13 - ASTRA (2)
Il sonno di Francesca era inquieto. Si era addormentata con la speranza nel cuore, ma i sogni che erano arrivati erano di tutt'altra specie.
Aveva davanti a sé un lungo sentiero di cui non scorgeva la fine, circondato da enormi alberi talmente vicini tra loro da costituire quasi una palizzata invalicabile. Poteva andare solo diritta, seguendo la via che portava chissà dove. Aveva freddo e tremava. Guardò in giù e scoprì di avere i piedi nudi, lividi, immersi nella neve. Le facevano male e rabbrividì.
«Francesca!»
La voce arrivò da lontano, davanti a lei. Alzò lo sguardo e vide Alberto, immobile in fondo al sentiero che la salutava con la mano.
«Amore mio, arrivo!» gli urlò, e cominciò a correre, nonostante il dolore. Ma più lei si avvicinava, più il sentiero si allungava, allontanandolo sempre più.
«No! Alberto, aspettami!» gli urlava disperata.
«Non puoi arrivare qui. Non puoi più avermi» le diceva sorridendo, quasi sogghignando.
Francesca piangeva e correva. Le piante dei piedi cominciarono a sanguinare, ma lei continuava a correre, e più si avvicinava, più lui si allontanava.
Alberto rideva, e rideva, e rideva...
Poi, da un punto imprecisato del bosco, un ululato, secco, nitido, squarciò il silenzio e l'oscurità.
Aprì gli occhi.
Era sul suo letto, a pancia in giù. Il piumone era scivolato a terra, lasciandola scoperta. Era bagnata di sudore e tremava come una foglia. Si guardò intorno spaurita, e deglutì. I suoi occhi, pesanti, erano fissi sulla stampa affissa al muro, dietro al letto. Raccolse il piumone e si raggomitolò. La sensazione di calore improvvisa fu piacevole.
«Astra!» mormorò, e si riaddormentò.
Fabio non aveva più un piano. Aveva abbandonato il sentiero e scendeva per il bosco seguendo una linea diagonale, verso destra, cercando di allontanare le impronte il più possibile dai due fuggitivi.
Camminava abbastanza lento perché, a ogni passo, premeva due volte i bastoni nella neve, di fianco alle vere orme che lasciavano i suoi piedi. Un'attenta e precisa analisi di quei segni avrebbe dimostrato che erano palesemente false, ma dubitava che le guardie, incalzate dalla ferocia di Masi, si sarebbero soffermate a controllare con attenzione.
I problemi, più che altro, sarebbero sorti quando avrebbe dovuto ricongiungersi ai due uomini. La strada che aveva scelto portava verso una parte del bosco meno fitta, in cui la neve era caduta più copiosa. Le finte impronte potevano allontanare le guardie da Alberto e NC360 e, forse, dar loro la libertà; ma, per una strana ironia della sorte, imprigionavano lui.
NC360 aveva ragione: non lo meritavano.
Avevano fatto quello che avevano fatto (anche se era a conoscenza solo delle azioni di Alberto), e dovevano pagare per le loro colpe. Ma il vecchio gli aveva chiesto un favore, un enorme favore, e lui non poteva dire di no. Senza contare il disgusto che provava vedendo tutti i giorni quello che accadeva a quegli uomini, in quell'abbazia.
Avevano preparato un buon piano; tutto era filato liscio, senza intoppi; sembrava avessero pensato a tutto. Cavoli! Si era portato dietro perfino dei sacchetti per le loro scarpe! Ma, chissà perché, non era venuto in mente né a lui, né al vecchio che quegli uomini non potevano correre in mezzo alla neve per sette, otto chilometri, al freddo, dopo aver spaccato pietre per tutto il giorno. Forse NC360 ce l'avrebbe anche fatta, ma Alberto no. E andando di quel passo, sarebbero stati raggiunti alle prime ore dell'alba.
"Stupido, Fabio! Stupido d'un stupido!" pensava tra sé. "Adesso la paghi tu!"
Se fossero caduti nel tranello delle finte impronte sarebbero arrivati a lui; Masi l'avrebbe torturato per farsi dire cosa aveva combinato. Ma intanto i due sarebbero arrivati al treno e non li avrebbero più presi. Almeno sperava.
La solitudine e l'oscurità calarono su di lui, come una pesante cappa sulle spalle. Si fermò un secondo e si guardò intorno, rabbrividendo. Gli alberi erano sempre più radi e poteva vedere molta più parte di bosco, illuminata dalla luce lunare. Non scorgeva nessun movimento e il silenzio era totale. Eppure, si sentiva osservato.
La luna quella notte era una palla piena bianco gialla e il cielo era meravigliosamente punteggiato di stelle, come solo può essere il cielo in montagna.
Un barlume di idea affiorò nella sua testa. Seguendo quella direzione poteva uscire dal bosco direttamente sulla riva del fiume. Non era molto profondo in quel punto; forse poteva provare ad attraversarlo, abbandonare di proposito lo zaino sull'altra riva per far credere che fossero fuggiti da quella parte e continuare camminando nell'acqua, fin dove poteva. Chissà, con un po' di fortuna, questa mossa li avrebbe disorientati quel tanto da consentirgli di arrivare anche lui al treno, e mettersi in salvo. Era un piano con molti ma e molti se, ma al momento era l'unico che avesse.
Si rimise in cammino, cercando di aumentare, per quanto possibile, l'andatura.
Era giunto in quella che sembrava una piccola radura, o comunque una zona in cui gli alberi erano più distanti tra loro e fu in quel preciso istante che un ululato echeggiò tra i tronchi, lo investì in pieno e si perse nell'aria, sopra di lui, amplificato dall'eco, squarciando il silenzio e l'oscurità, come una lama affondata nella carne. Un altro rumore lo seguì subito dopo, molto più basso, molto più grave; pareva quasi strisciasse nella neve. Era un ringhio, roco, continuo, quasi gutturale e proveniva da tutte le direzioni intorno a lui. Fabio sentì accapponarsi la pelle all'istante e si arrestò.
Davanti a lui c'era un lupo, fermo, che lo fissava, mostrandogli le zanne bianche e gli occhi gialli, iniettati di sangue. Il basso ringhio rimbalzò dietro di lui e scoprì che un altro lupo era comparso alle sue spalle, nella medesima posizione d'attacco del primo. Altri due spuntarono ai suoi fianchi con la bava che gocciolava leggera dalle loro fauci.
Aveva la gola secca e in quel preciso momento cominciò assurdamente a desiderare una delle borracce che aveva lasciato ai due fuggitivi, quasi come se bere avesse potuto salvarlo da quella situazione senza speranza.
Fabio si rigirò verso il primo lupo a cui se n'era affiancato un altro, un po' più piccolo. L'intero branco lo accerchiò in meno di dieci secondi e il ragazzo, agghiacciato dal terrore, contò otto lupi intorno a lui, che lo bramavano con le loro zanne risplendenti alla luce della luna e i loro affilati artigli piantati nella neve.
Deglutendo, vide due degli animali farsi da parte e tra loro comparire un nono lupo, grande il doppio degli altri, completamente di pelo bianco. Gli occhi erano dello stesso colore e gli conferivano uno sguardo glaciale privo di qualunque emozione. Era l'unico che non ringhiasse, ma lo guardava fisso, con le pupille che parevano vuote e che lo spaventarono più di tutte quelle zanne esposte, pronte a dilaniare la sua carne.
Il capobranco emise un impercettibile abbaio e tutti gli furono addosso, sbranando ogni parte del suo corpo. Fabio cacciò un unico, disperato urlo, zittito all'istante dal lupo bianco che, avvicinatosi per ultimo, con una calma agghiacciante gli azzannò la gola, soffocandolo nel suo stesso sangue.
«Forza, Al! Dai che ce la facciamo.»
NC360 si era già fermato tre volte ad aspettare che Alberto riprendesse fiato. Vedeva che il suo compagno era allo stremo e non sarebbe durato molto, ma continuava a spronarlo per provare ad arrivare alla legnaia prima possibile.
Il bosco era sempre più fitto intorno a loro, la luna faticava a far filtrare i suoi raggi e la neve era quasi del tutto assente, salvo qualche sporadica spruzzata che macchiava qua e là le rare, piccole radure che incontravano. Il groviglio di tronchi che li circondava, conferiva un senso di oppressione, tale da sembrargli di essere ancora rinchiuso nella cella. Vedeva la capanna a cui erano diretti come un piccolo e momentaneo rifugio sicuro, dove poter recuperare un po' di energie. Ma procedevano troppo a rilento a causa di Alberto. Sarebbe andato molto più svelto da solo, addirittura si sentiva addosso un'adrenalina tale da potersi mettere quasi a correre. Ma non aveva intenzione di abbandonare il suo amico. Era ancora scosso per la separazione da Fabio e sperava con tutto il cuore che non gli succedesse nulla.
Alberto crollò carponi, ansimando, quasi rantolando. Rimase per qualche secondo in quella posizione, con i palmi delle mani premuti sul tappeto di aghi di pino che ricopriva il duro terriccio. Guardava NC360 che si era fermato poco più avanti, scuotendo un po' la testa. Poi si trascinò fino al tronco più vicino e appoggiò la schiena, chiudendo gli occhi e facendo ampi respiri.
«Ho bisogno... di un attimo...» disse, bevendo una sorsata dalla borraccia. Si rese conto di non sapere ancora il nome dell'uomo con cui stava evadendo.
«No, Alberto. Devi resistere. Non manca tanto. Se arriviamo alla legnaia, ci possiamo fermare e riposare al sicuro.»
«Non ce la faccio più! Non riesco a muovere le gambe. Vai avanti tu. Mi riposo un attimo e poi ti raggiungo.»
NC360 lo raggiunse e si piantò davanti a lui.
«Io non lascio indietro più nessuno, capito? Tu vieni con me, non ti mollo qui. Non mi lascerai solo in questo maledetto bosco. Forza!»
Lo prese per le braccia e lo issò, facendosi cingere una spalla col suo braccio e cingendolo lui stesso per un fianco.
«Qual è il tuo vero nome?» gli chiese Alberto, una volta in piedi.
«Indovina. Inizia con la N...»
«Grazie al cazzo!»
«Il mio nome è legato a un passato che voglio dimenticare, ma se fai il bravo e ti impegni per arrivare al capanno, forse te lo dico.»
«Ricattatore bastardo! Forse dovrei ammazzarti e seppellirti in questo bosco!» disse, ridendo.
«Ma se manco ti reggi in piedi! Dai, su! Prova a far muovere quei due piedi. Appoggiati a me.»
Barcollando avvinghiati, i due uomini si mossero, con un'andatura che sembrava quasi quella di due ubriachi intenti a provare dei passi di danza.
«Cos'hai combinato per fare arrabbiare il direttore, prima?» chiese NC360, cui l'aiuto che stava dando all'amico, gli stava facendo aumentare il fiatone.
Alberto aveva lo sguardo fisso in avanti, concentrato a ignorare il bruciore che sentiva nelle gambe e nel petto. Si schiarì la voce.
«Credo di essermi innamorato, ma a lei, evidentemente, questa cosa non è piaciuta.»
«Ahi, ahi, ahi!» ridacchiò l'altro.
L'ululato fendé l'aria come una freccia appena scoccata. Un suono pulito, nitido e insieme terrificante. I due uomini si arrestarono all'istante, girandosi e guardando nella direzione da cui era giunto.
«Cazzo è? Ci sono i lupi da queste parti?» Alberto aveva spalancato gli occhi e serrato le labbra.
«A quanto pare...» rispose l'altro, teso come una corda di violino, accanto a lui.
«Andiamo!» Stavolta era Alberto a fare fretta all'amico. La paura o, meglio, il terrore, gli avevano restituito inaspettate energie.
Avevano fatto non più di venti passi quando, dalla stessa direzione, giunse un urlo straziante. Di nuovo si fermarono e si fissarono, sbiancati in volto. Entrambi sapevano di chi era quella voce, ma nessuno dei due osava parlare per primo.
Per la successiva mezz'ora nessuno aprì bocca e Alberto non si fermò più per rifiatare. Si erano staccati per andare più veloci e avevano preso un buon ritmo.
Il sentiero era proseguito diritto per un bel pezzo, poi era svoltato a destra quando l'imponente massa nera della montagna era già sopra di loro, e ora stavano scendendo verso valle. In quel punto la discesa era molto più ripida di quella che avevano affrontato quando ancora Fabio era con loro, e dovevano procedere con cautela per non rischiare di scivolare.
Non erano giunte più né urla, né ululati da lontano, ma entrambi gli uomini avevano fretta di arrivare al capanno e di mettersi, in teoria, al riparo per un po'. Alberto marciava quasi contro il suo volere; sentiva la stanchezza ormai essere arrivata a livelli insostenibili, ma le sue gambe si muovevano quasi in autonomia. Quell'ululato e quell'urlo che, quasi certamente, era stato l'ultimo attimo di vita di Fabio avevano iniettato nel suo corpo una scarica di adrenalina molto potente ed era sicuro che, una volta dentro alla legnaia, esaurito l'effetto, sarebbe crollato dalla stanchezza.
«Che ore sono?»
NC360 quasi trasalì. Guardò l'orologio. «Le 22.15»
Sopra di loro la luna ricominciava a fare capolino tra i rami degli alberi, un po' meno fitti.
La ripidità del sentiero si stava progressivamente addolcendo e la neve aveva ricominciato a farsi sentire sotto i loro piedi.
Sbucarono all'improvviso in una larga radura dove gli alberi sembravano essersi volutamente spostati per lasciar spazio a una sorta di piazzetta, in cui terminavano altri sentieri provenienti quasi tutti dalla loro destra. Nel mezzo si ergeva una catasta di legno con un numero imprecisato di tronchi impilati, per la maggior parte marciti. Di fronte la via proseguiva, sbucando, all'incirca a duecento metri, in quello che sembrava un enorme lago bianco: era la piana di cui parlava Fabio, il proseguo del loro cammino. La distesa di neve, compatta e incontaminata, brillava al chiarore della luna e faceva contrasto con l'enorme mole nera delle montagne che la sovrastavano e la scortavano, perdendosi in lontananza.
«La legnaia!»
NC360 stava indicando una piccola sagoma scura, qualche metro avanti a loro, sulla sinistra.
La raggiunsero quasi di corsa. La capanna era abbastanza malandata ma sufficiente a contenerli entrambi. Era vuota, a parte sparuti rami e pezzi di legno abbandonati qua e là, e puzzava di muffa e legno marcio.
«Ripartiamo alle due, va bene?» disse NC360, mostrandogli l'orologio.
«Se il treno arriva alle sette, in cinque ore dovremmo farcela e dovremmo anche guadagnare abbastanza terreno da non farci raggiungere da Masi e compagnia, nel caso si mettessero sulle nostre tracce. È inutile e rischioso arrivare là troppo presto.»
Alberto annuì.
«Inizio io a fare la guardia. Ti faccio dormire fino all'una, poi ci diamo il cambio.»
Si mise seduto, appoggiando la schiena a una delle pareti.
«Ma così tu dormi solo un'ora, mentre io molto di più!»
«Non preoccuparti. Ormai dormo molto poco, da un po' di tempo...»
Alberto, come aveva previsto, sentì la stanchezza ripiombare su di lui come un falco. Diede un'occhiata alla vasta pianura sotto di loro.
"Là in fondo c'è la libertà!" pensò, con una punta di ansia nel cuore.
Chiusero la porta e si sdraiò, addormentandosi all'istante.
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