12 - IL PIANO (1)

La sirena e il faretto si accesero contemporaneamente.

Un suono tonante e squillante, insieme a una luce bianca e accecante inondarono la piccola stanza quadrata. I tre uomini misero giù le gambe quasi all'unisono e si alzarono, allineandosi davanti alla porta in perfetto silenzio.

Oltre a AR396, la cella ospitava BC392 e FV389.

AR396 quel giorno festeggiava sei mesi di permanenza nel penitenziario di cui non sapeva nome e ubicazione, e si apprestava a iniziare la solita, massacrante giornata di lavoro.

La porta si aprì, la guardia entrò, li ammanettò e li fece uscire nel corridoio, disponendoli in fila dietro ai prigionieri già presenti.

Erano diciassette gli ergastolani che l'abbazia ospitava in quel momento; l'ultimo li aveva lasciati due mesi prima, a gennaio, costretto a lavorare a -10 gradi di temperatura con la broncopolmonite. Aveva resistito eroicamente due giorni, prendendosi la punizione delle bastonate solo una volta. La mattina del terzo giorno, quando il faretto si era acceso, non si era alzato: era morto nella notte. Non lo avevano ancora sostituito, come non era arrivato nessuno al posto di Daniele, morto ormai da sei mesi. AR396 continuava a essere l'ultimo ergastolano scritto nel registro dell'abbazia.

Furono scortati nella sala d'ingresso dove Masi fece l'appello.

Come al solito NC360 era il primo della fila e l'unico, almeno da settembre, a non aver mai ricevuto nemmeno una bastonata. Lavorava a testa bassa per tutto il giorno, si fermava quando gli dicevano di fermarsi, ripartiva quando gli dicevano di ripartire. Spaccava pietre per undici ore al giorno da cinque anni e non aveva mai dato alcun segno di cedimento, sia fisico, sia psicologico. Come ci riuscisse, per AR396 era un grande mistero, come misterioso era quell'uomo di cui ancora non era riuscito a conoscere nemmeno il nome. Era arrivato a supporre che avesse commesso qualcosa di talmente atroce da volersi punire in maniera profonda, per espiare la sua colpa del tutto. Almeno, per sé stesso.

Aveva legato molto con lui. Durante le conversazioni manuali che facevano la domenica nella lavanderia, aveva appreso molte cose sull'abbazia, su prigionieri passati e anche su quelli attuali. Ma quando gli chiedeva di lui, le dita smettevano di muoversi e le chiacchiere finivano lì.

NC360 gli aveva descritto fatti atroci che aveva visto con i suoi occhi, punizioni che non sempre erano state una diretta conseguenza di una regola disobbedita. Nei primi tre anni della sua detenzione morivano due o tre uomini al mese e subito venivano rimpiazzati da nuovi arrivi. Le sette celle erano praticamente quasi sempre piene. Alcuni prigionieri erano stati prelevati nel cuore della notte e nessuno li aveva più visti. Circolava la voce che venissero portati in un preciso punto del bosco, legati a un albero e lasciati là, disperati e urlanti, offerti in sacrificio a qualcuno. O qualcosa. Ma NC360 riteneva fossero solo sciocchezze prive di fondamento, la classica storiella del terrore raccontata ai bambini per spaventarli.

La realtà era che il direttore Fontana era sadica e subdola; adduceva la scusa di punire uomini che avevano commesso cose terribili, solo per soddisfare i propri morbosi desideri e continuare a soddisfare quelli della madre defunta. Amava vederli soffrire, amava vederli morire. E si serviva del suo braccio destro, quel Masi, che non sarebbe stato fuori luogo lì dentro, con una delle loro casacche addosso.

AR396 condivideva le opinioni del suo nuovo amico per quanto riguardava Masi, ma era in disaccordo su Francesca, anche se a lui non lo disse mai.

Dopo quel primo, meraviglioso incontro, veniva convocato con regolarità nell'ufficio del direttore (o, per essere più precisi, nella sua camera da letto) ogni due settimane, sempre scortato da Fabio "Il Gentile".

Non voleva ammetterlo a sé stesso, ma si era affezionato molto a lei. Pronunciare la parola amore in un posto del genere gli pareva una mancanza di rispetto alla parola stessa, ma il suo cuore non la pensava così: batteva forte mentre saliva quelle scale, ancor di più quando la porta dell'ufficio si apriva, e la vedeva seduta sul divano, in attesa, con la vestaglia verde come unica, impalpabile barriera al paradiso che aveva da offrirgli.

Ormai, anche solo il pensiero dell'incontro successivo, era un fantastico incentivo per affrontare la terribile routine che lo attendeva ogni giorno, che non calava mai di intensità, come lui, forse ingenuamente, aveva sperato accadesse viste le circostanze. Francesca era stata molto chiara, fin dalla prima volta. Concluso di fare sesso si era sdraiata al suo fianco, appoggiando la testa al suo petto. Per un po' erano rimasti in silenzio, coi respiri ansimanti a poco a poco diventati più leggeri, come unico rumore. Poi, all'improvviso lei aveva parlato.

«Non pensare di ricevere pietà e trattamenti diversi. Continuerai a espiare la tua colpa come gli altri, ogni giorno, tutti i giorni. E, di tanto in tanto, ti chiamerò qui su, per stare un po' con me! Non scorderò mai cos'hai fatto a quelle due povere donne!»

Poi aveva girato la testa, fissandolo.

«Sono sempre sola e ho bisogno di compagnia. Così, quando mi capita un bell'ergastolano...»

Con il susseguirsi degli incontri, Alberto aveva notato un cambiamento in lei.

Lo trattava diversamente e anche il sesso era cambiato. Più impetuoso e selvaggio all'inizio, molto più dolce e appassionato poi. Avevano iniziato scopando, ora si poteva dire, con una punta d'azzardo, che facevano l'amore. Lui sperava di non illudersi, ma lei sembrava ricambiare i suoi sentimenti.

Spesso stentava a credere che quella fosse la stessa donna che aveva visto e sentito la sera in cui era arrivato all'abbazia e, ancor di più, faticava a ricordarla affacciata alla finestra mentre ordinava a Masi di ammazzare a sangue freddo il detenuto Daniele.

Eppure, era lei, Francesca Fontana, il direttore.

Si stava convincendo che una delle due versioni non fosse vera, ma scoprire quale pareva piuttosto complicato. In quale ambito lei fingeva di essere quello che non era?

Aveva passato tante ore sdraiato sulla dura pietra del suo giaciglio a riflettere. A poco a poco poteva dire di cominciare a conoscerla, fisicamente certo (quello, dalla prima volta e subito in maniera molto approfondita!), ma anche come persona. E la Francesca affacciata alla finestra non c'entrava nulla con quella che stava cominciando ad amare.

Fingeva con lui? Lo dubitava, anzi, lo riteneva altamente improbabile. Quindi fingeva sul lavoro o, per dirla meglio, si sforzava di assumere il ruolo che le era stato imposto, prima da sua madre, quando era in vita, poi dal suo ricordo o, peggio, dalla sua ombra.

Se veramente la realtà era questa, il fardello che la donna (la sua ragazza, come gli piaceva pensare) doveva sopportare era enorme! Un conto era essere uno come Masi, che picchiava, opprimeva e torturava solo per il gusto di farlo. Ma vivere a contatto con queste realtà tutto il giorno per tutti i giorni, esserne pienamente responsabile, ma non approvarle, del tutto o per niente, era terribile. Veramente terribile!

Tante volte Alberto era stato sul punto di chiederle se veramente fosse così, ma sentiva di non essere ancora in quella fase del rapporto in cui ci si può prendere certe libertà, in questo caso di parola.

Dopo il primo mese aveva smesso anche di ammanettarlo al letto e nelle pause restavano abbracciati per un po' a parlare.

Aveva pensato spesso a quanto sarebbe stato facile colpirla, come aveva fatto con quelle due donne, e scappare via. Ma era così sicuro che Masi non fosse di guardia in fondo alle scale, allertato da Fabio? Sembrava un bravo ragazzo ma... poteva fidarsi di lui? Inoltre, per uscire doveva passare davanti alla guardiola, in cui c'era sempre un uomo, vigile, che avrebbe subito dato l'allarme. Ma poi... dove sarebbe andato? Intorno a loro c'erano solo montagne, boschi, tanta neve e temperature molto basse.

Ma sapeva bene che, in fondo, non erano quelli i motivi per cui rimaneva in quel letto, abbracciato a quella donna.

Aveva già capito che quell'abbazia stava operando un secondo cambiamento in lui. All'inizio aveva fatto nascere il rimorso per le sue azioni, ora l'aveva fatto innamorare di una donna.

Mai nella sua vita aveva provato un sentimento così per una persona. Mai si era trovato a desiderare di poter avere qualcuno tutto per sé, per sempre.

Avrebbe voluto ardentemente poter avere una seconda opportunità.


La giornata era trascorsa esattamente come tutte le altre.

Ormai l'abitudine aveva preso il posto della fatica e AR396 si ritrovava a spaccare pietre compiendo gesti meccanici ai quali quasi non pensava nemmeno.

Erano passate quasi tre settimane dall'ultimo incontro con Francesca e il desiderio che aveva di lei lo stava facendo diventare matto. Era la prima volta che passavano più di quattordici giorni senza vedersi ed era quasi arrivato a temere, con angoscia, che lei, per chissà quale motivo, non lo volesse più in camera sua. La speranza che non fosse così era l'unica cosa che l'aveva fatto andare avanti negli ultimi giorni. Tutte le sere, dopo che le luci si spegnevano, si sdraiava sul suo duro e scomodo giaciglio sperando con tutto il cuore di sentire la chiave girare nella toppa.

Si era addormentato, scoraggiato e deluso anche quella sera, sognando la voce di Fabio che diceva «Il direttore vuole vederti subito!», quando l'amato e desiderato rumore metallico lo svegliò.

Alzò la testa e vide l'enorme sagoma di Fabio riempire l'entrata della loro cella. I suoi compagni ormai avevano capito cosa succedesse, ma avevano anche imparato fin troppo bene che in quel posto era sempre consigliabile farsi gli affari propri.

AR396 uscì dalla cella e si girò verso Fabio, intento a chiudere la porta.

«Andiamo. Veloci.» disse, senza voltarsi. Sembrava più teso del solito.

Arrivati in sala diede un'occhiata verso la guardiola, aspettandosi il solito commento cretino di René, ma tutto taceva. L'uomo era nascosto dentro al suo giaccone e pareva non li avesse nemmeno notati.

«Vieni, dai!»

Fabio lo prese per le manette e lo tirò, strattonandolo più forte del solito.

Giunti davanti alla solita porta bussò e da dentro arrivò l'invito a entrare. La stanza era vuota.

«Toglili le manette, poi puoi andare Fabio. Grazie, come sempre.»

La voce arrivava direttamente dalla camera. Il ragazzo obbedì, fece l'occhiolino ad AR396 e uscì.

«Vieni, tesoro!»

La voce della donna sembrava più dolce e suadente del solito.

Alberto si guardò intorno un po' stranito. Sentiva dentro un turbinio di varie eccitazioni che si mescolavano tra loro. Aveva una voglia così grande di lei che quasi gli mancava il fiato.

Rimase fermo, al centro della stanza, cercando di ritardare di qualche secondo il momento in cui l'avrebbe vista, per assaporare al meglio quell'attimo.

«Allora! Vieni?» la voce di Francesca lo riportò alla realtà.

«Eccomi!» Entrò nella camera.

Era distesa sul letto, completamente nuda e lo guardava sorridente. «Cosa diavolo stavi aspettando?»

«Mi stavo preparando alla tua vista, che mi lascia sempre senza fiato!» rispose.

«Cretino!» disse lei ridendo e cominciò ad accarezzarlo con il piede.

«Ti spogli e vieni a letto o devo farti dare venti bastonate?»

Lui si tolse tutto, salì sul letto e cominciò a baciarle l'alluce.


Gli uomini incaricati della sorveglianza nell'abbazia erano in totale dieci, compreso il capitano Pietro Masi.

Il turno diurno era lungo e faticoso, così era diviso in due parti: tre di loro arrivavano all'abbazia alle 4.30 di mattina e staccavano alle 11.30, lasciando il posto ai tre che arrivavano alle 11 tirando diritto fino alle 18.30. Masi era l'unico sempre presente e, di solito, se ne andava alle 17, suscitando l'ammirazione delle altre guardie leccapiedi che non perdevano mai l'occasione di lodarlo per la sua incredibile dedizione al lavoro.

La realtà era che lui voleva essere sempre presente nel caso nascesse l'opportunità di poter infierire qualche bastonata sulla schiena di qualcuno, e non sopportava l'idea di non esserci, se succedeva.

Alle 18.15 arrivava l'incaricato al turno di notte che, in genere, passava le sue ore dormendo beato, appoggiato al tavolino posizionato all'imbocco del corridoio delle celle.

I due uomini addetti alla sorveglianza del portone d'ingresso invece, si erano messi d'accordo in modo più semplice. René preferiva lavorare di notte, quindi era fisso durante il turno che andava dalle 5 del pomeriggio alle 5 del mattino, lasciando l'altro orario a suo fratello Günther, padre di famiglia.

Il 15 marzo 2022 Fabio Santini aveva il turno di notte e arrivò in anticipo di cinque minuti, per quello che sarebbe stato il suo ultimo giorno di lavoro all'abbazia.

Fu, come al solito, insultato e schernito da René e constatò con orrore che Masi era ancora presente, nonostante fossero già passate le 18.

Facendo finta di niente, scese nei sotterranei, salutò le due guardie presenti, pronte ad andarsene, e prese posto al tavolino, appoggiando per terra il suo zainetto e cercando di controllare l'ansia crescente nel petto.

Il piano originale prevedeva di agire la settimana prima, quando sarebbero scaduti i quattordici giorni canonici che in genere passavano tra un incontro e l'altro ma, chissà perché, il direttore non aveva richiesto AR396 nella sua camera alla naturale scadenza, cosa che avveniva tramite un SMS sul suo cellulare, la sera in cui lui faceva il turno notturno.

Quindi aveva rimandato di una settimana, quando gli sarebbe toccato di nuovo lo stesso turno.

Solo lui e René, fra tutte le guardie, sapevano di quegli incontri amorosi. Li aveva convocati nell'ufficio una sera di sei mesi prima, raccomandandosi di non spifferare nulla, soprattutto a Masi. Il tedesco aveva tenuto per tutto il tempo un sorrisetto ironico nascosto tra la sua barba.

«Ricomincia a divertirsi la troietta!» aveva detto con tono sprezzante, mentre scendevano le scale. «Pensavo non ci ricascasse dopo l'ultima volta. Ti consiglio di startene zitto, palla di lardo, se non vuoi finire in mezzo al bosco! Eh, eh!»

Fabio l'aveva guardato storto come al solito e, forse per la prima volta, gli aveva rivolto la parola. «Cosa intendi?»

«AUUUUU!» aveva risposto René. «Torna a grufolare nella merda!» e si era riseduto al suo posto, tirandosi su il cappuccio.


Finalmente, la sera prima, il telefono aveva vibrato e su WhatsApp era comparso il solito messaggio da "DIRETTORE". Il testo diceva "19".

Aspettò fino alle 18.30, quindi abbandonò la sua postazione e si diresse verso la sala. Il lampadario era stato spento e tutto era avvolto nell'oscurità.

Cercando di non far rumore per non attirare l'attenzione di René, si diresse verso lo spogliatoio dove le guardie facevano un po' di capannello prima di andarsene a casa. Era vuoto. Anche Masi sembrava essersene andato.

Si mise seduto sulla panca più vicina, al buio, spostando con la mano quello che sembrava un orologio, probabilmente dimenticato da qualcuno, e trasse due respiri molto profondi, cercando di calmare la crescente agitazione.

Nella sua testa scorrevano tutte le umiliazioni, le prese in giro che aveva subito, le lacrime che, di nascosto, aveva versato e che nessuno aveva consolato. Strinse i pugni e si alzò.

«È giunto il momento di fare i conti!»

Accertatosi un'ennesima volta che tutti se ne erano realmente andati, recuperò una scopa dallo sgabuzzino dello spogliatoio, lasciandola appoggiata al muro a fianco delle scale per i sotterranei, tornò giù e aprì l'ultima cella in fondo.

Assumendo il tono più autoritario che poteva, disse: «NC360, il direttore vuole vederti subito. Voi rimanete sdraiati.»

L'uomo si alzò e lo raggiunse. Richiusa la porta, raccolse il suo zainetto e sgattaiolarono nuovamente al piano superiore.

NC360 si acquattò contro il muro adiacente alla guardiola mentre Fabio, dopo aver estratto una bomboletta dallo zaino, tenendola nascosta dietro la schiena, andò a bussare al vetro, facendo trasalire René che si era mezzo addormentato.

«Cazzo vuoi, ciccione? Come osi venire a rompermi le palle?»

«C'è un problema con un prigioniero. Ho bisogno d'aiuto.»

«E che cazzo vuoi da me? Arrangiati! Non è un problema mio. L'ho sempre detto che i porci non dovrebbero fare questo lavoro!»

«Se c'è un problema di notte, la guardia del portone deve aiutare il guardiano notturno! È la regola. Se vuoi vado a chiedere al direttore e domani poi ne discutiamo con Masi...»

Aveva toccato il tasto giusto.

Imprecando l'uomo si alzò e uscì dalla guardiola.

«Che cazzo è succ...»

Fabio gli infilò la bomboletta dentro al cappuccio e sparò due energiche spruzzate. Il potente narcotizzante fece effetto all'istante. René si afflosciò come un materassino sgonfio.

Fabio prese lo zaino ed estrasse una corda, del nastro adesivo da pacchi e un sacchetto di iuta. NC360 lo raggiunse e l'aiutò a legare l'uomo molto stretto con la corda, chiudendogli la bocca con il nastro. Fecero tre giri intorno alla testa, poi prese il sacchetto e guardò NC360.

«Dai, fallo!» gli disse l'ergastolano.

Il ragazzo guardò l'uomo che tante volte lo aveva insultato e gli piazzò un preciso pugno in faccia, sentendo dolore alle nocche quando colpì il setto nasale. Poi gli infilarono il sacchetto e lo fissarono al collo con dell'altro nastro. Nascosero la scopa sotto al tavolino della guardiola poi, insieme, lo trasportarono nel sotterraneo, fermandosi davanti alla cella di NC360. Fabio aprì la porta, mentre l'altro si appiattì contro il muro, in silenzio.

«Ecco, pezzo di merda! Te ne starai così fino a domani. Così la prossima volta impari a non rispondere!» disse Santini, cercando di caricare la voce di un un'autorità che non gli apparteneva, e sperando di risultare credibile alle orecchie di chi mai l'aveva sentito esprimersi in quel modo.

Gli altri due prigionieri alzarono la testa, cercando di capire cosa stesse succedendo, scrutando nella tenue luce che entrava dal corridoio.

«Guai a voi se provate a toccarlo o a liberarlo! Venti bastonate a testa vi attendono se domattina non lo troviamo così come è adesso!»

Così dicendo uscì e richiuse la porta.

NC360 era già tornato alla guardiola, aveva indossato il giaccone di René e aveva preso il suo posto. Fabio guardò l'ora: le 18.57.

Era il momento, e aprì la cella di AR396.


Alle 19.02 si richiuse la porta del direttore alle spalle, ridiscese le scale e, passando davanti alla guardiola, fece un cenno d'intesa a NC360. Infilò la porta dei sotterranei e raggiunse il corridoio delle celle. Tutto era immerso nel silenzio e le due lampade sul soffitto irradiavano una luce tenue e soffusa.

Accostò l'orecchio a quella che era diventata la momentanea cella di René, ma tutto taceva. La dose di narcotizzante che gli aveva spruzzato sarebbe bastata per almeno quattro ore.

Si sedette al tavolino e cominciò ad attendere, cercando di rilassarsi. Il cuore, che era andato a mille tutto il tempo, cominciava a calmarsi.

La prima parte del piano era andata bene. Ora bisognava proseguire nel modo giusto.


NC360, seduto nella guardiola, nascosto dentro al giaccone, rifletteva.

Non era del tutto convinto da quel piano. Riteneva rischioso indugiare. Mille cose potevano andare storte, e tutto solo per aspettare AR396, Alberto, che se la faceva col direttore. Ma Fabio gli aveva detto che doveva venire anche lui.

Era iniziato tutto un mese prima.

La luce della cella era già stata spenta da un po' e lui era vicino ad addormentarsi, quando la porta si era spalancata e la voce di Fabio aveva interrotto il silenzio.

«NC360, il direttore vuole vederti.»

Lui si era alzato piuttosto perplesso e aveva guardato con aria interrogativa i suoi compagni di cella.

Fabio però non l'aveva portato dal direttore.

Salite le scale e arrivati nella sala grande gli aveva fatto cenno di fare silenzio e di seguirlo. Si erano appiattiti contro il muro di destra, tenendo d'occhio la guardiola, e si erano infilati nella prima porta che avevano incontrato. Si trovavano in una stanza adibita ad archivio, con armadi e scaffali pieni di raccoglitori e da lì si erano spostati nello stanzino successivo, più piccolo, ripostiglio per scope e strofinacci.

«Ascoltami bene perché abbiamo poco tempo» aveva esordito il ragazzone, bisbigliando e piantandosi davanti a lui.

«Nella mia zona abita un vecchio ingegnere in pensione. Probabilmente lo conosci, ma adesso non ho tempo di dirti chi è e che cosa fa, e non è nemmeno importante per il momento. Per cui vengo subito al sodo. Lavoro qui grazie a lui, ma il mio scopo non è sorvegliare ergastolani.» Si era interrotto un momento. «Puoi parlare! Non siamo guardia e prigioniero in questo momento!»

«E cosa siamo, allora?» aveva chiesto NC360, titubante e stranito, soprattutto nel risentire, dopo tanto tempo, il suono della sua voce, seppur bisbigliato.

«Complici, forse. Comunque, il mio scopo è farti uscire.»

«Farmi uscire? Intendi evadere? Scappare?»

«Sì! Il vecchio vuole parlarti. Dice che è di vitale importanza che tu non rimanga più qui dentro.»

«Ma di cosa stai parlando? Per quale motivo?»

«Non lo so. Dice che non può dirmelo, ancora.»

«E tu ti fidi? Mi sembra una cosa un po' senza senso!»

NC360 si era seduto su di un piccolo sgabello dietro di lui.

«Mi fido ciecamente. Ha salvato la mia famiglia da una situazione complicata. Ci ha sempre aiutato in tutto e ha aiutato me. Ripeto, non ho tempo di raccontarti adesso, ma devi credermi. Me l'ha chiesto come favore e io non posso negaglierlo, per quanto rischioso sia. Devi fidarti di lui e anche di me.»

Il prigioniero era rimasto zitto e pensieroso, poi aveva alzato lo sguardo su di lui. «Come facciamo a uscire da qui?»

«Te lo spiego al prossimo incontro. Devo ancora sistemare alcune parti del piano. C'è un'altra cosa. Dobbiamo portare con noi uno degli altri. Il vecchio si è raccomandato su questo punto.»

NC360 aveva ridacchiato. «Addirittura, vorresti farci evadere in due! Tu cosa ci guadagni?»

«Te l'ho detto! Non posso negargli un favore. E non ci guadagno nulla, anzi, in verità rischio molto. Inoltre... potrebbe essere l'occasione per denunciare il direttore e scoperchiare il vaso. Far sapere al mondo cosa succede qui.»

«Tu perché non l'hai mai fatto? Lavori qui da quanto? Da settembre, mi pare...»

«Perché ci fanno firmare un patto di segretezza quando arriviamo qui. Se parlo ci va di mezzo la mia famiglia. Mi dispiace, è egoistico, lo so, ma ne hanno già passate tante...»

«AR396!» NC360 aveva pronunciato il nome senza esitazione.

«Cosa?»

«AR396! Portiamo lui. È l'unico che mi ispira fiducia. Non so perché ci serva qualcuno, ma qualunque sia il motivo non sceglierei nessun altro.»

Fabio aveva annuito.

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