15 - IL PONTE (1)

Francesca, rientrata nel suo ufficio, scalciò via le pantofole, si levò la vestaglia buttandola sul divanetto e, tutta nuda, si lasciò cadere sul letto, piangendo a singhiozzi per la seconda volta nelle ultime ore. Questa volta erano lacrime di rabbia e di profonda frustrazione. Si sentiva tradita da tutti.

Gli uomini che pagava per mandare avanti il lavoro della vita di sua madre si erano fatti raggirare da due ergastolani e da un grasso pivello; perché, era ovvio, il piano di fuga non poteva essere stato improvvisato. Quei tre erano d'accordo. Come avevano fatto a comunicare tra loro? Nessuno si era accorto che una guardia confabulava con i prigionieri? Non poteva crederci. Sospettava che qualcun altro fosse invischiato nella tresca, perché altrimenti significava avere assunto dei perfetti idioti.

Aveva sfogato la sua rabbia su René, affibbiandogli il ruolo di capro espiatorio, ed era stato facile tutto sommato, visto che era di guardia alla porta e si era fatto mettere ko troppo facilmente, ma soprattutto perché era un povero coglione, in fondo.

Ma il suo vero obiettivo avrebbe voluto essere Masi, il capitano, l'uomo duro, tutto d'un pezzo, che controllava tutto e tutti e che nessuno poteva fottere. In un certo senso era vero: lei non l'aveva fottuto e non si era lasciata fottere, come lui avrebbe voluto, ma questo era un altro discorso.

Alberto, Fabio e l'altro tizio (in quel momento non ricordava il nome in codice che lei stessa gli aveva assegnato) gliel'avevano fatta proprio sotto il naso e percepiva la furia che aveva dentro. Avrebbe voluto infierire, scaricando tutto su di lui e dandogli il benservito, una volta per tutte. C'era riuscita solo a metà, oltre non era andata. Perché, fondamentalmente, Pietro Masi le faceva paura. Nonostante fosse lei il capo, fosse lei a comandare e ad avere l'autorità, e lui lo riconoscesse senza problemi, era terrorizzata da quell'energumeno dallo sconvolgente passato, che più di una volta aveva dimostrato di non provare pietà per niente e nessuno.

L'aveva assunto sua mamma perché era proprio quello di cui aveva bisogno per tenere in riga i loro ospiti e lui non aveva mai deluso le aspettative. Più di una volta era andato addirittura oltre.

Ma ciò che la disturbava di più di Pietro Masi era la facilità con cui si era conquistato la fiducia di Astra, la sua lupa.

Quell'animale si era fidato sempre e solo di lei e solo da lei accettava ordini. Masi era riuscito a infilarsi in questo rapporto, potendo quindi controllarla, quasi nella stessa maniera. A Francesca questo non era piaciuto per niente. C'era senza dubbio uno strato di gelosia alla base; insomma, quello era il suo animale, gliel'aveva regalata sua mamma quando era una cucciola e lei l'aveva cresciuta con amore, intuendo subito le sue potenzialità, fuori dal comune. Ma la questione più grave era che, se controllavi Astra, controllavi tutto il branco. Non era rassicurante che un uomo come Masi potesse disporre di tale potere.

E poi c'era Fabio, colui che le aveva inferto la pugnalata più profonda.

Per cercare personale per l'abbazia, ovviamente si dovevano usare metodi particolari, diversi dal solito. Per intenderci, non si poteva pubblicare un annuncio sul quotidiano locale o mettere l'avviso su Facebook. Loro non esistevano...

Così Francesca si serviva di un consulente, ben pagato sia per il servizio, sia per il riserbo, che cercava e proponeva eventuali candidati.

Fabio, invece, le era stato raccomandato da suo zio, Franco de Simone, fratello di sua mamma, un uomo anziano e ricco che viveva da solo, se si escludeva la sua assistente-badante, in una villa arroccata più a nord.

Scapolo e senza figli, era la persona più influente della zona grazie alla sua azienda, la FDS (dalle iniziali del suo nome), fondata da lui e diretta per più di cinquant'anni e che aveva portato lavoro, benessere e notevoli benefici a una buona parte del nord Italia.

La genialità di quell'uomo non smetteva mai di stupire e le sue idee, le sue innovazioni, avevano spaziato in molteplici campi, migliorando sensibilmente la vita delle persone, con la costruzione di centrali idroelettriche e termiche all'avanguardia, il miglioramento e la costruzione di nuove vie di comunicazione (principalmente nel ramo ferroviario), più sicure e veloci, che avevano portato un notevole incremento nel trasporto di merci e persone in una zona in cui, ancora alla fine degli anni cinquanta e agli inizi della decade successiva, gli spostamenti erano faticosi.

Anche il mondo della comunicazione aveva beneficiato della sua mente brillante, ma questa parte del suo lavoro era sempre stata avvolta da una cortina di fumo. C'è chi sosteneva che già alla fine degli anni Sessanta, nel suo stabilimento venissero usati computer molto sofisticati, paragonabili, se non superiori, a quelli moderni, usati per ricerche e sviluppo di apparecchi che però nessuno ebbe mai modo di scoprire per cosa venissero utilizzati. Le notizie, si sa, partono al trotto ma arrivano al galoppo, e si era arrivati a sostenere addirittura che la FDS collaborasse con la NASA e avesse avuto un ruolo importante nel mandare l'uomo sulla Luna.

L'ingegner Franco (a cui piaceva farsi chiamare il Professore), si faceva delle beate risate quando lo incalzavano sull'argomento.

Nel 1973, un dipendente appena assunto, a cena con amici, tra una birra e un'altra si fece scappare qualcosa su strani apparecchietti che venivano dati in dotazione a tutto il personale dell'azienda, per comunicare più velocemente e per avere accesso, in modo molto più facile, all'archivio, ai numeri di protocollo, alle giacenze di magazzino e a qualsiasi informazione utile allo svolgimento del lavoro.

«È fantastico! Puoi toccare lo schermo con il dito, cercare l'articolo che ti interessa e lui ti dice tutto!»

I suoi amici, bevuti come, se non più di lui, avevano riso e l'avevano preso in giro. Ma a mente fredda qualcuno aveva elaborato quelle strascicate parole, le aveva diffuse e, sebbene tutto era stato categoricamente smentito, anche dallo stesso, dipendente pentito, la leggenda aveva attecchito come edera su un muro.

Poi, verso la fine dell'anno duemila, all'improvviso, Franco de Simone aveva chiuso la fabbrica.

«Sono stanco e ho problemi di salute» fu la motivazione ufficiale.

Fu parecchio generoso con tutti i suoi dipendenti che, di fatto, restavano senza lavoro, e non fece mancare loro nulla, come del resto aveva sempre fatto per tutta la sua vita. Si ritirò e non fece più parlare di sé, almeno non in maniera diretta, perché il mito che si era creato lo continuava a inseguire. Dicevano che dentro alla sua fabbrica, in segreto, continuasse a lavorare e a progettare cose mirabolanti.

Era legatissimo a sua sorella e le era stato vicino durante il gravissimo lutto che aveva colpito la famiglia, nonostante lavorasse come un matto dalla mattina alla sera. L'aiutò a far partire il progetto "Abbazia", appoggiando l'idea di giustizia che lei aveva intenzione di seguire, senza però comprendere a pieno quanto duramente.

Come detto, lavorava tantissimo, spesso anche alla sera; non aveva quasi mai tempo di fare una visita a sua sorella su all'abbazia e i contatti si limitavano perlopiù al telefono, e a lei andava bene così, perché sapeva molto bene che suo fratello non avrebbe approvato i metodi che venivano perseguiti nel suo penitenziario.

Poi, fu assunto Masi.

Franco lo conosceva molto bene, sapeva che tipo d'uomo fosse e soprattutto che era stato; quando chiese alla sorella spiegazioni sul perché avesse messo un tizio del genere a capo del suo servizio di sorveglianza, lei non riuscì a glissare come al solito.

«È l'uomo giusto per come voglio che continuino a funzionare le cose nella mia prigione» le aveva risposto.

Lui aveva capito. Dopo anni aveva aperto gli occhi e quello che aveva visto non gli era piaciuto.

«Masi è un violento, un carnefice, uno psicopatico. Tu sai cosa ha fatto, vero? Non posso più appoggiare un luogo dove, adesso ho capito, gli uomini vengono massacrati, per quanto siano atroci i crimini che hanno commesso. Non è la mia filosofia. E non è neanche la tua, Antonella. Sei così sicura che Massimo approverebbe tutto questo?»

Le aveva detto queste parole con le lacrime agli occhi, davanti al portone dell'abbazia, la stessa sera in cui Masi aveva iniziato il suo lavoro.

«Io non rivelerò a nessuno quello che stai facendo, perché sei mia sorella, capisco quanto possa essere importante per te e, soprattutto, ti voglio bene e te ne vorrò per sempre, ma se vuoi che continui a far parte della tua vita, devi fermarti a riflettere, e cambiare registro.»

Lei l'aveva baciato su una guancia, si era voltata, era entrata e gli aveva chiuso il portone in faccia. Non si erano più parlati.

Quando lei morì e la figlia assunse il comando, Franco fece un timido tentativo, sperando di trovare più morbidezza nella ragazza a cui aveva quasi fatto da padre, nonostante anche il loro rapporto si fosse raffreddato, negli ultimi tempi. Ma con suo grande dolore sbatté, anche in questo caso, contro un muro.

Francesca ne soffrì; aveva già cominciato a perderlo e quest'episodio le parve quasi un addio definitivo. Molte volte era stata sul punto di chiamarlo, anche solo per chiedere come stava, ma l'orgoglio, la paura, o qualsiasi altra cosa complice nella fine di un rapporto, l'avevano fermata... e non si erano più sentiti.

Per questo motivo, quando ricevette la lettera di suo zio, il primo contatto dopo anni di doloroso silenzio, rimase molto stupita. Era successo a fine agosto 2021 e la pregava, quasi implorava, cercando di mettere da parte momentaneamente le loro divergenze, di assumere Fabio, un ragazzo buono, onesto e sveglio, che aveva particolare bisogno di lavorare in quel periodo. Si faceva garante per lui, assicurando, sulla sua reputazione e sul suo stesso onore, che avrebbe svolto il lavoro nel modo migliore.

Francesca rifletté sull'insolita proposta per due giorni, poi si fece la domanda che sempre si faceva quando doveva prendere una decisione difficile: "Cosa avrebbe fatto mia mamma?"

E, in quel caso, non aveva dubbi. Non aveva più menzionato il nome di suo fratello, ma era evidente che il distacco l'aveva fatta soffrire, particolarmente negli ultimi anni della sua vita.

L'avrebbe accontentato, magari facendogli sapere che lo faceva controvoglia e solo come favore. Ma l'avrebbe fatto.

Assunse Fabio e da subito lo coccolò, perché quel ragazzone le faceva tenerezza. Era diverso dagli altri, non urlava mai con i prigionieri, mai si era sognato di usare il manganello. Li trattava da suoi pari, umanamente, e per questo si era attirato le antipatie delle altre guardie. Tramite Masi li aveva ammoniti di trattarlo bene, ma sospettava che l'ordine non fosse mai stato riferito.

E Fabio come ripagava tutta questa indulgenza? Aiutando due ergastolani a fuggire! Privando due assassini del loro giusto castigo e, ancora peggio, rischiando che le attività dell'abbazia venissero scoperte.

"Lo zio aveva giurato sul suo onore!"

Non poteva e non riusciva a credere che Franco de Simone si fosse esposto in quel modo per un individuo del genere. Questo proprio non le tornava.

Ma tutti questi tormenti, questi pensieri, non erano nulla a confronto con il peso del tradimento di Alberto. L'aveva abbandonata, l'aveva presa in giro, l'aveva presa per mano accompagnandola nel giardino degli innamorati e, appena lei si era girata un attimo, lui era sparito. Le aveva fatto quei discorsi sullo stare insieme, sulle seconde possibilità, solo con la scusa di farla infuriare per farsi cacciare, creandosi così la scusa per lasciarla. Pareva impossibile che avesse architettato tutto questo; era subdolo, maligno. Ma non vedeva altre spiegazioni.

Provava rabbia dentro di sé e faticava a contenerla; aveva voglia di urlare, di spaccare tutto, di correre fuori nel bosco, anche così, nuda come era adesso, cercarlo, trovarlo, prenderlo per i capelli e trascinarlo davanti alle zanne dei suoi lupi.

Quell'uomo meschino, miserabile, cattivo, che l'aveva irretita, coi suoi sguardi, i suoi baci, le sue carezze, i suoi respiri!

Il pensiero del suo corpo invase la sua mente, di come la cingeva quando la possedeva, la sua lingua, le sue mani che accarezzavano i suoi capezzoli mentre le scivolava dentro...

Raggiunse l'orgasmo da sola, in un'esplosione di piacere mischiato alle lacrime amare che le scendevano copiose, rigandole le guance, e si addormentò, con la mano destra ancora in mezzo alle gambe.


Le quattro guardie capitanate da un sempre più agitato Masi, sbucarono nella pianura quando il sole aveva già dispiegato i suoi primi raggi, schiarendo e colorando il cielo di un arancione vivido, in contrasto col blu scuro tendente al viola che ancora avvolgeva il resto.

L'ululato di Astra era risuonato troppo lontano da loro per sperare di ritrovare i due uomini vivi, se veramente si erano imbattuti nel branco, ma aveva indicato loro la direzione che avevano preso.

Masi li rivoleva e li bramava con la stessa, famelica voglia che tormenta ogni cellula del predatore dopo che ha fiutato la preda braccata. Li voleva vivi ovviamente, per godere circondato dalle loro urla, mentre li scorticava a bastonate. Ma si sarebbe fatto bastare anche trovarli smembrati, come aveva trovato quel ciccione di merda di Santini, e si sarebbe beato nel contemplare il loro sangue congelarsi nella neve e nel fissare l'ultimo velo di terrore impresso nei loro occhi vitrei.

Quando uscirono dal bosco si ritrovarono all'estremità destra dell'enorme canalone che scendeva a valle. Alla loro sinistra si estendeva in larghezza per circa trecento metri, fino a cozzare nel proseguimento degli alberi che stavano sotto alle montagne.

Masi aguzzò la vista in avanti per cercare di scorgere qualcosa che non fosse neve o albero, ma non riuscì a vedere nulla. Se si stava consumando un dolce incontro tra lupi ed ergastolani, non era alla portata dei suoi occhi.

Prima di avventurarsi in avanti, percorsero il tratto in larghezza, per cercare tracce di NC360 e AR396 e confermare le ipotesi sulla loro direzione. Trovarono, quasi all'altra estremità, impronte lasciate da un solo uomo.

«Si sono separati» disse Masotti.

«Oppure uno dei due è morto» lo corresse Masi, inginocchiato, vicino ai segni nella neve.

«Franco! Voglio che tu e Antonello seguiate a ritroso queste orme, tornando nel bosco. Avvertitemi subito di qualsiasi cosa troviate. Voi due invece,» e indicava Karl ed Enrico, «venite con me, per scoprire fin dove il nostro amico, di cui ignoriamo l'identità, è riuscito ad arrivare.»


Il terrore non si impadronì di Alberto.

Nell'esatto istante in cui fu circondato dal branco rimase come ipnotizzato, perso dentro allo sguardo magnetico del lupo bianco e dei suoi occhi glaciali. Non trasmettevano nessuna emozione, ma gli conferivano un assurdo senso di pace e tranquillità e in un attimo tutto, intorno a lui, sparì. Il branco, la neve, gli alberi, le montagne, l'abbazia, persino Francesca. Non esisteva più nulla. Solamente gli occhi di quel lupo.

Il capobranco ricambiava volentieri lo sguardo, assaporando già con gli occhi il sapore della carne che presto avrebbe azzannato e aprì leggermente la bocca, caricandosi di tutta l'aria necessaria per emettere il suono di comando ai suoi soldati, l'ordine di attaccare e sbranare.

All'improvviso però, dalle fila di alberi sotto la montagna, risuonò un grugnito roco ma potente e l'orso uscì, correndo verso di loro ringhiando. Il lupo più vicino esitò quell'attimo di troppo e quando si girò per scoprire la fonte del suono era già alla sua portata.

L'orso lo colpì con una zampata carica di artigli, facendolo volare con un guaito di dolore a diversi metri di distanza.

A quella vista tutti gli altri lupi scapparono in fretta e furia verso il bosco da cui erano usciti, tranne Astra che, emettendo un timido abbaio di rabbia, esitò. L'interruzione del contatto visivo risvegliò di colpo Alberto, che scosse intontito la testa, come se si fosse addormentato all'improvviso mentre cercava a tutti i costi di restare sveglio. Vide i lupi fuggire tra gli alberi e il loro capo, probabilmente più per orgoglio che per coraggio, tentare una timida reazione contro l'orso, troppo grosso, pure per quell'animale. Gli ringhiò contro, l'orso rispose con un ruggito forte e potente e il lupo scappò, raggiungendo i compari spariti nella macchia.

Ad Alberto arrivò tutta in una volta la paura, repressa dagli occhi dell'animale bianco.

Si voltò tenendo i piedi ancorati alla neve e vide l'orso cibarsi del lupo colpito, a pochi metri da lui.

La paura divenne terrore vero.

Senza pensare a ciò che faceva, senza pensare alla stanchezza, senza pensare a niente, azzardò quattro passi nella direzione opposta, catturando l'attenzione della grossa bestia. Poi si mise a correre, cercando di far confluire ogni singola goccia d'energia residua nelle gambe e nei piedi. Sperava che la fame trattenesse l'animale con la sua preda fresca e si voltò appena per controllare. L'orso pareva indeciso. Lo guardava, poi guardava la carne del lupo e poi lo riguardava. Infine, partì all'inseguimento.

Alberto arrancava; i piedi sprofondavano nella neve quel tanto da rallentarlo. Anche se fosse stato in piena forma, allenato e riposato, con addosso un paio di scarpe di tennis e un bel prato verde con l'erba appena tagliata sotto i piedi, l'orso l'avrebbe quasi sicuramente raggiunto, senza alcuna fatica. Nella reale situazione in cui si trovava, non aveva alcuna speranza. Sentiva l'ansimare dell'animale sempre più vicino, gli sembrava già quasi di sentire l'alito, caldo e fetido, sul collo. Il corpo dilaniato di NC360 comparve davanti ai suoi occhi e l'orrore lo pervase.

Sentì un calore improvviso, raggiungere ogni estremità del suo corpo, ogni centimetro della sua pelle, ogni singolo pelo, ogni capello.

Si accasciò a terra in ginocchio, con le mani piantate nella neve che, con enorme stupore, cominciò a sciogliersi.

Si sentiva ribollire e girò di scatto la testa verso l'orso proprio mentre l'animale stava per saltargli addosso. La bestia emise un verso spaventoso, carico di paura, un suono che non credeva possibile potesse uscire da una gola così massiccia.

L'animale scartò di lato, rovinando nella neve su un lato. Svelto come un gatto si rialzò e, piantandogli in faccia due occhi terrorizzati scappò, sparendo tra gli alberi da cui era uscito e dirigendosi di gran carriera verso il bosco in cima alla pianura.


«Abbiamo trovato il corpo di NC360, capitano.»

Il telefono di Masi era squillato meno di dieci minuti dopo che si erano separati da Peri e Masotti.

«È qui, di fronte a un capanno per la legna, appena dentro al bosco.»

«Siete sicuri sia lui?»

«La faccia è integra. Piena di sangue, ma integra. Manca solo il naso. Sembra sia stato staccato da un'artigliata. Ha quattro profondi solchi che gli partono dalla base dell'occhio sinistro e terminano quasi all'orecchio destro.»

Masotti faticava nel guardare a lungo il cadavere. Girò un secondo la testa fissando Peri, appoggiato a un tronco, visibilmente scosso. Poi, prese un respiro, si rigirò e continuò.

«Ha profondi tagli nelle spalle e nel petto e un braccio girato dal lato sbagliato. I lupi gli hanno mangiato alcune dita della mano» disse, proferendo le ultime parole velocemente, e soffocando un singhiozzo isterico di pianto con la mano sulla bocca. L'ultima cosa che voleva in quel momento, era scoppiare a piangere al telefono con il capitano.

«Non sono stati i lupi» asserì serafico Masi.

«Astra permette che venga toccata la testa solo quando è stato divorato tutto il resto. E solo dopo aver portato il corpo nella tana. È stato un altro animale, sembrerebbe grosso. Forse un orso. State all'erta e proseguite. Tornate all'abbazia percorrendo il sentiero che hanno percorso loro. Avvertitemi solo se trovate l'altro corpo, cosa che non succederà.»

«Capitano, non c'è neve qui. È difficile capire da che strada siano venuti» replicò Masotti, guardandosi intorno.

«Dividetevi e percorrete entrambi uno dei sentieri che vanno in direzione dell'abbazia.»

E chiuse la comunicazione.

«Che stronzo rompiballe!» disse Masotti.

Peri sorrise. Gli riferì velocemente gli ordini del capitano.

«Prendiamone uno a caso e torniamocene al caldo. Mica lo viene a sapere tanto. Che si fotta!»

Partirono subito, per evitare che gli occhi ricadessero, anche solo per caso, sul cadavere straziato.


Alberto si era rimesso in cammino con ancora più lena, per quanto gli fosse possibile.

Sparito l'orso e svanita quella strana sensazione di calore, aveva cominciato a tremare in modo incontrollabile.

Non aveva la minima idea di cosa fosse successo, per quanto provasse a scervellarsi. Si era sentito bruciare, nel vero senso della parola, e capì che non era stata solo una sensazione, dal momento che aveva sciolto la neve con le mani, ma qualcosa di reale che aveva dentro di sé, molto simile a ciò che aveva provato mentre NC360 moriva. E, qualsiasi cosa fosse, quell'orso ne era stato assolutamente terrorizzato. Sarebbe tornato alla carica? Dubitava. Era la prima volta che leggeva una simile paura negli occhi di un animale, un animale come quello, per giunta.

In quel momento lo preoccupavano più i lupi, soprattutto il loro capo, tanto bello, quanto inquietante. Tutto fuorché paura aveva letto nei suoi occhi, due sfere di cristallo in cui era sprofondato, perdendosi nell'oblio totale.

Quell'animale aveva qualcosa di strano: era sicuro di averlo già visto da qualche parte ma, per quanto sforzasse la sua mente, non gli veniva in mente dove.

"Forse ti sbagli! I lupi si somigliano tutti, fondamentalmente." pensava tra sé e sé.

Ma quello non era un lupo comune, ed era difficile da dimenticare.

Bevve una sorsata d'acqua, cercando di concentrarsi sulla sua missione. Alla sua destra il bosco si restringeva, pur rimanendo fitto, e lo scrosciare impetuoso del fiume giungeva forte alle sue orecchie, mentre lambiva in parallelo la pianura col suo corso.

Poteva scorgere molto chiaramente adesso, in lontananza, la tanto agognata ansa sbucare dagli alberi, curvare a sinistra e portare l'acqua a sparire nella piccola gola che aveva scavato nel corso dei millenni.

Là in mezzo c'era il suo ponte. Non lo poteva vedere ancora, ma era là. Ce l'aveva quasi fatta.

Guardò l'ora: 6.44.

Secondo le parole di Fabio il treno sarebbe arrivato sul ponte verso le sette. Calcolò di riuscire ad arrivare là in quaranta minuti, un'ora al massimo, se le sue gambe fossero riuscite a tenere il ritmo che stavano tenendo ora.

Provò a scrutare le montagne sopra di lui, a sinistra, cercando di scorgere i binari promessi dal ragazzone, più per un'ulteriore iniezione di fiducia in sé stesso che mancanza di fede in lui, ma vedeva solo rocce. Se veramente esistevano, correvano più all'interno.

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