucida lui!» esortava Karl, ripresosi dallo shock.

Ma Masi rinfoderò la pistola.

«Lasciamolo riflettere sulle sue azioni, mentre muore dissanguato» pronunciò, col solito ghigno a incorniciargli la faccia.

Rivolse uno sprezzante sguardo a Enrico, immobile, riverso a pancia in giù con la schiena completamente smembrata. Lo girò col piede e lo fissò negli occhi per alcuni secondi.

«Muoviamoci, su!» disse poi e si rimise in cammino.


Il sole aveva ormai scacciato dal cielo ogni residuo della notte e Alberto poté chiaramente vedere le montagne interrompersi e continuare aldilà del fiume.

Si fermò, recuperò un po' di fiato e bevve l'ultimo sorso d'acqua rimasto, gettando anche quella borraccia nella neve.

Erano le 7.22 ed era stato bravo.

Si girò a contemplare tutta la strada che aveva percorso, a fatica, braccato dai lupi, da un orso e, forse, da un gruppo di guardie.

La lunga striscia bianca di neve si srotolava dietro di lui, risalendo leggermente fino al bosco, che era ormai solo una macchia scura in lontananza. Con una fitta al cuore pensò al suo amico che, con tutta probabilità, giaceva ancora vicino alla catasta di legna, desiderando fosse lì con lui, adesso che ce l'aveva quasi fatta. E, senza preavviso, il pensiero si posò poi su Francesca, sul suo volto, sul suo corpo: gli mancava da morire.

Scorse due piccoli punti neri che parevano muoversi, a parecchia distanza da lì. Aguzzò la vista per quel che poteva: erano senza dubbio due uomini; non riusciva a distinguerli bene, ma il panico che lo investì non poteva essere frainteso.

Lo stavano inseguendo.


Lo sciabordio dell'acqua che scendeva a valle era il rumore predominante; il fiume si nascondeva ancora dietro agli alberi, ma Alberto era ormai solo a duecento metri dal punto dove, finalmente, le due rive mostravano com'erano fatte, uscendo dal bosco con una secca curva a novanta gradi. Coprì in fretta il breve tratto, col cuore che martellava di emozione e paura.

La gola in cui il fiume si infilava era angusta e del tutto all'ombra, compressa tra due alti crostoni di roccia collegati da un ponte di legno, attraversato da una striscia di binari che sbucava, sia da un lato che dall'altro, da due gallerie.

L'acqua del fiume, complice un piccolo dislivello del letto proprio all'imbocco della gola, sciabordava in maniera impetuosa in una cascatella che, tra schiuma e bolle, provocava leggere onde che parevano essere in gara tra loro per arrivare a infrangersi prima delle altre. Il fragore, proiettato in alto, rimbalzava tra i due fianchi di roccia, creando un'eco continua e assordante.

Il ponte, sebbene palesemente vecchio, era imponente, e compariva alla vista all'improvviso, suscitando una buona dose di meraviglia. Era alto circa trenta metri e composto da dieci piani, i primi cinque speculari ai fianchi dell'arcata rettangolare sotto cui scorrevano le acque del fiume. Ogni livello era collegato da una rampa di scalini di legno che dava accesso a quello superiore. Gli ultimi cinque piani erano, ciascuno, un lungo corridoio che andava da parte a parte. Dal piano subito sotto ai binari si accedeva, a destra come a sinistra, su una piccola banchina in legno, protetta da una bassa ringhiera, letteralmente sospesa nel vuoto. E qui, dall'altro lato del fiume rispetto a dove si trovava, Alberto vide il treno, il suo mezzo per la libertà. La locomotiva era quasi per intero dentro alla galleria, per permettere al vagone di essere fermo in corrispondenza della banchina.

C'era una donna lassù, in piedi, con le mani appoggiate sulla bassa balaustra, ferma a scrutare nella sua direzione. Pareva una di quelle madonnine che si trovano sulla cima dei monti, beate e riposate, che sorridono al viandante sudato dopo la faticosa scalata. Sennonché si mosse, dopo averlo visto. Agitò un braccio, urlando qualcosa che si confuse nel frastuono dell'acqua. Alberto alzò il braccio di rimando, ma lei continuava ad agitare il suo. Gli parve di udire qualcosa emergere dal gorgogliante sciabordio che rivestiva la gola; un suono, prolungato e acuto, nitido rispetto alla ruvidezza dell'altro. Ripensandoci successivamente, non sapeva cosa lo indusse a voltarsi, ma lo fece e si salvò la vita.

Il branco di lupi era riemerso dal bosco, appena prima della curva a gomito del fiume, e stava dirigendosi su di lui senza esitazione. Il capo, nel suo meraviglioso pallore, era in testa e ululava, spronando i suoi alla caccia.

Questa volta Alberto non diede occasione agli occhi della bestia di catturarlo. Si voltò e iniziò a correre nella neve, più alta dove i raggi del sole non arrivavano a scioglierla, dirigendosi a fatica verso la prima rampa, rasente alla roccia.


Franco Masotti bussò alla porta del direttore Francesca Fontana nell'attimo esatto in cui Astra emetteva il suo ululato profondo, per aizzare i suoi compagni all'assalto dell'uomo, solo nella neve.

La donna aprì gli occhi di scatto, non per i colpi alla porta, ma per aver udito la voce della sua lupa, così chiaramente. Rimase qualche secondo a fissare la stampa appesa al muro, cercando di comprendere se l'ululato avesse vibrato nelle sue orecchie o nella sua testa. I bussi alla porta echeggiarono ancora per tutto l'ufficio, distogliendola dai suoi pensieri. Si alzò, entrò nella sala, raccolse la vestaglia dal divano e si rivestì.

Quando aprì la porta si ritrovò davanti un infreddolito Masotti, ansimante, e si accorse, con una leggera punta di fastidio, che le stava fissando le gambe e i piedi nudi.

«Ebbene?» gli chiese.

Lui alzò gli occhi, quasi colto alla sprovvista.

«Abbiamo ritrovato Santini e NC360, direttore. O almeno ciò che restava di loro.»

«Morti?» Un velo di panico cominciò a calarle addosso. «Come?»

«Uccisi. Sbranati. Santini dai lupi, crediamo. NC360 da un orso, secondo Masi.»

«Un orso? Ci sono orsi nel nostro bosco?»

La guardia tacque.

«E AR396?» chiese poi, cercando di apparire il più distaccata possibile.

«Il capitano lo sta cercando giù alla pianura. Ritiene sia scappato da quella parte. Karl ed Enrico sono con lui.»

«Potrebbe essere morto anche lui?»

Assunse per un attimo, senza volerlo, un'espressione di preoccupazione, ma se la levò subito, sperando Masotti non l'avesse notata.

«Non lo so, direttore. Ci siamo separati alla fine del bosco e ho richiamato Masi subito dopo aver trovato NC360. Poi non li abbiamo più sentiti. Io e Peri siamo tornati qui e non abbiamo incontrato più nessun cadavere.»

«Va bene. Sentite da Burci e Vignoli se hanno bisogno d'aiuto con gli altri detenuti. Altrimenti potete tornare a casa.»

«Grazie direttore e buona... giornata.» ma la donna aveva già chiuso la porta.

L'aveva liquidato in fretta, prima che lui potesse vedere le lacrime formarsi alla base degli occhi in tutta fretta. Si sedette sul divano con la fronte appoggiata al palmo e il gomito sulla coscia, piangendo.

Poi prese il cellulare, cercò il numero e chiamò.


Fin da bambino Pietro Masi era stato bravo a leggere le tracce sui terreni; quel giorno stava sfruttando la propria abilità al cento per cento. Ma quello che scorgeva e scopriva in quel preciso momento, proprio non riusciva a capirlo.

Avevano trovato la carcassa smembrata di un lupo ed era chiaro come il cielo che si stava formando sopra di loro, che a ucciderlo fosse stato lo stesso orso che aveva ucciso Enrico, senza nemmeno il bisogno di dare un'occhiata alla serie di impronte che il grosso animale aveva lasciato. Appena più avanti, la neve comunicava che un uomo era stato circondato da un branco di lupi, certamente messi poi in fuga dall'orso.

"Sei stato fortunato, figlio di puttana!" pensò. "Ma come hai fatto a sfuggire all'orso?"

Si chinò, per esaminare più attentamente il terreno.

«Ma kosa è sucesso qui, capitano?»

«Silenzio!»

Vedeva AR396 scappare e l'orso inseguirlo; vedeva l'uomo crollare a terra, forse rassegnato all'inevitabile morte e la bestia braccarlo. L'aveva praticamente preso, ma poi? Lì, le sue capacità si bloccavano. Vedeva l'orso scappare, ma perché? Come aveva fatto a farlo fuggire? E cos'erano quei due piccoli buchi nella neve? Fissava l'erba che ne sbucava e rifletteva, ma più si sforzava e più tutto gli sembrava senza senso.

"Vorrà dire che me lo farò dire da lui, se lo prendo vivo, prima di cominciare a divertirmi!"

Si girò verso Karl che osservava la scena con un'espressione di stupore e di disgusto.

«Andiamo!» disse, muovendosi.

Non passò molto prima che il capitano si fermò di nuovo. Si schermò gli occhi con la mano, per proteggersi dal sole che, se pur ancora debole, era sorto proprio di fronte a loro.

«È là!» sorrideva, mentre osservava in lontananza.

Karl provò a strizzare gli occhi per mettere più a fuoco che poteva ma, evidentemente, non vedeva quello che gli occhi del suo capitano avevano appena scorto. O, se l'aveva visto, l'aveva interpretato in altro modo.

«Dofe capitano?»

Masi sbuffò, dandogli un'eloquente occhiata di disgusto.

Poi udirono l'ululato di Astra e videro (stavolta anche il tedesco condivise la stessa idea del suo capo) una macchia scura uscire veloce dagli alberi e spostarsi in fretta verso le montagne.

«I lupi!» disse.

«Perspicace! Su, muoviamoci. Stiamo per andare a osservare un altro cadavere.»

In quel preciso istante il telefono di Masi trillò. Guardò il display e imprecò.

«Direttore... No, non l'abbiamo ancora trovato... Credo sia vivo... Forse giù in paese... Dubito a casa di Santini, si aspetta che andiamo a controllare... Certo, senz'altro...» Chiuse la comunicazione. «Stupida baldracca!»

«Non le ha detto dei lupi? Nemeno di quello trofato morto» chiese Karl.

«Solo quando saremo sicuri. Andiamo!» e si rimisero in marcia, con un'andatura quasi da corsa.


Francesca pose il telefono sul tavolino e cominciò a riflettere.

Alberto era vivo e stava scappando lontano da lei. Dove se ne stava andando? Dove pensava di potersi rifugiare senza che lei lo scovasse? E perché Fabio l'aveva aiutato a fuggire? Lui e quell'altro?

Sentiva fortissima la tentazione di chiamare suo zio, colui che l'aveva indotta ad assumere quel grasso ragazzo, falso e traditore, e cercare di capire se lui sapesse qualcosa. Poteva essere invischiato anche lui? Le pareva assurdo. Suo zio! Cosa poteva mai centrare con quei due ergastolani. Forse aveva deciso di spifferare tutto quello che sapeva sull'abbazia? Una sorta di piccola vendetta per l'allontanamento da sua sorella? No, non sarebbe stato il suo stile. Era malato, aveva problemi più seri a cui pensare. O no? Dopotutto, cosa sapeva realmente su quel vecchio uomo? Non si sentivano più da anni... E poi perché adesso? E perché Alberto? Proprio l'uomo di cui lei si era innamorata, come una stupida liceale. La coincidenza era troppo assurda e lei non credeva troppo alle coincidenze.

"L'hanno tirato in mezzo per caso. Lui non aveva intenzione di lasciarmi. Ne sono certa" pensò, cercando di convincersi senza riuscirci troppo.

Aveva ordinato a Masi di riferirle immediatamente qualsiasi novità scoprissero, piccola o grande che fosse.

Si appoggiò allo schienale del divano e si mise ad aspettare, fissando il display del cellulare senza mai distogliere lo sguardo.


Alberto giunse alla scala e si tuffò sul primo gradino.

Si era voltato una volta sola, nel momento in cui uno dei suoi piedi era affondato particolarmente a fondo nella neve ghiacciata ma non abbastanza, e aveva visto con leggero sollievo che anche i lupi faticavano a correre, seppur meno impacciati di lui. Aveva circa trenta metri di vantaggio, ma quando iniziò la salita della prima rampa constatò, dall'ansimare e dai bassi ringhi gutturali che giungevano alle sue spalle, che il vantaggio era calato.

Si issò sul primo livello gettando una fugace occhiata ai suoi inseguitori. Il lupo bianco era quasi agli scalini e due del branco gli erano subito dietro. Aveva afferrato i montanti di legno ai suoi fianchi per darsi più slancio verso la seconda rampa e non aveva notato, alla sua destra, l'asse orizzontale, che faceva da corrimano, spezzata in due, con uno spuntone aguzzo proprio sulla traiettoria della sua mano. Si spinse in avanti e si graffiò in profondità il dorso, appena sopra il polso. Il dolore lo raggiunse come una palla di neve scagliata con violenza e si appoggiò al parapetto opposto per un secondo, tenendosi la mano e guardandosi la ferita. Il sangue stava già colando copioso, sporcando tutta la manica del giaccone.

Il lupo intanto era a metà della rampa.

Alberto si girò in fretta e si avviò verso gli altri scalini, mentre uno degli animali ancora a terra, saltò per afferrarlo, piantandogli gli artigli all'altezza della caviglia. Alberto urlò dal dolore ma riuscì a restare in piedi, scartando per un pelo la zampa di un secondo lupo.

Si tuffò sugli scalini di slancio, ma il capobranco, con un balzo, gli fu sulla schiena, piantando gli artigli nella spessa tela del giaccone. Alberto sentì le unghie trapassare la tela e incidere la sua carne; il sangue caldo cominciò a fluire.

Cadde in avanti, per metà già sul secondo livello, scalciando alla cieca con il piede sano e colpendo, per puro caso, il lupo bianco sul muso. L'animale grugnì, ma riuscì ad addentare il lembo della giacca, tirando più forte che poteva. Alberto si aggrappò con la mano ferita al palo di fronte e sfilò l'altro braccio dalla manica; poi, con una veloce torsione, mollò la presa, sentendo quella del lupo cedere all'indietro e, girandosi prontamente su un fianco, sfilò anche l'altra manica. Senza indugi si rialzò e corse verso la terza rampa. La giacca scivolò su Astra che ringhiò di rabbia mentre dal muso colpito gli gocciolava un po' di sangue. Riuscì coi denti a spostare la giacca, gettandola all'indietro e coprendo parzialmente il lupo fermo dietro di lei, alla base degli scalini. Guardò il suo branco, in fila, ringhiante, in attesa che lei si muovesse per riprendere l'inseguimento.

Alberto aveva riguadagnato qualche metro e si era già issato sul terzo livello, zoppicando. Perdeva sangue dalla mano, dalla caviglia e dalla schiena, ma l'adrenalina, pompata a mille in quel momento, gli attenuava il dolore e gli faceva vedere solo la meta, sotto forma di treno, aspettarlo venti metri più in su.

Il branco aveva ripreso la corsa dietro ad Astra che, più agilmente di tutti, saliva gli scalini a due alla volta.

Alberto si issò al quarto livello ma aveva già notato che il piccolo vantaggio accumulato grazie al giaccone era quasi sparito. Mentre arrivava alla quinta rampa, Astra era già sull'asse della quarta. Arrivato sul piano, Alberto si sedette e si girò, proprio mentre la testa del lupo faceva capolino sui primi scalini. Non appena fu a tiro, dall'alto al basso, con tutta la forza che poté imprimere al piede, colpì con violenza l'animale in mezzo agli occhi. Il guaito risuonò nella gola, sovrastando il brontolio dell'acqua. Astra scivolò indietro, cozzando il lupo che già aveva iniziato a salire e spingendolo verso il bordo. Il corrimano era montato a circa un metro di altezza e la parte sottostante era senza protezione. L'animale cercò di aggrapparsi all'asse con gli artigli, ma lasciandovi quattro profondi solchi, scivolò e cadde nel vuoto, sbattendo contro due delle assi dei piani inferiori, spezzandosi la schiena. Astra contemplò il lupo morto, immobile nella neve, svariati metri sotto di lei poi, leccandosi il sangue che gli ricopriva copioso il muso, ringhiò verso l'uomo che stava già salendo sulla sesta rampa e, ululando furiosamente si lanciò alla carica, seguito dai compagni rimasti.

Alberto contava d'avercela fatta ormai; gli scalini degli ultimi cinque livelli erano consecutivi, tutti posizionati al centro, creando, in pratica, un'unica rampa fino al nono livello. A differenza di quando stava per essere attaccato dall'orso, il panico non l'aveva assalito, anzi, sentiva un'inaspettata carica scaldargli il corpo e le gambe abbastanza agili, per la prima volta da quando aveva lasciato l'abbazia. Più si avvicinava alla cima, più sentiva l'incitamento della donna che lo attendeva al treno sovrastare appena l'eco dello scroscio d'acqua che rombava nella gola. Fabio aveva detto che si chiamava Monica. Era sporta sul parapetto della banchina, ma lui non poteva vederla.

Salì i gradini in un lampo e si issò sul livello sotto i binari, con i lupi ancora due piani sotto. Si diresse di corsa verso l'ultimo accesso, direttamente sotto la banchina. Monica sbucava con la testa, in cima agli scalini.

«Dai, dai che ce l'hai fatta!»

Non vide l'asse appena sollevata, proprio davanti a lui ormai a solo dieci metri, e crollò in avanti, dirigendosi paurosamente verso il vuoto alla sua sinistra, protetto solo da un palo orizzontale. Scartò a destra mentre cadeva e sbatté la mano ferita sul legno. Il dolore fu lancinante e per un attimo la vista gli si oscurò.

«Attento!»

Si girò sulla schiena sentendola pulsare e vide sotto di lui la grande bestia bianca che spuntava sull'ottavo livello, iniziando la salita al nono.

Senza sapere nemmeno lui cosa stesse facendo, strappò i sacchetti mezzi rotti, si sfilò le esili scarpe di tela e le lanciò, una di seguito all'altra, dritte sulla testa di Astra, mentre faceva capolino. Non procurò nessun danno all'animale questa volta, ma la sorpresa fece arrestare la sua corsa quell'attimo per far guadagnare ad Alberto qualche preziosissimo secondo.

Si alzò e corse a piedi nudi verso le scale, salendole aiutato dalla salda presa di Monica.

«Veloce, su!» lo incitava.

Sbucò sulla banchina e seguì la donna che stava salendo sul vagone, lanciandosi verso la scaletta del treno con le braccia protese in avanti.

Richiusero la porta appena in tempo, mentre Astra ci sbatteva contro, ringhiando e graffiando il vetro, imitata subito dagli altri lupi giunti dopo di lei.

«Aspetta qui!»

Monica si diresse sul fondo del corridoio, sparendo dentro a quello che sembrava essere l'accesso alla locomotiva. Tornò dopo un minuto.

Alberto fissava il vetro della porta di fronte a lui, sporco di bava di lupo. Gli animali si erano fermati e il capo lo fissava, con occhi cattivi, carichi d'odio.

«Gli altri?» chiese la donna.

«Morti.»

«Ooh! Fabio...»

«I lupi!» Alberto indicò la porta.

La donna gli tese la mano. «Vieni con me.»

Dando un leggero scossone in avanti il vagone si mosse e in un attimo sparì dentro alla galleria.


Astra rimase a guardare quel grande buco nero.

Continuava a leccarsi il muso e il sangue che ancora gocciolava: il sapore della sconfitta. Senza degnare di uno sguardo gli altri lupi si diresse verso l'apertura della banchina. I tre che erano saliti insieme a lei si fecero da parte, così come gli altri tre, rimasti al livello inferiore. Aspettarono che passasse e poi, in fila indiana, la seguirono a testa bassa, come cani che tornano dal cacciatore dopo essersi fatti sfuggire la lepre. Scesero lentamente e in silenzio.

Quando passarono dove era rimasto il giaccone di Alberto (di Günther, in realtà), Astra ebbe uno scatto e cominciò, ringhiando, a ridurlo a brandelli, con morsi e graffi. Gli altri lupi la osservavano stupiti. Poi riprese a scendere. L'ultimo lupo della fila, per chissà quale motivo, se lo trascinò dietro.

Giunsero a terra e Astra andò ad annusare il compagno morto, poi ululò, forte come non aveva mai fatto e tutti gli altri la imitarono, elevando i loro musi al cielo, ormai completamente azzurro.

Partirono di corsa, dirigendosi verso il bosco e verso il loro rifugio.

Solo quando furono tra gli alberi Astra si accorse che uno dei suoi si stava trascinando dietro quell'inutile giaccone insanguinato. Si fermò e gli ringhiò contro. Il lupo, spaventato, mollò la presa e abbandonò l'indumento nella neve, prima di sparire, insieme agli altri, tra gli alberi.


«Stanno portando qualcosa capitano» disse Karl. «Sempra un corpo...»

Masi taceva. Erano a circa duecento metri e avevano visto il branco sbucare dal fondo della gola e dirigersi verso il bosco. Sentirono un ringhio, soffocato, provenire dagli alberi. Poi più nulla. Masi fu tentato di richiamare la lupa ma, ritenendola una cosa inutile, lasciò perdere.

«Muoviti!» disse e si avviò in quella direzione.

Trovarono il giaccone abbandonato sul ciglio del bosco, a brandelli e completamente sporco di sangue.

«Hano preso lui capitano! Hano portato corpo al rifucio.»

«Silenzio!»

Masi stava analizzando il terreno che si inoltrava tra i rami. Poi si diresse nella direzione opposta, dirigendosi verso il ponte di legno. Karl, a bocca chiusa, lo seguì.

«Sangue!» disse, chinandosi a poca distanza da dove era stato abbandonato l'indumento. «E anche qui.»

Il tratto di neve che separava il bosco dal ponte era completamente segnato da tracce rosse e avvicinandosi alla grande struttura sopra il fiume, le tracce diventavano una vera e propria striscia che terminava nei pressi di un altro lupo morto, proprio sotto i vecchi tralicci piantati nel terreno. C'era altro sangue da lì fino alla rampa di scalini.

«Ma kosa è sucesso mai qui?» disse Karl, ricordandosi l'ammonimento del suo capitano, solo quando aveva già cominciato a parlare.

Masi guardò in su, scrutando i binari che da lì sotto s'intravedevano a fatica, in mezzo all'intricata ragnatela di pali e assi che costituivano l'ossatura del vecchio ponte.

«Tu sei del posto, Karl. Dove portano quei binari?» chiese, senza abbassare lo sguardo.

«Queli capitano? È fecchia fia, non più usata da tanto tempo» rispose. «Credo che adeso usino lei solo per portare merci, ma forse hano smesso anche quelo.»

«Ma dove porta, voglio sapere!» insisté.

«Penso che fermi in fari paesi e passi davanti a aziende per merci. Questo non ricorto molto pene. È comunque picola fia, non tanti chilometri ma, sicuro, finisce a FDS.»

«Aspettami qui. Torno subito.»

Karl aveva ancora un braccio alzato, usato per indicare quello che diceva, quando il suo capitano si diresse verso la rampa e salì. Lo vide sparire in alto e cercò di seguirlo con lo sguardo. Tornò dopo dieci minuti; reggeva qualcosa in mano.

«La riconosci?» disse, mostrando un sorriso a metà tra il divertito e l'amaro e sventolando davanti alla faccia di Karl una scarpa di tela, sporca e consunta.

«Skarpe di nostri pricionieri!»

«AR396!»

«Come sa capitano?»

«Di chi potrebbero essere, idiota? L'altro è morto nel bosco» sbuffò, e guardò nuovamente in alto. «È scappato con un treno.»

«Ma... abiamo visto lupi trascinare lui nel bosco e trofato giacone con sangue.»

Masi voltò la testa di scatto e gli puntò addosso uno sguardo carico di disprezzo.

«Come fai a essere così imbecille? Hai visto il corpo? Abbiamo visto solo che trascinavano qualcosa, il giaccone. Sporco del suo sangue e di sangue di lupo. Nel bosco non ci sono tracce di sangue. Si fermano tutte nel punto dove l'abbiamo trovato. E c'è altro sangue lassù, dappertutto, fino alla banchina di là dal fiume. Oltre a questa.»

Risollevò la scarpa davanti allo sguardo attonito di Karl.

«Ora dimmi, furbone! Per quale ragione, un uomo in fuga, braccato dai lupi, si andrebbe a incastrare in questa gola, su un ponte come questo? Stretto, alto, difficile da salire e senza via d'uscita?»

Attese, sogghignando per qualche secondo, una risposta che non giunse.

«Credi sia scappato a piedi sui binari? Stupido come sei, forse potresti pensarlo!»

Karl abbassò lo sguardo offeso, cercando di non mostrarlo a quell'uomo che gli incuteva paura.

«Si è avventurato lassù, rischiando tanto aggiungerei, perché c'era qualcuno ad aspettarlo, qualcuno con un treno, ovvio» riprese e concluse Masi, con un sorriso malefico dipinto in faccia.

«E visto che le tracce di sangue sono su quella banchina e non sull'altra, deduco che questo treno si stia dirigendo a valle.»

Prese il telefono e digitò un numero.

Karl aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito.

«Direttore, è scappato... Sì, sicuro... Sulla vecchia linea ferroviaria. Qualcuno l'aspettava sul ponte di legno, con un treno, piccolo suppongo... Senz'altro.» Riagganciò.

«Si torna a casa. Recuperiamo il giaccone e gambe veloci. La signora ci vuole nel suo ufficio prima possibile.»

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top